
La guerra è stata talora giustificata o invocata: quali pensatori l’hanno ammessa e su quali presupposti?
Il lungo corso del dibattito de bello cui ho accennato rende impossibile esporne i protagonisti, anche limitandosi a quelli ‘a favore’ (la grande maggioranza! Si farebbe molto prima a dire chi non la ammetteva…); soltanto il passarli in rassegna travalicherebbe i limiti di spazio di un’intervista (ed in effetti la sfida di ricostruire questo percorso in un volume agile è stata al tempo stesso appassionante e terribile…). Se per i greci ‘tutto è polemos’ e il momento conflittuale era posto anche a livello ‘metafisico’ (Eraclito) e poi ‘categoricizzato’ in schemi assiologici ben definiti (Aristotele), i romani iniziarono quella grande operazione culturale che portò la guerra all’interno di un dimensione giuridica, gettando le fondamenta della dottrina del bellum iustum, poi solidamente costruita dai doctores delle facoltà giuridiche medievali. In epoca moderna la dottrina della ‘guerra giusta’ venne configurata in termini ‘razionalizzanti’ dal giusnaturalismo del ‘600, tutti gli esponenti del quale ammetetvano, a determinate condizioni, la giustificazione della guerra. Uno dei principali àmbiti di applicazione della dottrina del bellum iustum fu la Conquista del Nuovo Mondo. Essa innescò peraltro la più grande e complessa operazione intellettuale di (auto)critica giusfilosofica ai fondamenti concettuali della guerra. L’Illuminismo propugnò gli utopistici ‘progetti per una pace perpetua’ ma già nel secolo successivo tornarono i grandi ‘cantori’ della guerra (a partire da Hegel) che nel ‘900 ne fecero oggetto di celebrazione estetizzante (basti pensare al Futurismo, ma non solo).
Guerra e cristianesimo, un apparente ossimoro che però ha accompagnato la nostra civiltà: come hanno convissuto dottrina bellica e teologia cristiana?
Fu un dilemma che spaccò l’intellighènzia cristiana in due blocchi, e la faglia percorse lunghi secoli di diatribe. Già agli albori della ‘cultura cristiana’ romana troviamo due poli ben distinti.
Tertulliano, grande teologo e padre della Chiesa vissuto a cavaliere tra il II e il III secolo, considerava il ricorso alla violenza irriducibilmente incompatibile con la sequela al Vangelo. A nessuno era lecito partecipare ad una guerra, nemmeno a chi lo faceva per mestiere. Tertulliano estende la condanna del servizio militare anche alle “guardie di palazzo” che pur materialmente non combattono in guerra. Egli quindi può davvero essere considerato a ragione il caposcuola dell’obiezione di coscienza. Il rifiuto delle armi propugnato da Tertulliano venne in un primo tempo recepito dalla Chiesa: nel III secolo troviamo l’obbligo per i catecumeni di formulare una dichiarazione contro l’uso della violenza militare e civile. Inizia poi un processo di revisione dell’atteggiamento intransigentemente ‘pacifista’ della Chiesa. Nel 410 Roma è in mano ai goti di Alarico che la saccheggiarono; fu proprio in quel clamoroso frangente che venne composto uno dei più profondi testi della cultura occidentale, ad opera di uno dei suoi più straordinari artefici: il De Civitate Dei di S. Agostino, che respinge l’apertura di Tertulliano all’obiezione di coscienza, e individua le condizioni, alle quali il seguace di Cristo può, ed anzi deve, prendere parte al conflitto armato; condizioni che costituiranno il paradigma declinato dagli autori successivi La riflessione de bello condotta da S. Agostino risulta tutt’altro che sistematica; essa è, in effetti, tracciata lungo itinerari che si sviluppano attraverso interruzioni, dubbi, ripensamenti, contrasti, come, del resto, tutto il pensiero del grande Padre della Chiesa, che non si fa ridurre ad un ‘sistema chiuso’. Agostino , insomma, non aveva chiuso la questione. L’aveva, anzi, aperta. E la questione continuò a dividere le coscienze cristiane medievali: dal pacifista ad oltranza san Francesco al ’guerrafondaio’ san Bernardo, da Erasmo da Rotterdam, esponente dell’intellighenzia cristiana convinto che ‘la guerra è dolce per chi non la conosce’ (dulce bellum inespertis) al sanguinario Lutero del Contro le empie scellerate bande dei contadini (1525), fino al drammatico scontro tra don Milani e i cappellani militari che lo denunciarono, la Cristianità è dilaniata dalla questione della guerra.
Viviamo in un’epoca di guerre cosiddette asimmetriche e di terrorismo: quali sono le conseguenze sul concetto stesso di guerra?
Le modalità terroristiche della guerra, compresa la minaccia della guerra batteriologica, non sono del tutto una novità. Esse erano già condannate dai giusnaturalismi di età moderna: Grozio stigmatizzava l’avvelenamento dei pozzi e l’uso di frecce avvelenate. Tuttavia le nuove tecnologie e i nuovi mezzi di trasporto a disposizione dei terroristi, assieme alla globalizzazione dell’informazione, hanno esponenzialmente aumentato l’impatto delle loro azioni e stanno cambiando la fisionomia del fenomeno bellico. Il terrorista non è configurabile come justus hostis, un nemico cioè che ‘accetta le regole del gioco’ e a cui possa riconoscersi uno statuto giuridico interno al ‘diritto bellico’ (rappresentanza e immunità diplomatiche ecc.). Ciò tuttavia rischia di non riconoscere loro uno statuto giuridico tout court, rischiando che la civiltà occidentale rinneghi i suoi stessi principi giuridici (Guantanamo).
I c.d. ‘interventi umanitari’ a difesa delle popolazioni che subiscono entro determinate aree territoriali violazioni dei ‘diritti umani’ si scontra con il principio di sovranità nazionale che, nonostante ora lo si neghi da taluni studiosi, ha sorretto l’equilibrio geopolitico dalla pace di Westfalia (1648) ad oggi. Questi sono i termini dell’attuale dibattito de bello, che si colloca quindi lungo un secolare, anzi millenario solco tracciato dalla cultura occidentale.