“Sahel. Conflitti, migrazioni e instabilità a sud del Sahara” di Camillo Casola

Dott. Camillo Casola, Lei è autore del libro Sahel. Conflitti, migrazioni e instabilità a sud del Sahara, edito dal Mulino: quale importanza riveste, nello scenario geopolitico attuale, la fascia di territorio africano ai confini meridionali del Sahara?
Sahel. Conflitti, migrazioni e instabilità a sud del Sahara, Camillo CasolaLa centralità del Sahel nel contesto geopolitico attuale è assoluta. Basti pensare, a titolo di esempio, ai processi di esternalizzazione delle frontiere europee in quest’area e alla proiezione strategica dell’Italia, che ha integrato la regione della nozione di “Mediterraneo allargato” rafforzando la presenza politica, diplomatica, militare, in un’area tradizionalmente estranea ai propri interessi di politica estera.

Com’è del tutto evidente, tra le principali ragioni di interesse del Sahel per le agende politiche europee, le questioni migratorie occupano un’importanza fondamentale. Pur non essendo un contesto d’origine primario per i flussi migratori diretti in Europa – le migrazioni originate in Sahel, infatti, sono prevalentemente intra-regionali – il Sahel costituisce, al contrario, una zona di transito. Agadez, nel centro del Niger, è da sempre considerata la porta d’accesso al Sahara, hub migratorio e fulcro delle politiche di controllo della mobilità. Le risorse offerte ai regimi saheliani, e destinate allo sviluppo della regione, hanno incentivato l’attuazione di misure repressive dei fenomeni migratori per venire incontro alle necessità politiche dei partner europei.

Il radicamento di traffici illeciti, la proliferazione di gruppi armati di ispirazione salafita-jihadista e la prospettiva di un collasso istituzionale delle entità statali saheliane ha rappresentato e rappresenta un driver ulteriore di interesse per il Sahel. I rischi di contagio su larga scala dell’instabilità saheliana e le possibili ripercussioni sulla regione mediterranea contribuiscono a spiegare le ragioni di attenzione geopolitica riservate a questa fascia di territorio. Da un punto di vista umanitario, inoltre, la crisi in corso ha assunto proporzioni enormi, che richiamano la comunità internazionale a un impegno sempre maggiore: le ripercussioni del conflitto tra attori non statali, milizie, eserciti nazionali, ricadono sistematicamente sulle popolazioni civili, oggetto di attacchi e rappresaglie, mentre l’insicurezza alimentare è aggravata dall’impatto di fenomeni climatici estremi.

Infine, la presenza di attori esterni proietta in Sahel dinamiche di competizione globale – ancor di più in un contesto polarizzato dalle ripercussioni della guerra in Ucraina. La rilevanza della regione si spiega, da questo punto di vista, in un’ottica di contrapposizione geostrategica tra grandi e medie potenze – portatrici di interessi specifici – e di bilanciamento delle rispettive aree di influenza. L’agency degli attori saheliani, da questo punto di vista, è aspetto fondamentale: la capacità dei regimi locali di far leva su tali logiche, diversificando le alleanze e massimizzando i benefici potenziali che derivano loro dalla dalla centralità geopolitica della regione, scardinano le logiche che inquadrano gli stati africani in un paradigma di dipendenza e ne fanno attori passivi della politica internazionale.

Quali fattori fanno del Sahel un’area geopolitica assai critica?
La domanda mi dà l’occasione di elaborare più a fondo alcuni degli aspetti toccati in precedenza. Quella in Sahel è una delle crisi più profonde in corso nel continente africano e oltre. Inizialmente circoscritta a una macro-regione nel nord del Mali – il cosiddetto Azawad, compreso tra i territori di Gao, Kidal e Timbuctu – la crisi ha assunto negli anni una portata regionale, e insiste oggi sui territori di Mali, Burkina Faso e Niger, con un rischio concreto di espansione ulteriore verso gli stati costieri dell’Africa occidentale (Togo, Benin, Ghana, Costa d’Avorio) e verso l’area strategica del Golfo di Guinea. Si parla, solitamente, di una crisi multidimensionale, alludendo ai molteplici livelli che la caratterizzano, corrispondenti a linee di frattura socio-economiche e politiche profonde. La presenza di gruppi armati jihadisti, legati ad al-Qa’ida o allo Stato Islamico – reciprocamente ostili – è diffusa: gli attori jihadisti hanno, nel corso degli anni, occupato e rafforzato il controllo su ampie aree rurali, sostituendosi alle amministrazioni statali nell’erogazione di beni essenziali e servizi primari (sicurezza, giustizia).

L’attivismo dei gruppi armati jihadisti si lega a dinamiche di conflitto comunitario. La marginalizzazione delle comunità semi-nomadi – prevalentemente di etnia fulani (o peul) – da parte degli stati saheliani, che hanno storicamente incoraggiato processi di sedentarizzazione e favorito gruppi stanziali nel quadro di controversie insorte su base locale per l’accesso a risorse naturali (acque, terre), ha definito un contesto sociale favorevole ai gruppi jihadisti, che si sono fatti portatori delle istanze delle collettività pastorali in funzione anti-statale. Questo ha gradualmente legittimato una narrazione tossica che identifica le istanze dei gruppi peul con le ragioni di attivismo armato jihadista, alimentando conflitti a sfondo etnico tra milizie di auto-difesa bambara, mossi, dogon, e gruppi jihadisti, con ripercussioni sulle popolazioni civili.

A partire dall’estate del 2020, poi, il Sahel ha fatto da teatro al ritorno dei militari sulla scena politica, attraverso la successione di colpi di stato che hanno di fatto destituito governi pseudo-democratici eletti. La dimensione più propriamente politica della crisi in Sahel, in tal senso, si nutre di una governance inefficiente e disfunzionale, e coincide con quello che è stato descritto come un trend di regressione autoritaria o “democratic backsliding” diffuso su scala regionale: dal Mali, dove due golpe si sono verificati in meno di un anno, tra agosto 2020 e maggio 2021, al Ciad, che ha visto una giunta militare assumere il potere in seguito alla morte del capo di stato, Idriss Déby, in sospensione delle norme costituzionali in vigore, fino al Burkina Faso che, ultimo in ordine temporale, ha registrato una sequenza di due colpi di stato nel 2022.

A ciò si aggiungono gli effetti del cambiamento climatico – particolarmente profondi nella regione, tra ondate di siccità e intensi episodi pluviometrici – che fungono da acceleratore di crisi, determinando la perdita di risorse di sostentamento da parte delle comunità locali.

Quali attori esterni sono presenti nell’area e con quali interessi?
La presenza di una pluralità di attori esterni – potenze tradizionali e nuovi player – ha caratterizzato l’evoluzione delle dinamiche di crisi nel corso di un decennio, contribuendo alla militarizzazione della regione e proiettando entro i suoi confini una competizione globale di potere. La Francia ha giocato un ruolo di primo piano, sotto questo profilo: in un’area già ampiamente integrata in un sistema di alleanze e influenze post-coloniali, nel 2013 l’allora presidente francese Hollande decise il dispiegamento di una missione militare per assistere le autorità maliane nel tentativo di ripristinare l’integrità territoriale del paese e arrestare l’avanzata dei gruppi legati ad al-Qa’ida. Da allora, Parigi ha costituito il centro di gravità degli equilibri legati alla presenza di attori statali nell’area e alle dinamiche di cooperazione securitaria – fino alla recente crisi politica con la giunta militare in Mali, che ha sancito l’interruzione delle relazioni diplomatiche tra Parigi e Bamako. In contesto europeo, in linea con gli obiettivi di stabilizzazione dell’Unione Europea e di molti tra i suoi stati membri, l’Italia ha rafforzato un’impronta inedita in Sahel, in funzione delle necessità securitarie legate al controllo dei flussi migratori in transito e al radicamento dei traffici illeciti. Coerentemente, i governi italiani hanno rafforzato la presenza politico-diplomatica nell’area attraverso l’apertura di ambasciate a Niamey, Ouagadougou, Bamako, e la conclusione di accordi di cooperazione con i governi regionali, oltre a dispiegare una missione bilaterale di supporto in Niger, la MISIN.

Attori non tradizionali – potenze globali, come la Cina, o medie potenze regionali, come la Turchia – hanno, al contempo, lavorato per ampliare la propria influenza sui regimi saheliani, al fine di perseguire interessi strategici e alimentare ambizioni di potere. L’impegno multilaterale a sostegno della missione ONU di stabilizzazione del Mali, la MINUSMA, è servito a Pechino a consolidare l’immagine di una potenza responsabile, interessata a rafforzare il sistema di cooperazione onusiano nella regione; al tempo stesso, la Cina di Xi Jinping ha integrato gli stati saheliani nel network globale della Belt and Road Initiative (BRI), e cristallizzato il consenso attorno alla “One China” policy, cooptando il Burkina Faso – tra gli ultimi stati a riconoscere Taiwan in Africa – grazie alla conclusione di accordi di cooperazione con l’allora governo burkinabé. La penetrazione turca in Sahel si è sviluppata di recente – il tradizionale focus strategico di Ankara è, infatti, nella regione del Corno d’Africa – e si fonda su una combinazione di strumenti di hard e soft power, come la fornitura di addestramento militare, la vendita di armi e droni letali, o l’influenza del modello islamico turco sull’Islam politico locale. La cooperazione securitaria delle potenze del Golfo con gli stati saheliani, poi, ha a lungo costituito il riflesso della competizione di potere tra l’asse composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto, da un lato, e il Qatar dall’altro. Gli asset politici, economici, religiosi e militari sono stati mobilitati per il perseguimento di interessi strategici: l’isolamento diplomatico di Qatar e Iran, da un lato, e la ricerca di partnership, mercati e risorse, accanto alla promozione di specifici modelli di attivismo politico islamico, dall’altro. Infine, la Russia: benché il “ritorno in Africa” di Mosca sia fatto coincidere, comunemente, con il biennio 2017-2019 – quando accordi di cooperazione militare furono siglati con i governi di Ciad, Niger, Burkina Faso e Mali – l’influenza russa in Sahel è divenuta di particolare attualità nel 2020, in ragione della (presunta) prossimità degli esponenti della giunta provvisoria in Mali al Cremlino. Più di recente, l’accordo tra il governo di transizione a Bamako e i contractor militari privati di Wagner Group – che prevederebbe addestramento militari e supporto alle attività di controterrorismo, in cambio di compensazioni finanziarie e concessioni minerarie – ha innescato una profonda crisi politica tra il Mali e i partner europei. La capacità della Russia di espandere la propria presenza in una regione tradizionalmente sotto influenza francese, e di colmare un vuoto strategico dovuto al disimpegno progressivo dei donatori tradizionali, è più che mai significativa, considerato anche il consenso di cui Mosca sembra godere tra le opinioni pubbliche saheliane – anche grazie all’attivismo dei network di disinformazione facenti capo a Mosca – contrapposto a un diffuso sentimento anti-francese e anti-europeo.

Quali prospettive per la crisi nel Sahel centro-occidentale?
È difficile dire quali possano essere le prospettive future per la crisi in Sahel. Senza dubbio, una stabilizzazione su scala regionale non può prescindere dal miglioramento della governance su scala locale: nonostante l’urgenza posta dal deterioramento della sicurezza, il focus esclusivo su una dimensione militare di intervento finirebbe per avere effetti controproducenti. È invece necessario intervenire sui deficit di governance nel medio e lungo periodo, assicurare il ripristino dei servizi essenziali nelle aree periferiche, contrastare efficacemente abusi statali diffusi, prevenire lo scoppio di conflitti comunitari e impedirne l’etnicizzazione. Nell’immediato, le attività di contrasto all’estremismo violento devono avere come punto di riferimento la protezione delle popolazioni civili dagli attacchi di attori jihadisti e milizie armate. Purtroppo, la tendenza che sembra emergere – in Mali, con il coinvolgimento diretto dei mercenari di Wagner al fianco delle forze armate maliane, e potenzialmente in Burkina Faso – vede nella repressione violenta e indiscriminata esercitata nelle aree sotto il controllo dei gruppi jihadisti una strategia di gestione del conflitto destinata a esacerbare le dinamiche di insorgenza tra le comunità locali, piuttosto che a offrire soluzioni sostenibili e durature.

Camillo Casola è ricercatore associato al programma Africa dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e membro del Centro Studi sull’Africa Contemporanea (CeSAC) dell’Università di Napoli L’Orientale. Lavora attualmente per la Commissione Europea, addetto allo sviluppo di partnership strategiche con l’Africa.

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