
Credo sia evidente a tutti come, storicamente, sia aumentata la possibilità di pianificare il proprio futuro, di decidere in modo autonomo, almeno in parte, il proprio destino. Se guardiamo al mondo del lavoro, vediamo come le possibilità di scelta autonoma dei percorsi professionali siano aumentate. È più accentuata, rispetto al passato, la mobilità sociale, cioè l’opportunità di passare da un ceto sociale ad un altro; sono più frequenti i passaggi da una organizzazione di lavoro all’altra. Alcuni studiosi da anni parlano di “carriere nomadi” per descrivere tali processi. Sempre più la responsabilità di gestione della carriera si è spostata sulle spalle dei singoli e si è attenuato il ruolo delle organizzazioni: è sempre meno frequente che una persona viva un percorso di carriera all’interno di un’unica organizzazione di lavoro.
Se guardiamo anche alla regolamentazione del mercato del lavoro, vediamo come sono aumentati gli spazi per forme di lavoro autonomo o simil-autonomo. La cosiddetta GIG-economy si regge sul fatto che i singoli (solitamente giovani lavoratori e lavoratrici) si fanno carico di gestire e organizzare una o più attività di lavoro, senza avere alle spalle una struttura organizzativa tradizionale che si occupa di loro. Inoltre, vengono a ridursi i sistemi di tutela e le garanzie assistenziali e pensionistiche che ricadono così nella responsabilità del singolo.
In breve, nei luoghi di lavoro aumenta la domanda di autorganizzazione sotto forma di obiettivi, progetti, programmazione; diminuisce la regolazione esterna che si manifesta attraverso mansionari, gerarchie, prescrizioni. Aumentano l’autonomia, la discrezionalità, la flessibilità; tendono a diminuire le tutele. Basti pensare alla diffusione progressiva del lavoro da remoto (telelavoro; smart working; coworking) che richiede una maggiore autonomia organizzativa dei singoli, mediata dall’uso delle nuove tecnologie.
Tutto questo, per certi aspetti offre dei vantaggi. Ma nascono anche forti rischi. L’aumento di autonomia tende ad amplificare le diseguaglianze. Diseguaglianze che riguardano le risorse (economiche e culturali) disponibili in partenza. Ma anche diseguaglianze che riguardano la dotazione psicologica di ciascuno di noi: ci sono persone che sono più dotate nella capacità di organizzarsi e di gestire la propria autonomia e l’incertezza; ci sono persone che possiedono in misura minore tali doti e non sono pienamente in grado di gestire i propri progetti e si trovano in balia di decisioni prese da altri. Parafrasando Drucker, non tutti hanno gli stessi strumenti per essere “amministratore delegato” di sé stesso.
Un ragionamento analogo può essere sviluppato per quanto riguarda la gestione del tempo libero che oggi offre una gamma di opportunità ben più ampia rispetto al passato e margini di autodeterminazione molto ampi. Anche il tempo libero richiede capacità di autogestione, di definizione degli obiettivi e di buone pratiche di conciliazione con altri ambiti di vita.
Infine, se pensiamo alle conquiste nell’ambito dei diritti civili, possiamo notare come l’autodeterminazione abbia subito un salutare (anche se ancora insufficiente) incremento. Ad esempio, le scelte riguardanti la costituzione del nucleo familiare, il partner, la natalità – ambiti un tempo molto più esposti a meccanismi di regolazione sociale, soprattutto per le donne – godono oggi di maggiori margini di libertà e di autogestione (nonostante tale considerazione non sia estendibile a tutti i modelli culturali).
Quali possono essere i costi della mancata realizzazione dei nostri progetti?
I progetti che costruiamo possono essere considerati come gli strumenti che adottiamo per diventare ciò che vorremmo essere. Sono un modo per avvicinarci al nostro sé ideale. Quindi il fallimento in un progetto, specie in quelli di portata significativa e di lunga durata, può avere costi significativi per il proprio equilibrio psicologico, sull’autostima e sulla percezione di controllo. Questi effetti negativi per il sé si registrano soprattutto quando le difficoltà di raggiungere uno scopo sono attribuite a responsabilità personali: «Non ho dedicato abbastanza tempo ed energie al mio obiettivo»; «Mi sono fatto distrarre da altri scopi»; «Ho procrastinato l’azione»; «Non avevo sufficienti capacità». Gli effetti negativi del “fallimento” si amplificano se non si è in grado di liberarsi della mancata realizzazione di un obiettivo e si torna mentalmente sul presunto fallimento con quel processo che gli psicologi chiamano in modo figurato «ruminazione»: continuare a ritornare con pensiero ricorsivo, intrusivo e senza costrutto su una rappresentazione negativa del problema. La soluzione spesso consiste nell’impegnarsi in nuovi progetti e stabilire nuove mete.
Quanto è importante darsi delle mete?
Le mete sono potenti guide mentali nella nostra vita. Darsi delle mete è una importante attività mentale che ci spinge all’azione e ci orienta al futuro. Per questo le mete hanno una forte valenza motivazionale. È grazie ad esse che traiamo impulso per impegnarci, per darci da fare, per persistere nonostante le difficoltà. Le mete ci permettono di definire il divario tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Si deve anche sottolineare che le mete che ci prefiggiamo hanno le loro radici in aspetti importanti della nostra struttura psicologica: riflettono ciò che siamo, la nostra personalità e come vorremmo far evolvere la nostra identità nel tempo. Nello stesso tempo, è importante ricordare che le mete non nascono semplicemente dal nostro “voler essere qualcosa di diverso”. Devono essere realistiche e raggiungibili. Quindi presuppongono una capacità di analisi della realtà circostante. Altrimenti il rischio è di fare progetti e porsi obiettivi irraggiungibili, con le conseguenze che già abbiamo sottolineato sopra.
Come si può raggiungere un equilibrio tra esigenze del presente e progetti futuri?
Progettare il futuro significa lavorare su obiettivi di lungo termine e a carattere strategico. È attraverso progetti di lunga durata che possiamo dare forma e plasmare l’avvenire e non essere in balia di eventi esterni, del fato o delle decisioni altrui. Esempi di tali obiettivi di lunga durata sono: la costruzione della carriera professionale; la formazione scolastica e universitaria; la costituzione di un nucleo familiare; la preparazione al pensionamento; la riuscita in una attività sportiva, artistica e musicale; il conseguimento di nuove competenze specialistiche. Perseguire mete così ambiziose e di lunga gittata non può far dimenticare i vari compiti di breve e medio termine che la vita quotidiana ci assegna. E così spesso ci ritroviamo nella condizione di perdere di vista o dover mettere in secondo piano momentaneamente il progetto di lunga durata per dedicare attenzione ed energie a faccende di portata più limitata, ma non per questo meno importanti. Ciò implica essere in grado di ritornare di continuo su progetti di lunga durata, senza abbandonarli e confermando di volta in volta l’investimento su tali scopi. Dunque, oltre alla perseveranza, entra in gioco una capacità organizzativa di inglobare e intervallare ciò che è esigenza del presente e sviluppo futuro, ciò che è urgente con ciò che è strategico.
In che modo l’intorno sociale per noi significativo influenza la nostra attività di pianificazione?
Molte delle attività che svolgiamo e dei progetti che mettiamo in atto coinvolgono le altre persone. Sul lavoro, gli obiettivi spesso hanno un carattere collettivo e si raggiungono in team. Colleghi e supervisori sono punti di riferimento importanti che condizionano la nostra azione: possono motivarci in alcuni casi, mentre in altri casi possono costituire una inibizione al nostro agire (quando ad esempio, non vediamo premiato il nostro impegno o vediamo che non tutti erogano la stessa energia nel raggiungimento di un risultato). Quindi l’intorno sociale è sicuramente determinante nella nostra attività di pianificazione. Anzi si può dire che tale attività, pur essendo elaborata da un individuo, ha un forte carattere sociale. Questo è vero anche se pensiamo a come nascono i nostri piani per il futuro. Molto spesso questi traggono spunto dagli altri: adottiamo modelli di ruolo: cioè vorremmo il nostro futuro, pensando a come altri lo hanno costruito. Gli altri (le persone per noi importanti) sono fonte di ispirazione dei nostri progetti. Infine, l’intorno sociale è determinante nelle nostre attività progettuali perché ci fornisce gli strumenti per monitorare la nostra azione. Gli altri ci forniscono feedback utili per correggere il tiro, per impegnarci di più se necessario, per stimolare la nostra perseveranza in momenti difficili.
Quali suggerimenti possono risultare utili per una più proficua organizzazione del tempo?
Sulla questione del time management sono stati scritti molti volumi e sono state ideate molte attività formative. Direi che si deve diffidare delle soluzioni valide per tutte le situazioni. L’organizzazione ottimale del proprio tempo dipende dal contesto in cui operiamo (quali sono i vincoli e i margini di discrezionalità) e da una serie di caratteristiche personali. Ad esempio, le persone hanno tendenze più o meno marcate alla procrastinazione e hanno diversi gradi di tolleranza alla disorganizzazione temporale. Detto questo, concludo il volume offrendo cinque suggerimenti che penso possano avere un certo valore generale. Li sintetizzo qui di seguito:
- Dare tempo alle cose importanti e non solo a quelle urgenti;
- Dare tempo alle cose piacevoli (non dobbiamo solo farci del male);
- Imparare a delegare (che non è operazione banale dal punto di vista psicologico);
- Saper mettere la parola fine, cioè stabilire un inizio ma anche un termine delle attività;
- Imparare a dire dei no; è un buon modo per difendere il proprio tempo e applicare più diffusamente il principio numero 2.
Franco Fraccaroli insegna Psicologia del lavoro e delle organizzazioni nell’Università di Trento. Tra le sue pubblicazioni: Andare in pensione (con G. Sarchielli, 2015), Stress a scuola (con D. Guglielmi, 2016) e Introduzione alla psicologia delle organizzazioni (con N. Chmiel e M. Sverke, 2019).