“Save the Mafia Children. Liberi di scegliere. Un modello italiano nella lotta contro la criminalità organizzata” di Giuliana Adamo

Prof.ssa Giuliana Adamo, Lei è autrice del libro Save the Mafia Children. Liberi di scegliere. Un modello italiano nella lotta contro la criminalità organizzata, edito da Castelvecchi, che racconta l’azione del tribunale dei minori di Reggio Calabria e del suo presidente, Roberto Di Bella, nella lotta di contrasto alla ’ndrangheta: quale modello ha inaugurato?
Save the Mafia Children. Liberi di scegliere. Un modello italiano nella lotta contro la criminalità organizzata, Giuliana AdamoQuesto libro parla della nuova strategia, proposta da un magistrato italiano, per combattere la criminalità organizzata. Strategia che, in nome della tutela dei minori “figli di mafia” e in virtù di una nuova prospettiva culturale, può concretamente contribuire a fare di più. Il problema dei figli della ’ndrangheta – mafia basata sul vincolo di sangue e, quindi, soggetta alla trasmissione della mafiosità da padri a figli – è cruciale. I bambini mafiosi di oggi sono destinati ad essere gli adulti mafiosi di domani. Grazie al rivoluzionario progetto – giuridico e sociale – “Liberi di scegliere”, Roberto Di Bella, Presidente del Tribunale per i Minori di Reggio Calabria (dal 2012 al settembre 2020) in collaborazione con il Procuratore della Repubblica Giuseppina Latella, ha lanciato una controffensiva senza precedenti contro la ‘ndrangheta. Ai figli di dichiarati mafiosi (condannati al 41 bis, latitanti, morti ammazzati in faide etc.) si offre la possibilità di trovare la propria strada verso quella libertà di scelta e di azione negata dalle famiglie e dall’ambiente criminoso di provenienza. Un ambiente malsano, pervaso e contaminato da una subcultura mafiosa che, particolarmente in Calabria, si fonda sul legame di sangue. Legame difficilissimo da allentare, scardinare, per non dire tranciare.

Di Bella, a partire dal marzo 2012, ha promosso un protocollo e un progetto – clamorosi e inediti -, accorpati sotto il titolo performativo “Liberi di scegliere”, che investe la sfera giuridica e quella sociale. E in quest’ultima – dove lo Stato è poco presente e latita molto -, è aiutato dalla poderosa, impagabile attività di associazioni di volontariato, tra cui Libera e AddioPizzo Messina, che è la vera bellezza d’Italia. La strada percorsa è stata irta di ostacoli e di successi. Accompagnata da diffidenza, ostilità, minacce di morte. Ma anche da solidarietà, coraggio, condivisione. E l’azione intrapresa dal piccolo tribunale reggino è rimbalzata sin dai suoi albori in tutta la stampa estera che conta, basti fra tutti il «New York Times», mentre a lungo in Italia, tranne per qualche coraggioso giornalista locale, era rimasta oscurata. E questo deve fare riflettere. Ultimamente, comunque, il caso Di Bella è finalmente divenuto oggetto dell’attenzione anche dei media italiani, inclusa RaiFiction (si veda il film Liberi di scegliere di Giacomo Campiotti, uscito nel 2019).

Di Bella, novello David, ha cambiato rotta nella lotta alla ‘ndrangheta, sempiterno Golia: se mafia di sangue è – non solo per il sangue dei tradizionali riti di iniziazione e per quello che causa, ma per i forti legami e vincoli familiari che la caratterizzano-, allora la mossa migliore è intervenire su quei legami. Metterli in discussione; mostrarne la relatività – garantita dalla legislazione nazionale e internazionale per i Diritti del Fanciullo – negandone l’assolutezza (figli come proprietà privata, oggetto della trasmissione coatta della propria mafiosità); sospenderli per migliorarli quando possibile (il progetto riguarda anche il coinvolgimento dei genitori che accettino di intervenire, per rivederla, sulla propria responsabilità genitoriale); o, quando necessario, reciderli (e qui entrano in gioco anche le madri coraggiose che accettano di cambiare vita entrando nel sistema di protezione che lo Stato garantisce ai collaboratori di giustizia). La storia dell’operazione di Di Bella è specularmente intrecciata alle storie disperate dei figli, giovani e giovanissimi, di genitori e parenti ‘ndranghetisti condannati al carcere duro del 41bis, o latitanti, o morti ammazzati. Storie di disperazione individuale e sociale, di squallore e di vuoto culturale, di atroce solitudine. Storie di drammi e tragedie familiari, le cui vittime sono soprattutto mamme e figli. Tutti chiamati a pagare il prezzo altissimo della loro appartenenza familiare.

Il progetto di Di Bella ha cominciato a prendere forma in seguito alla trappola mortale messa a punto dalla famiglia Cacciola (genitori e fratello) che costò la vita alla 31enne suicida Maria Concetta detta “Cetta”. Per eliminare la figlia infame, reietta traditrice per ben due volte: contro la famiglia biologica (aveva un nuovo interesse -ancora solo virtuale – per un uomo conosciuto in rete mentre il marito violento e mafioso, mai amato, impostole giovanissima dalla famiglia, padre dei suoi tre bambini, era condannato al 41bis e stava in galera) e contro la ‘drina di appartenenza (Cetta denunciò alle autorità i mali affari della sua famiglia legata al temibile clan ‘ndranghetista Pesce-Bellocco. Entrò nel programma di protezione. Cambiò città. Ma il legame coi suoi tre bambini – lasciati in custodia alla famiglia -, e usato da sua madre per richiamarla a Rosarno, in Calabria, le è costato la vita per ingestione di acido muriatico). Ed eccoci arrivati al punto di partenza di Di Bella: dopo la morte della loro mamma, che fine avevano fatto i suoi tre bambini? I minori il cui Tribunale era stato chiamato a presiedere? Venne riaperta la pratica che liquidava la morte di Cetta come “suicidio”. I familiari vennero arrestati per istigazione al suicidio. I tre bambini, vessati e maltrattati, tolti alla loro infame potestà genitoriale e affidati ai servizi sociali. Il caso di Cetta e delle altre sue precorritrici, tra cui si staglia Lea Garofalo, è argomento della sezione Via crucis nel IV capitolo del libro dedicato alle donne.

Ed ecco, quindi, il nodo della questione su cui si fonda l’azione di Di Bella: nella ‘ndrangheta famiglia biologica e famiglia mafiosa coincidono. E chi nasce in simili famiglie – capitanate da maschi alfa (ma sempre più anche da padrine vicarie in absentia dei maschi per carcere, latitanza o morte. E di queste donne tratta la sezione “Padrine di mafia” nel IV capitolo del libro) dalla forma mentis criminale, acquisita anche nel loro caso per trasmissione familiare, che precludono confronti e dialoghi imponendo il loro modello di vita, l’unico che conoscono – è destinato, per imitazione e per lavaggio del cervello fin dalla nascita, a perpetrarne il credo e le gesta. Tutti i piccoli imparano per imitazione dai grandi a loro più vicini. E se sei nato in una famiglia di ‘ndrangheta e in un contesto familiare, sociale e subculturale mafioso, cresci assimilando acriticamente tutti i disvalori e i codici degli adulti che ti circondano e, da grande, farai il mafioso anche tu. Perché è quello che ci si aspetta da te. Perché non hai scelta. Perché non puoi venire meno al patto che costituisce l’anima nera della ‘ndrangheta. Onorata famiglia dove entri col sangue ed esci per sangue. Altre possibilità non ne esistono. E tutti coloro che ne stanno fuori o contro sono infami che vanno ridimensionati o eliminati.

È qui che Di Bella ha voluto intervenire. Proponendo un progetto sociale di rieducazione dei minori e dei loro genitori (se accettano) coinvolti nel malaffare e nella subcultura ‘ndranghetiste accanto ad un protocollo giuridico che consiste – per la prima volta nella storia della lotta contro la mafia in Italia -, nell’applicare alle famiglie mafiose le leggi già esistenti riguardanti la salvaguardia e la tutela dei minori di famiglie ritenute dalla legge, oltre ogni ragionevole dubbio, non adatte a farli crescere e a formarsi in nome della legalità e del rispetto degli inviolabili diritti del fanciullo. In breve: così come la legge per il bene dei minori interviene a sospendere o togliere la potestà genitoriale in casi di famiglie con genitori drogati o condannati per gravi reati etc., così Di Bella, in casi di inconfutabile gravità giuridicamente dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio, ha proceduto, su richiesta della Procura Minorile, a temporaneamente limitare o levare la potestà genitoriale a padri (sempre), madri (a volte), parenti (di frequente) ‘ndranghetisti. Questa è la rivoluzione – universalmente conosciuta e approvata – di Di Bella.

Il quale ricorda che oggi il medesimo Tribunale reggino, coadiuvato dalla Procura della Repubblica per i minorenni, si trova a dovere giudicare i figli o i fratelli di coloro che erano stati processati negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila, tutti appartenenti alle storiche famiglie mafiose del territorio. Famiglie note a tutti gli italiani: Alvaro, Aquino, Cataldo, Condello, Cordì, Cutro, De Stefano, Ficara, Gallico, Grande Aracri, Macrì, Mancuso, Mazzaferro, Morabito, Nirta, Papalia, Pelle, Pesce, Piromalli, Romeo, Serraino, Strangio, Vottari, Zappia, ecc. Le cronache sono piene dei loro nomi, e di quelli dei loro luoghi di provenienza: Africo, Bovalino, Capo Rizzuto, Gioia Tauro, Limbadi, Locri, Marina di Gioiosa Ionica, Platì, Reggio Calabria, Rosarno, San Luca, Siderno, Sinopoli. Basta un click in internet, su uno qualsiasi di questi nomi, per essere travolti da valanghe d’informazioni sulle loro azioni criminali, che lo Stato cerca di contrastare con operazioni antimafia dai titoli indicativi (Fehida, Eclissi, Cosa mia, Mandamento, ecc.). Ma, nonostante i risultati spesso eccellenti, come quelli coordinati da Nicola Gratteri, l’azione di contrasto non è sufficiente.

In che modo tale modello costituisce un importante cambiamento di paradigma nella storia della lotta alle mafie?
Perché si tratta di un’azione giuridica e sociale, nè moralistica né punitiva, bensì costruttiva che tocca il nervo vitale su cui si basa il sistema ‘ndranghetista: la famiglia. Un’azione che a chi ha la coscienza sporca appare negativamente destruens, ma che in realtà è positivamente construens in nome dei minori. Un’azione che mira al recupero, alla ricostruzione, al ri-orientamento, in nome della libertà individuale di scelta, delle vite di giovani e giovanissimi individui altrimenti abbandonati e condannati a divenire criminali integrati in un tessuto familiare e sociale criminoso e degradato che non offre alternative, se non morte prematura o carcere duro. Chiuso al dialogo. Ostile a qualsiasi dialettica e cambiamento. Schizofrenico: modernissimo nell’impiego delle nuove e più sofisticate tecnologie per fare girare la sua potentissima e globale finanza nera ma ultra-reazionario per quanto riguarda il presunto codice d’onore, l’appartenenza e le gerarchie familiari, il ruolo di ciascun membro della famiglia/’ndrina, etc. Il protocollo e il progetto “Liberi di scegliere” mira a scardinare tutto questo. E il piccolo tribunale reggino è il primo avamposto in questa battaglia che si prospetta ancora lunga e difficile, ma che ha già raggiunto significativi risultati. Il mio saggio si rivolge ai lettori per una conoscenza e condivisione dell’operato di Di Bella e della Latella e ai Parlamenti italiano e dell’UnioneEuropea, perché si adoperino in tempi celeri a coadiuvare l’azione iniziata dal Tribunale e dalla Procura minorile di Reggio Calabria, e seguita dai Tribunali minorili di Catania e Napoli, nella trasformazione del progetto “Liberi di scegliere”, ratificato dal governo italiano nel 2017, supportato dal CSM e dalla Regione Calabria, in una Legge nazionale e, quindi,in una Direttiva europea per contrastare a livello più ampio ed efficace la mafia che, è un fenomeno globale che ci riguarda tutti da vicino e i cui effetti devastanti hanno come vittime i più fragili, tra cui donne e bambini (il III capitolo del libro, Requiem mafiosa è dedicato agli elenchi di madri e bambini uccisi, morti per mafia). Sulla necessità di una lotta globale contro la mafia giunge il reiterato monito di Gratteri, magistrato fra i più esposti nella lotta alla ’ndrangheta, e di Nicaso, massimo esperto al mondo di ’ndrangheta, che ribadiscono che combattere la mafia “su scala planetaria diventa ogni giorno più faticoso: la differenza dei sistemi giuridici, la mancanza di reati associativi e la difficoltà di globalizzare l’azione di contrasto favoriscono tutte le mafie che, invece, riescono sempre più a collaborare a livello internazionale”.

La situazione si fa ogni minuto più complessa a livello nazionale e internazionale. All’azione delle autorità competenti e delle forze dell’ordine si affiancano sempre più i contributi di intellettuali e artisti e il coinvolgimento di milioni di volontari e di persone oneste impegnate nella lotta alle mafie. Ma l’ultima relazione della DIA è categorica: i boss mafiosi – sempre più giovani, violenti e social – sono «la linfa delle mafie». Ecco perché l’azione di Di Bella è essenziale. Coerente al credo di Falcone sulla primarietà della buona scuola nella lotta alle mafie, “Liberi di scegliere” concorre a promuovere e implementare un necessario, non più procrastinabile, cambiamento di paradigma culturale. Sostituendo, via via, una cultura fatta di legalità, di rispetto dei diritti e della libertà individuale ad una subcultura fatta di illegalità, di disprezzo dello Stato e di schiavismo mafioso.

La ’ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa in Italia in grado di contare su un’organizzazione basata prevalentemente sul vincolo di sangue: quanto è pericolosa?
La pericolosità della ‘ndrangheta è enorme, oltre a quella interna esercitata nelle proprie famiglie e tra ‘ndrine rivali (si pensi alle micidiali faide) basti pensare che ad oggi è l’organizzazione criminale più potente del mondo. E a questo proposito è ottimo il saggio, ricco di dettagli e basato sui fatti, di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, Fratelli di sangue. Storie, boss e affari della ’ndrangheta la mafia più potente del mondo (2008). Da questo potere immenso si arguisce il giro d’affari che riguarda tutti i continenti, la sua manus longa e nera che arriva dappertutto, detta legge, taglia teste, impone la sua volontà, avvelena lo spazio pubblico e privato. Di questo leggiamo ogni giorno sui giornali e sui social. Ma leggiamo affrettatamente, saltando da un argomento serio, micidiale – che, benché a nostra insaputa, ci riguarda e coinvolge tutti – alle res gestae dell’influencer di turno o al bla bla da campagna elettorale della maggioria dei nostri politici.

Nel mondo della ‘ndrangheta tutti i rapporti sono complessi, sfaccettati, plurivoci e, quindi, ricchi di contraddizioni. Incluso quello tra padre e figli. Esiste molta letteratura a riguardo e altro ancora si scriverà. Però, richiamando alla mente i casi più difficili e spinosi, colpisce sempre il gran «guazzabuglio del cuore umano» (Manzoni). Si pensi a mafiosi condannati al 41 bis per crimini efferati che hanno condotto e imposto ai propri cari delle vite tremende ed immonde ma che, forti della loro genitorialità percepita come assoluta ad ogni costo, esprimono odio e risentimento nei confronti del Tribunale che ha allontanato i figli dalla casa paterna, mostrando un tenace legame e un profondo affetto per la propria prole. Sono gli stessi individui che – dediti a una delle attività più importanti della ’ndrangheta, cioè il traffico di cocaina, la cui filiera comincia dai campi sudamericani dove sono sfruttati eserciti di minorenni malnutriti – non hanno mai mostrato nessuna pietà per quei bambini-schiavi figli di genitori indigenti e disperati dell’altra parte del globo. Bambini anche quelli. Utilizzati dai narcos nei laboratori impiantati nella giungla colombiana per produrre cocaina.

Le foglie di coca, assieme ai diversi precursori chimici, vengono calpestate per farne una poltiglia, la cosiddetta “pasta di coca”, da bambini a piedi nudi. E gli effetti di quella sostanza sui piedi sono devastanti. In nome della coca (e altro), dai bambini contaminati chimicamente del Sud America, ai figli dei propri rivali calabresi uccisi e vittime di faide e violenza, ai propri figli destinati a diventare mafiosi senza possibilità di scelta, si può intuire la portata del problema riguardante l’infanzia e l’adolescenza nel mondo mafioso e in quello ’ndranghetista in particolare.

Soffermarsi sui territori geografici e culturali in cui la ’ndrangheta vive, prospera e impera non è impresa semplice. Col mio saggio ho tentato di delineare una realtà particolare per vedere da vicino come ci si può opporre significativamente alla cultura mafiosa. Le modalità in cui questo può avvenire fanno da corollario alla tesi di Giovanni Falcone secondo cui nella lotta alle mafie: «Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture adeguate e soprattutto se le strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati». Parole che costituiscono la sostanza del progetto “Liberi di scegliere”, fondamento dell’operazione di «infiltrazione culturale» promossa da Di Bella.

Tra i minori su cui si sofferma nel libro ci sono adolescenti assassini, trafficanti di stupefacenti e di armi, estorsori: quali casi l’hanno colpita di più?
Quelli dei bambini più piccoli, che vedono nel padre mafioso un eroe virtuoso, credono alle sue menzogne e imitano le sue azioni, Con innocenza, e con la gioiosa soddisfazione di vedersi approvati da lui. Come fanno tutti i bimbi del mondo. Nel libro, per la legge sulla tutela dei minori, ho omesso i loro nomi propri e li indico con iniziali fittizie.

E tra loro non può non colpire la drammatica microstoria di V., il più giovane collaboratore di giustizia nella storia dell’antimafia, che all’età di undici anni, nell’agosto-settembre del 2015, ha rilasciato – nella sua lingua ancora infantile ma agghiacciantemente già adulta -, importanti dichiarazioni al pubblico ministero ordinario. V. parla nell’ambito del processo Eclissi, tra i cui imputati c’era suo padre, arrestato quasi un anno prima e attualmente condannato al regime duro del 41 bis perché colpevole del reato di associazione mafiosa secondo l’articolo 416 bis.

Perché un millennial di undici anni – calabrese, italiano, europeo – nel 2015 si deve trovare davanti a un pubblico ministero a raccontare di armi, di organizzazione di traffici di droga, di strategie commerciali illegali nel porto di Gioia Tauro, di come si riempiono i container di polvere bianca, di come vengono decise e studiate le rotte della cocaina per evitare i controlli, di violenza e prevaricazione? E V. parla con grande affetto per il padre, non lo può certo sfiorare il dubbio che le sue parole lo condanneranno. Di mafia certo, ma è pur sempre solo un bambino.

Questo libro parla dei bambini della mafia, della vita che fanno, di quella che gli è negata, di quella che potrebbero fare se potessero essere liberi di scegliere.

Non mancano nel racconto bambini e bambine piccoli, vittime innocenti della violenza e dei codici mafiosi all’interno della loro famiglia: come si realizza il condizionamento mafioso delle loro vite?
Onore, rispetto, sacralità: i termini fondatori e menzogneri della ‘ndrangheta. Mi ci soffermo in particolare nell’antefatto che apre il I capitolo intitolato ‘Bambini’. Dopo l’infanzia, i giovani mafiosi diventano a loro volta criminali in un sistema più grande di loro che ha parecchi tratti in comune con il totalitarismo. La ’ndrangheta è una mafia che non concepisce altro da sé. Non ammette confronti né mediazioni. È un mondo dicotomico basato su nette opposizioni di valori: noi/loro, buoni/cattivi, amico/nemico, mafia/Stato, vita/morte.

Quando si nasce dentro questo mondo, è molto difficile venirne fuori. Se lo fai sei un infame, un traditore e, spesso, meriti la morte. Non perché chi ti uccide è cattivo, anzi si sente nel giusto. Ma perché non c’è stato niente da fare. Non l’hai voluto capire che non puoi sottrarti alla tua appartenenza alla Sacra Famiglia Mafiosa. Quella che va a messa tutte le domeniche. E, secondo la propria importanza e ricchezza, finanzia le processioni, incluso l’inchino ossequioso del santo festeggiato davanti alla propria abitazione. Per esibire e perpetuare il proprio potere, ancora più legittimato dall’uso delle statue in legno di madonne e di santi. Per garantirsi quella pubblicità di cui la mafia non può fare a meno come ripete sempre Gratteri. Sacra famiglia dove, però, è vietato disubbidire. E se lo fai?

‘Beh, allora, peggio per te. La paghi cara. Eppure segnali te ne avevamo mandati tanti e diversi fin dalla tua nascita. Ci avessi ascoltato… Te lo avevamo detto e ridetto. E fatto capire. Che noi, e solo NOI, siamo la tua famiglia. Ti diamo appartenenza, protezione, legittimazione, potere. Senza di noi saresti una nullità, un quaquaraquà. Nessuno ti presterebbe attenzione e rispetto. Nessuno ti si filerebbe. Saresti solo un povero sfigato che guadagna poco e magari paga pure le tasse allo Stato infame. Guarda, invece, come siamo noi. E cosa facciamo noi per te. Cosa puoi diventare grazie a noi. Come tutti ti rispettano e cedono il passo grazie a noi. Un figo. Ma purtroppo non ci hai ascoltato. Hai voluto fare di testa tua. Ti sei dissociato e ci hai tradito: brutto infame! Povero stronzo… dove credevi di andare? Cosa credevi di fare? Non l’avevi capito che liberarti di noi è impossibile? Che o sei nostro o sei finito, morto? Che altro potevamo fare? Sei tu che ci hai costretto ad ammazzarti. Noi siamo in pace con noi stessi. Anche la madonna del santuario di Polsi ci protegge, e lo sai. La invochiamo e preghiamo mentre ti ammazziamo. Noi siamo nel giusto. Tu no. Ma guarda che scostumato. Senza rispetto né onore.’… Questa rapida sequenza vuole dare un’idea della logica di chi fa male credendolo bene. Nella ’ndrangheta si entra col sangue (il taglio sul dito previsto nel rito d’iniziazione) e si esce col sangue (violenza e morte). I semi di questo modus pensandi vengono impiantati nell’individuo fin da piccolo da padri a cui, a loro volta, sono stati impiantati dai propri padri, e così via a ritroso. La pedagogia del “disonore” è strumento socio-culturale per crescere generazioni di persone sottomesse ai voleri di un’autorità assimilata come onnipotente e indiscutibile, analoga a quella avvertita dai bambini nei riguardi dei propri genitori.

In questi ultimi ventisette anni il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha trattato, nei confronti di minori (14-18 anni), più di cento processi per reati di associazione mafiosa, secondo l’articolo 416 bis del corrente Codice penale italiano, e oltre cinquanta processi per omicidi o tentati omicidi. È sufficiente a darci un’idea di cosa significhi essere un figlio di ‘ndrangheta? Di tutto questo mi occupo particolarmente nel I capitolo ‘Bambini’.

Quale bilancio si può trarre dall’azione del tribunale di Reggio Calabria?
Ad oggi sono oltre sessanta i ragazzi di famiglie di ’ndrangheta trattati dal Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria. E, segno positivo di un cambiamento importante, Di Bella racconta che sempre più donne di ’ndrangheta, in incognito, eludendo famiglia e controlli (tra cui avvocati di famiglia o d’ufficio, mediatori) lo contattano direttamente e vanno a trovarlo per comunicargli il loro disagio e informarsi di quel che si può fare per il futuro dei loro figli. La casistica è varia. Tra i ragazzi ci sono veri criminali: coinvolti in omicidi, rapinatori, micro-delinquenti. Lo Stato, con lo strumento giuridico messo a punto da Di Bella, può intervenire fino a un certo punto, cioè, nei casi più gravi, fino alla sentenza di cessazione della responsabilità genitoriale del padre (e, in certi casi molto gravi, anche della madre) e l’affidamento dei minori a case-famiglia e Servizi Sociali. Ma è proprio qui che lo Stato continua ad essere assente: il dopo di questi giovani è un salto nel buio. Soccorrono, come abbiamo accennato, le formidabili associazioni di volontariato. In primis, come sempre nella lotta antimafia, Libera di Don Ciotti. La maggior presenza dello Stato dopo l’azione giuridica, che è la sostanza dell’accordo firmato il primo luglio 2017 (e rinnovato di recente il 31 luglio 2020), è indispensabile. Il sistema di protezione di madri e minori che fuggono dalla ’ndrangheta deve essere esteso e potenziato.

Le mancanze in questo settore sono costate la vita, tra le altre, a Lea Garofalo e hanno avuto conseguenze nefaste per Cetta Cacciola. Mentre il caso di Giuseppina Pesce, della potentissima ‘ndrina omonima, rappresenta un buon esempio da prendere a modello: i suoi tre bambini hanno potuto raggiungere la madre nella località protetta. In casi come questi la decisione dei magistrati reggini è necessaria non solo per la tutela dei minori, ma anche per garantire il proseguimento della collaborazione con la giustizia da parte delle madri. Sapere di poter portare i figli con sé, incoraggia le donne ad affrancarsi dalla famiglia d’origine. La ’ndrangheta teme molto più questo che non le operazioni delle forze dell’ordine. Ciò che più li spaventa è l’allontanamento dei minori dalle proprie famiglie. Senza soldati, la ’ndrangheta che esercito è? Come fa a funzionare? In una delle intercettazioni relative al caso Cacciola, il semi-analfabeta padre Michele (parte attiva nel discredito e nella morte atroce di sua figlia Cetta) dice:

Avevo una famiglia che… che me la invidiavano. Guarda questi indegni di merda, guarda! Mi divertivo a guardarli a questi nipoti. Il giorno chi c’era più contento di me, chi c’era più contento di me. Almeno mi hanno lasciato questi, ma mi hai preso la figlia. Oh indegni gli prendete i figli ai padri, ai padri… ai padri gli prendete i figli, dov’è questa legge? Questa legge è? Per combattere a me mi prendi la figlia?! Per combattere a me?!”.

Poche parole in grado di far luce in diretta sulla mentalità di un ‘ndranghetista e sulla portata di questi provvedimenti antimafia volti salvare i figli dalle mafie. Togliere a Cesare quel che non è di Cesare – perché Cesare non lo merita – è la strada da continuare a percorrere. Ecco, quindi, perché è essenziale contrastare la subcultura mafiosa con le armi della cultura, le uniche in grado di fornire, fin dalla più giovane età, gli strumenti intellettuali, dialettici e critici, per sottrarsi all’influenza mafiosa. Il fine dell’operazione del Tribunale e della Procura per i minorenni di Reggio Calabria, è costruttivo per i figli e non distruttivo per le famiglie. Le misure necessarie per tutelare un minore non consistono unicamente nella separazione tra padri e figli e nell’allontanamento di questi ultimi dalla casa natale, ma, come già accennato, prevedono anche un fondamentale lavoro parallelo di recupero delle responsabilità dei genitori (detenuti e non), quando questi ultimi, superata ogni resistenza, accettino di intraprenderlo. I firmatari del documento hanno ben chiaro che per dare ai minori della ’ndrangheta un’effettiva chance di vita che si svincoli e superi quella imposta loro dalla famiglia e dall’ambiente di appartenenza, è necessario offrirgli percorsi rieducativi nell’ambito civile e in quello penale, riducendo al minimo il loro inserimento in comunità.

La volontà è quella di affidarli a famiglie di volontari (delle associazioni come Libera, Gerbera Gialla, Addiopizzo) in modo da esporli ad altre realtà, ambienti, stimoli, persone. Si ricordi, inoltre, che gli affidi a comunità o famiglie sono sempre temporanei. L’obiettivo del protocollo, con la sua sottesa rete di contatti, è (quando possibile) la rieducazione parallela e il ricongiungimento, sotto la protezione dello Stato, tra figli e almeno un genitore: di solito la madre, dato che i padri sono spesso incarcerati al 41 bis, latitanti o morti ammazzati. Il protocollo ha una duplice efficacia: salva i bambini e recupera i genitori, in primis le mamme, ma, ora anche i padri cominciano ad essere coinvolti in questo circuito virtuoso (di questo inedito e inaspettato fenomeno parlo nella sezione’Voci dal carcere’ nel Capitolo 5 intitolato Exultate justi).

Cito a memoria Di Bella che sottolinea che nessuno può pensare di dire che togliere dei minori da queste logiche può essere toglierli dagli affetti, infatti in tutti i casi sono provvedimenti circoscritti e temporanei e non si recidono mai i legami familiari ma si dà loro la possibilità di scegliere, di scoprire che il mondo è altro, che possono come tutti i giovani esplorare le loro aspirazioni, le loro attitudini, scegliersi il proprio partner senza vincoli. E, nonostante attacchi, minacce e maldicenze, che Di Bella sia nel sia nel giusto lo dimostrano, per prime, le mamme calabresi di ’ndrangheta. Importante, a questo proposito, il recente fenomeno delle «vedove bianche» (Di Bella). Si tratta di donne di ’ndrangheta tra i venti e i quaranta anni con figli ancora piccoli, che hanno mariti mafiosi condannati all’ergastolo o a pene detentive di lunga durata, di solito con regime da 41 bis. “Vedove bianche” perché i mariti sono nel cimitero vivente (carcere) e le famiglie, a loro volta, le imprigionano nel loro ruolo impedendo loro di avere relazioni esterne (sentimentali manco a parlarne) e condannandole a una vita di solitudine, soprusi, prevaricazione, violenza fisica e anche peggio qualora volessero e tentassero di ribellarsi (i casi di Lea Garofalo e Cetta Cacciola docent). Da qualche tempo, però, qualcosa sta cambiando. Si è diffusa la notizia che i magistrati possono aiutare le persone in difficoltà e alcune di queste donne stanno trovando il coraggio di presentarsi al Tribunale per i minorenni reggino in cerca di assistenza e protezione. Di Bella fa notare che anche grazie ai loro provvedimenti ci si accorge che i ragazzi sono plasmabili e quella che sembra una società familiare impenetrabile invece è un tessuto che non è inossidabile. Stanno scuotendo le famiglie dalle fondamenta. Si stanno verificando delle dinamiche nuove. Ci sono madri che vengono a chiedere aiuto. A volte in segreto, piangono, sono disperate. Vengono dai magistrati che si occupano dei loro figli e, dopo sofferte deposizioni e lunghi pensamenti e ripensamenti, chiedono di essere “liberate” e di essere aiutate ad andare via dalla Calabria con i loro figli al seguito o al seguito dei loro figli che sono stati già allontanati. Alcune hanno iniziato dei percorsi di collaborazione con la giustizia, altre invece, pur non collaborando, vogliono aiuto per dissociarsi e conquistare la libertà. Vanno via, poi ritornano, sempre di nascosto, e gli chiedono di allontanare i loro ragazzi, gli chiedono di essere aiutate ad andare via dalla Calabria con i loro figli. Sono segnali molto importanti, impensabili fino a qualche anno fa. Al momento tra collaborazioni e dissociazioni sono oltre una decina, ma l’elenco è destinato ad allungarsi.

Fatti che costituiscono un segno rincuorante per chi si è dedicato a questa impresa ed è costretto a vivere da anni sotto scorta con enormi responsabilità e limitazioni alla sua vita privata. Il fenomeno delle vedove bianche rappresenta un fenomeno importante che indica l’aprirsi di crepe nel compatto involucro entro cui ha sempre covato e vissuto la ’ndrangheta. Le figlie, sorelle, mogli di boss che oggi stanno decidendo di farsi aiutare dallo Stato attestano, dall’interno del mondo ’ndranghetista, la validità dell’azione del Tribunale e della Procura per i minorenni di Reggio Calabria. Sottolinea Di Bella che si tratta di un fenomeno crescente, e che non sono più avvertiti come un’istituzione nemica ma come l’ultima spiaggia in un mare di illegalità, carcerazione e sofferenza. È uno scenario nuovo, psicologico e sociale inedito ma, oltre che di volontari, c’è bisogno di un circuito normativo e ministeriale che li sostenga. Ad oggi, secondo le parole del magistrato, sette sono le donne che il suo Tribunale ha aiutato ad allontanarsi dai territori minati dalla mafia, e una decina quelle che agiscono in silenzio, chiedendo di allontanare i loro bambini e di aiutarle. Di tutto questo si discute in ‘Madri coraggio’ e ‘Vedove bianche’ nella sezione Fiat lux del IV capitolo del libro.

Di Bella ha concluso il suo mandato a Reggio Calabria il 9 settembre 2020 e ora prosegue la sua attività come Presidente del Tribunale per i minorenni di Catania. Il progetto “Liberi di scegliere” continua e il protocollo è stato rinnovato proprio di recente, il 31 luglio 2020. Il Ministero della Pubblica Istruzione, anche se Di Bella non è più a Reggio Calabria, è in procinto di nominarlo in qualità di esperto e in tal modo potrà partecipare alle riunioni del tavolo tecnico di coordinamento previsto dal protocollo. Per continuare la sua coraggiosa opera nella speranza che diventi legge d’Italia, legge per tutti noi.

Giuliana Adamo dopo una laurea in Filologia Italiana a Pavia e un dottorato in Teoria letteraria e Storia della lingua a Reading (Gran Bretagna), è Fellow del Trinity College di Dublino dove insegna Italianistica. Fulbrighter e Visiting Professor in varie università in USA, Europa e Cina. Tra i suoi lavori di materia civile: Vittore Bocchetta: una vita contro. Ribelle, antifascista, deportato, esule, artista (CUEC 2012; Castelvecchi, prossima pubblicazione); Contro la pedagogia del disonore (con Antonio Nicaso), in L’intervento con gli adolescenti devianti, Biscione e Pingitore (eds.; Franco Angeli) 2015; Antigiudaismo. La tradizione occidentale (trad. it. con Paolo Cherchi; Viella 2016).

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