
Vengo alla prima domanda: L’IMPORTANZA DELLA CHIESA DI AQUILEIA. Si tratta di raccogliere almeno di 18-19 secoli, se – come sembra ipotizzabile – la città ebbe le prime (o la prima) comunità di fede cristiana fin dalla metà del secolo III. Pare tuttavia conveniente partire da una annotazione storica e geografica: Aquileia (bel nome augurale, Àkylis, aquila) venne fondata dai romani l’anno 181 a. C., certo una collocazione strategica: lì termina la pianura padana; lontane appaiono le Alpi orientali; la città dista dal mare pochissimi kilometri; e favorisce l’accesso quello che fu un notevole porto fluviale, attivo fino almeno al tempo di Giuliano l’apostata (che cercò di dirottarne il corso per impadronirsi la città, negli aa. 360-361) perché la città gli aveva chiuso le porte in faccia. Fin dai suoi primordi, – come cantava Ausonio – nella sua storia bimillenaria, la città divenne ben presto moenibus et portu celeberrima. A tal segno che nei secoli dell’era cristiana veniva annoverata tra le nove grandi metropoli dell’Impero romano, la quarta nella penisola (dopo Roma, Milano e Capua). La sua grandezza, nella sua lunga vicenda, fu anche la causa della sua sventura e dei diversi tentativi di rinascenza (se ne possono annoverare forse una decina o giù di lì). L’importanza della Chiesa aquileiese si misura dal fatto che la metropoli aquileiese, ricca talora di circa 250/200 mila abitanti, era il capoluogo della Decima regione, Aquileia et Histria, fissata da Augusto e successivamente rivista da Diocleziano, città il cui ambito geografico era il più vasto di tutte le 12 regioni (o diocesi) fissata dai due imperatori ricordati. Dall’affluente del Po, l’Oglio, essa copriva tutta la regione est della pianura padana; poi – oltre le catena delle Alpi – comprendeva parte dell’attuale Svizzera, la Raetia, cioè la Baviera, il Norico I e II (pressappoco l’Austria), per includere anche tutta la destra del Danubio, ossia la Pannonia, quindi la Carnia, la Carniola (Slovenia), l’Istria, la Croazia… Aquileia sede della X regione, è anche sede del nascente cristianesimo nel nord-est della penisola italica. Chi ve lo portò? mercanti? soldati? missionari? avventurieri? Siamo però in grado di intuire quelle che poterono essere le correnti religiose della prima evangelizzazione. Si tratta di un cristianesimo comprensivo del messaggio paolino, di origine forse siro-palestinese; non mancano però influssi rilevanti delle Chiese cosiddette dell’Apocalisse (di estrazione giovannea, come è dato rilevare pure dall’opera di Cromazio). L’importanza viene da queste remote origini, non facilmente precisabili, ma pur sicuramente presenti. Una riflessione ad hoc merita il rapporto religioso (di fede) che lega Aquileia con Roma così da far risalire i rapporti delle due Chiese almeno fin dal secolo II sec.). Si tratta di un’opera singolare, del Pastore di Erma, Erma, forse fratello del vescovo di Roma san Pio I (140-155?), forse entrambi – pare – d’origine aquileiese. Poi si dovrebbe indagare quell’altra fonte (o narrazione) che corrisponde alla legenda che sostiene che l’evangelista san Marco sarebbe stato il primo annunciatore del cristianesimo in Aquileia (ipotesi che qualcuno, ancora anche ai nostri giorni, ritiene fondata). Maggiore credenza merita il rapporto di Aquileia con Gerusalemme, con Alessandria d’Egitto, con Cartagine, con Lione, con Milano… Tutte comunità cristiane alle quali o tanto o poco Aquileia si sente legata. Il volume su San Cromazio e la liturgia di Aquileia vorrebbe rispondere a questi ed altri interrogativi: strada facendo cerco di sollecitare delle domande e proporre qualche ipotetica soluzione. La legenda di san Marco all’origine dell’annuncio cristiano ad Aquileia, si complica con quello che sarebbe stato il primo pastore della comunità cristiana d’Aquileia, sant’Ermagora (con il suo diacono Fortunato). Gli affreschi, del secolo XII, nella cripta omonima, raccontano gli episodi salienti dei protomartiri narrazione. Ma la domanda ancora tutta da esplorare è: quale l’importanza della Chiesa di Aquileia? in breve, si può rispondere così: quello che fu l’ambito civile della regione X, fu anche l’ambito della Chiesa aquileiese quale matrice della evangelizzazione, della liturgia con le sue particolarità. La misura dell’importanza data dal rilievo di cui si è detto, ha costituito la metropoli quale faro di storia, di arte, di cultura, di fede, di evangelizzazione. Fu merito della Chiesa aquileiese se per un altro millennio la cultura greca ed orientale si diffuse e si conservò nell’Occidente cristiano. In sintesi, a conferma, si può riportare un’affermazione di un autore francese, Yves M. Duval, che scrive: «L’Occidente è debitore nei riguardi di Aquileia e dei suoi figli se per un altro millennio il pensiero orientale fu conosciuto in Europa». Non è certo piccolo merito! L’importanza almeno culturale si deve al fatto che Aquileia, come facilmente si intuisce, mediò il passaggio della cultura (dei testi, di varie arti) dal greco al latino, ad attività di operatori culturali quali Girolamo e Rufino. Se molta parte di testi greci (non si può dimenticare Origene!) si è conservata in traduzioni latine, lo si deve in buona parte alla Chiesa di Aquileia che fornì denaro per l’impresa e materiale scrittorio (papiri, pergamene, tinte, inchiostri, ecc.). Le attestazioni sono rintracciabili nelle lettere di Girolamo e nelle opere di Rufino di Concordia. ma ci sarebbe da considerare tutta l’altra parte di relazioni economico-commerciali che mettevano a capo della città con l’ampio ambito del Mediterraneo: Palestina, Siria, Anatolia, Grecia, Africa proconsolare, penisola iberica, la Provenza, ecc.: così il cerchio si chiude facendo ancora una volta perno ad Aquileia. Non sempre è possibile disgiungere la pars civilis della metropoli dalla pars Ecclesiae Aquileiensis: sono realtà con-cresciute. Si potrebbe pensare che fu pure luogo privilegiato dei principes romani: Giulio Cesare, Augusto, ed oltre Costantino, a Teodosio fino alle immissioni di nuove stirpi che scendevano da nord con i Goti, i Longobardi, i Franchi… La Chiesa aquileiese diventa chiave di volta di civilizzazione e di evangelizzazione delle nuove stirpi che ora giungono alle porte della città dell’Alto Adriatico. La Chiesa è presente con la sua forza civilizzatrice e messaggera di fede. Ecco perché questo è un capitolo che è senza fine.
Chi era Cromazio?
Riflessione più breve sarà per CROMAZIO; ma si tratta d’intenderci pure qui. Cromazio, pastore e maestro, fu di certo il più grande dei vescovi che sedettero sulla cattedra di Aquileia. Ma quella Chiesa annovera molte altre figure grandi o grandissime, come Teodoro, il primo vescovo di cui si dispongono connotati storici certi (sec. III-IV, morto forse nel 319); oppure Paolino II nell’età della rinascenza carolingia († 802); o anche il ‘patriarca’ Elia cui si deve il complesso basilicale ed edilizio di Grado (sec. VI); Poppone (secolo XI); quindi i patriarchi tedeschi; o il beato Bertrando di san Genesio (sec. XIV); infine Marquardo di Randeck (sec. XIV). Torno a Cromazio. Di famiglia aquileiese profondamente religiosa, come annota con struggente suggestione Girolamo nel suo epistolario. Egli ricorda la madre vedova, che paragona alla biblica Anna, la madre di Samuele; due sorelle nubili consacrate al Signore; un altro fratello, Eusebio, che divenne poi vescovo di una sede non precisata. Cromazio nasce verso il 345 ed entra presto nel chorus beatorum, ossia numero dei consacrati al Signore, principalmente accanto al suo vescovo san Valeriano (371-387 circa). Il secolo IV vide il furoreggiare dell’eresia ariana anche in Occidente. La famiglia di Cromazio – in tali situazioni difficili per la retta fede – meritò un elogio senza pari da Girolamo, quando asserisce che per merito dei pastori aquileiesi fu espunto da Aquileia il veleno dell’eresia ariana. Ricorda Girolamo: «Ogni giorno voi testimoniate Cristo, osservando i suoi precetti; ma a questa gloria privata aggiungete una pubblica e aperta dimostrazione di fede: è merito vostro, infatti, se dalla vostra città è stato espulso il veleno dell’eresia ariana». Per non andare per le lunghe, allego una pagina del prof. Giuseppe Cuscito (cui si deve la postfazione del volume che presentiamo): “Nella seconda metà del secolo IV ad Aquileia fior una scuola teologica di cui abbiamo sicure notizie da due tra i più grandi scrittori ecclesiastici del tempo, Rufino e Girolamo, che qui soggiornarono. La personalità più eminente fu senza dubbio Cromazio, animatore di quel chorus beatorum di cui parla con entusiasmo Girolamo. I suoi scritti <di Cromazio> dopo il fortunato, recente (negli anni 60-70 del sec. passato) recupero ad opera di J. Lemarié e di R. Étaix, illuminano la ricca ed originale personalità dell’autore e la cultura dell’ambiente cristiano di Aquileia. Agli uomini di questo cenacolo va riconosciuto il merito di aver portato un decisivo contributo alla soluzione della crisi ariana in Occidente, quando si pensi, per esempio, alla parte avuta da Cromazio, ancora presbìtero, al concilio di Aquileia [del 381], dove rinfaccia all’ariano Palladio di ripudiare i punti essenziali della fede cattolica: la divinità del Figlio e la sua eguaglianza col Padre. E su questo punto egli ritornerà frequentemente da vescovo nella sua attività pastorale e nella sua produzione letteraria [sermoni e trattati]. Ad ogni modo, se l’intervento di Cromazio nelle discussioni conciliari si giustifica col contributo attivo da lui precedentemente dato per l’espulsione dell’eresia ariana da Aquileia [cfr. sopra] e attestato da Girolamo fra il 375 e il 376, gli elementi più significativi della polemica cromaziana contro gli eretici si ritrovano proprio nei suoi scritti: qui il santo vescovo di Aquileia non perde occasione per condannare Fotino e Ario, bollandoli come “maestri di eresia che ricusano con bocca sacrilega l’eternità e la vera divinità dell’unigenito Figlio di Dio o presumendo – come Fotino – che egli abbia avuto inizio da Maria o negando – come Ario – che egli sia vero Dio e propriamente nato dal Padre” [pp. 70-71 dell’opuscolo Il concilio di Aquileia del 381 nel XVI centenario, Aquileia 1980].
Certo che di Cromazio resta ancora molto e molto da aggiungere a questa breve nota: ma merita ampio spazio una riflessione sull’attività pastorale, sugli interventi per cui si raccomanda al ricordo (con sant’Ambrogio, con Rufino, con Girolamo, con Giovanni Crisostomo); inoltre sulla liturgia della quale il volume cerca di offrire qualche pista, sull’opera di predicatore (i sermoni) e di scrittore (il commento al vangelo di Matteo), ecc. Certo Cromazio va posto senza dubbio e senza esagerare accanto ai grandi padri che ornarono ed onorarono le Chiese nei secoli IV e V. Non secondari i problemi di pacificazione affrontati da Cromazio per riportare l’armonia tra Rufino e Girolamo; soprattutto poi l’incombere dei nuovi popoli affacciatisi all’orizzonte del nord-est della penisola. Ma si deve – purtroppo – asserire che Cromazio resta ancora in buona parte da scoprire, quasi come le rovine di Aquileia, ancora nascoste sotto il suolo.
Quali peculiarità caratterizzavano il rito aquileiese?
Sopra ho accennato alle radici della fede aquileiese, che non può non avere a suo fondamento la Scrittura santa, pur con delle propensioni e sottolineature dovute alla frequentazione della Parola di Dio: quindi i quattro evangelisti, le lettere di san Paolo e gli altri scritti del NT. Cromazio è l’uomo della Parola. Altre radici da scoprire ed evidenziare per san Cromazio sono quelle che chiamerei preferenze: così è del vangelo di Matteo (ad esempio le beatitudini ripetutamente commentate dal vescovo) e del vangelo di Giovanni e, infine, dell’Apocalisse; oppure alcuni brani degli Atti che come risulta dai suoi testi omiletici costituiscono punto ‘obbligato’. Ma vi sono pure tante altre piste che andrebbero ripercorse con attenzione. Mi riferisco – ad esempio – alle Chiese principali elencate da Rufino nella clausola finale del suo commento al simbolo della Chiesa di Aquileia: e si tratta delle Chiese di Roma, di Alessandria d’Egitto, di Gerusalemme. L’ortodossia della fede non permette assolutamente viaggi di fantasia all’infuori di quello che sempre si è creduto e sempre si crederà: solo agli eretici è ‘permesso’ compiere trasvolate teologiche fantasiose. Il dogma è raccolto nei vari simboli delle comunità dei credenti con un unico sostrato che sta alla base del credo apostolico. A ragione Rufino di Concordia può asserire che non professa né professerà mai altra fede se non quella contenuta nel simbolo della Chiesa aquileiese. Dichiara con forza: Al di fuori della fede che ho professato con il simbolo della mia Chiesa, e che è lo stesso della Chiesa di Roma, di quella di Alessandria, che è pure quello che si professa anche a Gerusalemme, io non ho avuto e non ne avrò un altro nel nome di Cristo. Questa è certamente anche la fede di Cromazio, a stare alle affermazioni chiare di Girolamo circa l’ortodossia dell’intera famiglia di Cromazio, come s’è visto a proposito dell’eresia ariana. Ancora un’annotazione sul simbolo aquileiese, che si caratterizza per tre particolarità non sempre presenti negli altri simboli delle comunità ecclesiali. Le tre particolarità si riferiscono ad errori teologici dei tempi precedenti (non tanto del prossimo passato, ad es., dell’arianesimo) condannati dalla formula di fede. Viene affermato 1) che il Padre è invisibile e impatibile; 2) che Gesù Cristo è disceso negli inferi; 3) che il credente professa la risurrezione di questo nostro corpo (credo huius carnis resurrectionem, credo la risurrezione di questa mia carne). Quali peculiarità? Va detto che nelle comunità cristiane vigeva (e vige) non l’uniformità, ma l’unità delle fede. Per cui è presto facile dedurre che ogni comunità originaria, là dove risiede il pastore, ha una propria liturgia: nell’antichità c’era una notevole varietà e libertà di riti. Lo sviluppo storico, purtroppo, ha privato la Chiesa di molti singoli riti (per Aquileia si risponde per questo interrogativo nella prossima domanda). Occorre, d’altra parte, considerare il fatto che comunità ecclesiali vicine per diverse ragioni, non mancavano di operare degli scambî tra di loro in modo di arricchirsi reciprocamente: così le relazioni di Aquileia con Milano o con Ravenna erano frequenti e restano dei segni che sostengono l’affermazione. Ancora: quali peculiarità? I sermoni di Cromazio sono in grado di offrire delle piste di ricerca (nel volume ne prospetto più d’una), anche se risalire alle origini – si deve pensare, forse, verso la metà del III secolo – la documentazione esplicita è carente. Ma già il simbolo della Chiesa aquileiese – come s’è detto sopra – aggiunto il commento ampio di Rufino, sono in grado di suggerire anche delle particolarità liturgiche e del culto della comunità. Buon secondo arriva Cromazio: il volume su Cromazio e sulla liturgia di Aquileia si pone sulla scia della liturgia: battesimo, veglie, catechesi, ecc., trova in Cromazio una straordinaria fonte di notizie e di informazioni. Cromazio va letto con calma e con una pacata riflessione. Non va sottaciuto l’apporto ad Aquileia delle Chiese dell’Anatolia (le così dette Chiese quartodecimane). Nel volume m’intrattengo non poco sulla quaestio della lavanda dei piedi che – per quelle comunità certo – ma penso proprio che valga anche per Aquileia. Si tratta di leggere, ad esempio, con molta attenzione il sermone XV proprio tenuto per la lavanda dei piedi, che – a me pare sicuro che nella lavanda dei piedi si debba ravvisare il rito del battesimo. E non è questa l’unica occasione che apparenta la Chiesa di Aquileia con le Chiese giovannee dell’Asia Minore. Suggestioni che arrivano ad Aquileia da quelle comunità sono numerose: non è qui il caso di riprenderle. Ma esse sono più che evidenti. Altre informazioni sui riti della comunità cristiana di Aquileia sono rintracciabile anche nei due codici, il Rehdigeranus e il Foroiuliensis che ci portano oltre Cromazio (dal secolo VI fino verso l’VIII). Non è da pensare che essi allontanino gran che la riflessione sui riti delle Chiesa aquileiese dalle prime attestazioni o dai dati riscontrabili in Cromazio. Va inoltre detto e ribadito dell’ampia libertà dei riti delle Chiese primaziali, ossia dalle Chiese principali, riti da passare alle Chiese minori dalle germinate dalle prime. Come si dirà tra poco siamo assai lontani dall’uniformità stabilita dal Concilio di Trento, per ragioni certamente comprensibili, ma finendo con il sacrificare riti e liturgie assai venerande, con destino analogo a quelle aquileiesi.
Quando e come si è estinto il rito aquileiese?
Finché una liturgia è viva, essa continua a crescere ed estendersi in àmbiti vicini o da essa dipendenti. Ci resta il rimpianto per le vicende sociali e politiche sofferte dalla comunità cristiana di Aquileia. Resta qua e là ancora qualche brandello o qualche vestigio, magari qualcosa di coreografico, come la messa dello spadone di Cividale, qualche traccia del canto patriarchino, qualche residuo anche entrato la liturgia di Roma (qualcosa del canone romano), ma poi ancora canti come quello di Paolino II: Ubi caritas est vera, Deus ibi est, che è canto d’origine aquileiese. Una grossa ipoteca posta sulla liturgia aquileiese lo si deve al tempo dei carolingi, in particolare Carlo Magno, che volle che si introducesse nella professione di fede il filioque. Non mancò certo di gravare negativamente anche la riforma voluta dal Concilio di Trento ad opera soprattutto di san Pio V. Infine, ‘ultimo colpo di grazia’, la soppressione politica e civile del patriarcato con il tratto di penna di papa Benedetto XIV (6 luglio 1751, con la bolla Iniuncta nobis) è stata un’altra grave iattura che ha portato alla dispersione della ricchezza della liturgia. È da pensare che un altro colpo fu inferto, sempre in ragione dell’uniformità perseguita – ma ormai siamo (o eravamo) lontanissimi dalle ricchezze degli inizi – all’inizio del secolo XX, ad opera di san Pio X. Ma anche questo interrogativo – cui ho risposto certo molto sbrigativamente – domanderebbe una lunga serie di riflessioni che non è per ora il caso di perseguire, e rimandando ai molti studi – quali assai validi ed altri meno – che anche la riscoperta di Cromazio ha risvegliato nelle terre strettamente legate alla metropoli aquileiese e ai suoi grandi pastori e maestri.
Il mio curriculum, sono eatate provecta, ormai; mi sono interessato a Cromazio che, negli anni 60-70 del sec. scorso, giungeva nuovo alla conoscenza dei molti, che io ho incontrato quasi per caso; laureandomi all’Università di Padova (1972) con la tesi: Terminologia esegetica nei sermoni di san Cromazio di Aquileia. Dopo di che non ho più abbandonato l’Autore.
Per la bibliografia la II edizione di San Cromazio e la liturgia di Aquileia mi pare sufficientemente esauriente e completa quella relativa nel vol. stesso.
Tra gli studi ormai numerosi non vanno dimenticati gli autori del ‘700 (per es., il De Rubeis, il Bartoli…) he hanno aperto la strada alle ricerche su Aquileia; e, più vicino a noi, gli studi di Guglielmo Biasutti, di Gilberto Pressacco, delle “Settimane Aquileiesi”, ecc.: i nomi sono una serie vastissima.
Una curiosità: ho studiato, nel primo anno di teologia, sul testo di storia di Pio Paschini, un friulano doc, eppure nel suo testo (I vol., non so gli altri voll.) di Cromazio ne verbum quidem! di Cromazio non c’era neppure il nome…