
Il termine filosofia ebraica risale piuttosto alla speculazione cristiana sui principi fondamentali dell’universo che risiedono nella parola rivelata da Dio che crea. Il fondamento della creazione (che è parola) e della conoscenza di Dio (che è al di là della conoscenza umana) formano i pilastri di quella che sarà chiamata philosophia hebraeorum. Questo è stato possibile anche grazie alle speculazioni neo-platoniche sulla magia della parola e kabbalistico-mistiche dell’età tardo-antica e soprattutto medievale. La filosofia ebraica deve intendersi dunque come un atto di individuazione che consiste appunto nell’identificare i principi fondamentali universali pervenuti al mondo cristiano tramite una genealogia della conoscenza che risale ad Adamo e poi va da lui ai Patriarchi (etc.) fino all’evento salvifico, che, per i cristiani, è l’avvento di Gesù di Nazareth. Nella logica cristiana (ma anche ebraica) i Greci con la loro filosofia avrebbero solo “rubato” ai patriarchi ebrei le loro idee, i loro principi, le loro scoperte. Sarà proprio il periodo moderno che demistificherà questa catena della tradizione gnoseologica riportando i “filosofi antichi” alla storia, ri-sistemandoli – come dire – al loro posto, ma sarà anche il periodo moderno ad allontanare il cristianesimo dall’ebraismo. L’ebraismo ha usato l’espressione “filosofia ebraica” solo a partire dall’Ottocento.
L’oralità rappresenta un tratto distintivo della sapienza ebraica.
Secondo la tradizione ebraica, se i pagani non avessero respinto la Torah, la Torah non sarebbe stata dono esclusivo del popolo d’Israele. Al Sinai l’offerta divina, così pensavano i rabbini, sarebbe stata in primo luogo per le «nazioni del mondo» (‘ummot ha-‘olam): cioè rivolta e diretta a loro, che però l’avrebbero rifiutata o si sarebbero dimostrate del tutto disinteressate. Il mondo rabbinico va tuttavia oltre questo elemento di distinzione. Infatti, ha preso coscienza di un fatto importantissimo: la Torah scritta era diventata dominio pure dei cristiani e di chi, come gli gnostici, la usavano per i loro scopi. Nell’ebraismo si arriva, così, alla precisazione che l’oralità della Torah fondi e fonda il discrimen tra Israele e le nazioni del mondo.
Definire cosa si intende per possesso della sapienza – alias la definizione del possesso della sapienza – è, di certo, un processo ermeneutico che presuppone il momento orale, l’oralità, ed è tale in quanto ricerca dell’interpretazione (qui la fase dell’insegnamento) della Torah scritta; essa però fonda l’esistenza e l’elezione del popolo d’Israele su criteri che sfuggono alla cognizione e alla conoscenza. Nell’affermare che il possesso della Torah orale costituisca i misteri di Dio, l’Ebraismo rabbinico segna un passo decisivo nella concezione esoterica della sapienza, come sapere rivelato e tramandato in modo misterico.
Quale rapporto esiste tra cultura ebraica, pensiero greco–romano e cristiano?
È difficile rispondere a questa domanda in modo breve ed esaustivo. È una questione a cui sono stati dedicati tomi, intere biblioteche. La cultura ebraica nasce come cultura orientale, poi diventa cultura europea e trans-europea fino a esistere a tutt’oggi. Il pensiero greco-romano invece appartiene alla storia. Meglio, è legato alla storia greco-romana e non supera la storia, almeno nei suoi miti. Più nello specifico: non esiste una religione greco-romana o un pensiero greco-romano, oggi, con degli adepti, sebbene tale pensiero abbia gettato le fondamenta dell’Europa fin dalle origini.
Quanto al cristianesimo, figlio della cultura ebraica e della cultura e filosofia greco-romana, è stato ed è una religione dominante, che non può essere ridotta a un modello con cui confrontarsi o da confrontare. Una comparazione tra le tre dimensioni, nel mondo culturale antico e moderno, presuppone l’uso delle categorie del tempo e dello spazio: ma questo attraversamento non è assolutamente facile. Con molta umiltà, la cultura ebraica non è monolitica, non si presenta come un’unica struttura a blocco: si è formata scontrandosi con altri pensieri e, in particolare, con quello greco, più che con quello latino. Proprio col primo ha in comune non solo le speculazioni medio e neoplatoniche, ma perfino la cultura popolare, quotidiana del mondo talmudico, la dialettica e l’amore per la lingua in generale. Ora, il cristianesimo si connota come un fenomeno molto complesso specie perché nasce dalla cultura ebraica e greca assieme. Si discute, ad esempio, se sia figlio o fratello dell’ebraismo. Questa, ovviamente, non è la sede per convenire sul cristianesimo come setta ebraica prima, autonoma poi, sostanzialmente diversa alla fine. Tuttavia – sebbene paia opportuno lasciare ad altri le questioni morfogenetiche, relative alla sua nascita – un elemento qui bisogna metterlo in evidenza. Ed è questo: il cristianesimo ha una forte tendenza individualista (si è fatto di un uomo un Dio o di Dio un uomo), mentre nell’ebraismo permane e impera la tendenza comunitaria, da gruppo e poco individuale. L’individualismo è dunque quella caratteristica che separa le due entità culturali – ne fa la loro differenza – e si fonda, per alcuni aspetti, sull’idea di anthropos ellenico. Nella soteriologia ebraica, se ne esiste una, non c’è una salvezza individuale (o è poco presente): essa è collettiva. Tale elemento è decisivo, anche se non scevro di problemi e implicazioni antropologiche.
Qual era il pensiero di Leopold Zunz sulla sapienza ebraica?
Leopold Zunz non è stato un filosofo: è stato invece il primo tra i suoi contemporanei del mondo illuminista e romantico a percepire e capire l’urgenza e l’imperativo categorico per uno studio filologico e storico dell’ebraismo nelle sue svariate sfaccettature (letteratura, filosofia, storia, lessicografia, liturgia, etc.). A fianco delle altre discipline, che Zunz presentò per lo studio scientifico al suo pubblico dotto è annoverata pure la filosofia, per la prima volta denominata nella letteratura tedesca jüdische Philosophie («filosofia ebraica»), chiarificandone le sue componenti che essenzialmente la costituiscono come storia del pensiero e sapienza antica. Fondandosi sulla ricerca cristiano-protestante del pietista tedesco, Franz Budde, nonché del professore di ebraistica Andreas Sennert, Zunz qualificò la filosofia attraverso un binomio: da una parte la sapienza ebraica, dall’altra l’analisi storica dei filosofi e dotti ebraici. Pur non essendo filosofo, ma filologo e storico, Zunz deve essere considerato come una pietra miliare della ricerca filosofica ebraica, proprio perché affronta una questione che rimane ancora aperta ai nostri giorni, ovvero la definizione di «filosofia ebraica».
Che rapporto intercorre tra scetticismo ed ebraismo?
Lo scettico è visto sempre con sospetto, come una specie di «genio maligno», per il fatto che dubita di e diffida da ogni credenza. Il suo dubbio è sconcertante, sconvolge e sgomenta. Lo scettico fa domande e queste domande possono disorientare, rovesciare opinioni ferme e idee supposte, specialmente se non ci sono risposte programmatiche oppure ci si trova di fronte a un atteggiamento resistente tipico di chi non vuole perdere la certezza di conoscere il mondo. Ma c’è ancora di più: le sue domande possono essere snervanti qualora manchi una risposta immediata e non si vuole essere colpiti nella propria compostezza. Ciò ritorna in modo particolare nell’ebraismo, esattamente quello che si vuole sostenere in Sapienza alienata. La sfiducia e il sospetto sono di frequente applicati all’ebraismo che può sconvolgere profondamente, considerato che una delle sue caratteristiche essenziali è il discutere in modo critico ogni aspetto della vita. Questo è già evidente nel Talmud. L’arte talmudica dell’insegnamento ha come fine principale quello di chiamare in causa il piacere di studiare con attenzione oggetti e situazioni, e di trovare gratificazione nell’acquisizione e nell’uso della conoscenza. Nell’ebraismo l’arte dell’imparare comporta un aumento continuo di dubbi su che cosa il maestro pensa e dice. Pertanto non c’è una teologia dottrinale al centro dello studio della Torah. Non si tratta di imparare qualcosa a memoria o di ripetere all’infinito quello che il maestro dice.
La scuola rabbinica si è violentemente opposta a posizioni banali, come emerge negli aneddoti didascalici. Secondo il Trattato Soṭa, la distinzione tra un tanna e un mago (magush) non esiste, perché entrambi ripetono e imparano a memoria ciò che essi non hanno compreso. In questo senso insegnare significa comprendere e non ripetere soltanto. Il Midrash Mekhilta de-Rabbi Ishma’el (Bo’, pisḥa,18) afferma: «Ci sono quattro tipi di figli-discepoli: il saggio, il malizioso, il sempliciotto e uno che non sa che cosa o come chiedere». Nel periodo talmudico e anche nei tempi successivi, l’obiettivo dell’apprendimento era quello di fare al rabbi la (giusta) domanda, per trovare il punto debole nella sua argomentazione. Fare domande, mettere in dubbio l’autorità del filosofo (e rabbi), ricercare sempre, imparare e discutere e dubitare, non è altro che un’attitudine scettica, per come la descrive, ad esempio, Sesto Empirico: la ricerca è, infatti, eterna, e si è eternamente discepoli.