“Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture” di Arnaldo Momigliano

Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture, Arnaldo MomiglianoI saggi di carattere storico e storiografico sul mondo antico che compongono Saggezza straniera. L’Ellenismo e le altre culture di Arnaldo Momigliano, vengono ora ripubblicati da Einaudi, a distanza di oltre quarant’anni dalla loro prima edizione nell’originale inglese, con il titolo di Alien Wisdom. The Limits of Hellenization, del 1975.

Come ricorda nella sua introduzione Francesca Gazzano, Saggezza straniera costituisce «un libro di sorprendente attualità, giacché vi si tratteggia l’affresco storico-culturale di un’epoca, l’Ellenismo, sì lontana e conclusa, ma che precorre per certi aspetti quella “società globale”» nella quale oggi viviamo.

Momigliano ricorda come «l’età ellenistica vide un avvenimento culturale di prim’ordine: il confronto cioè tra i Greci e quattro altre civiltà, tre delle quali praticamente sconosciute prima d’allora, e la quarta conosciuta in circostanze assai diverse. » Oggetto del libro è dunque lo «studio dei legami culturali che intercorsero tra Greci, Romani, Celti, Ebrei e Iranici nell’età ellenistica.»

Va sottolineata «l’importanza che Momigliano assegna allo scarso interesse, da parte dei Greci, per le lingue “altre”, e il valore aggiunto che è di contro attribuito alla conoscenza di idiomi “altri” come strumento d’interazione, di penetrazione e di conquista […]: i limiti del monolinguismo e la presunzione del monolinguismo sono temi che si presentano anche nella “società globale” contemporanea, dove al dominio dell’inglese, ormai lingua franca dell’economia, della tecnologia e delle scienze, non corrisponde più il predominio delle potenze anglofone, superate da potenze come quelle asiatiche».

Afferma infatti l’autore: «La civiltà ellenistica rimase greca nel linguaggio, nei costumi e, soprattutto, nella presunzione. La superiorità della lingua e dei modi greci era data tacitamente per scontata tanto ad Alessandria ed Antiochia quanto ad Atene.»

«I Romani non presero mai molto sul serio i propri rapporti intellettuali con l’Ellenismo: essi agivano da una posizione di forza e, senza darsi troppo da fare, conservarono una netta coscienza della propria identità e superiorità. Pagavano i Greci perché insegnassero loro il proprio sapere, e spesso non dovevano neppure pagarli perché si trattava di loro schiavi. Comunque, attraverso l’assimilazione e l’appropriazione di tante divinità, convenzioni letterarie, forme artistiche, idee filosofiche e costumi sociali di origine greca, i Romani crearono fra se stessi e i Greci un rapporto reciproco tutto particolare; questo si rese tanto più possibile in quanto i Romani avevano fatto della loro lingua uno strumento culturale che poteva rivaleggiare con quella dei Greci ed era in grado di rendere con notevole precisione il pensiero di questi ultimi (anche se essi non accettarono mai interamente questa realtà). Nessun’altra lingua antica riuscì a tanto». La «cooperazione tra gli intellettuali greci e gli scrittori e politici italiani» diede così «vita ad una nuova cultura bilingue che fornì di un senso la vita sotto la dominazione romana.»

Sono le relazioni tra Roma e il mondo ellenico a suscitare l’interesse dello storico: «I primissimi rapporti tra Romani e Greci furono privi di qualsiasi rivalità. La Roma monarchica viveva sotto l’influenza della cultura etrusca, e questa assorbiva una grande quantità di merci greche. […] Il caso dell’Etruria ci insegna che l’assimilazione di numerose tecniche e nozioni non implica necessariamente una reale comprensione tra due civiltà. Gli Etruschi rimasero un enigma per i Greci – è questa una delle molte ragioni per cui rappresentano tuttora un enigma per noi. Se i Romani avessero seguito l’esempio etrusco, Eraclide Pontico non avrebbe chiamato Roma col nome di polis hellenìs già alla metà del iv secolo a.C. (Plutarco, Camillus 22).»

«L’emancipazione della plebe e la sua progressiva partecipazione al governo, sembrano senza equivalenti in Etruria ma sono facilmente comprensibili in termini greci. In più, pare che la plebe romana mostrasse un interesse particolare per il patrimonio religioso e morale greco. […] è curioso che i primi due cognomina greci dell’onomastica romana appartengano a due consoli plebei: Quinto Publilio Filone, console nel 339 e nel 327 a.C., e Publio Sempronio Sofo, console nel 304 a.C.»

«I Romani decisero di scoprire la natura dei Greci, cercarono di impararne la lingua, accettarono le loro divinità e rimodellarono la propria costituzione secondo linee che alcuni Greci riconobbero simili a quelle delle loro stesse costituzioni. Alla fine del iv secolo, gli aristocraticissimi Fabii, noti fino ad allora come esperti in lingua ed affari etruschi, decisero di darsi alla lingua e all’arte greca, nonché alla diplomazia nel mondo ellenico. […] Il momento decisivo del processo di assimilazione romana della cultura greca è quello delle due prime guerre puniche. Mentre combattevano contro Cartagine, i Romani impararono il greco e assorbirono a velocità crescente costumi e sapere ellenici. […] gli anni 240-200 a.C. furono esattamente quelli in cui l’epica, la tragedia, la commedia e la storiografia greca divennero parte del sistema di vita romano.»

«La creazione della letteratura in lingua latina impegnò uomini la cui lingua materna non era, o di certo o probabilmente, latina: la prima lingua di Livio Andronico era il greco; Ennio parlava originariamente l’osco; anche Nevio probabilmente aveva parlato osco da bambino, essendo campano; Plauto crebbe verosimilmente parlando l’umbro, e Terenzio cominciò, a quanto sembra, col punico. Il commediografo Cecilio Stazio, un insubro dell’Italia settentrionale, parlava per nascita il celtico (san Gerolamo, Chronicon, a. 1838, p. 138 Helm), ed è apparentemente il primo scrittore che l’orgogliosa città di Milano abbia mai dato. […] Il compito di scrivere in greco opere storiche o discorsi formali fu lasciato agli aristocratici romani, e non a caso. Roma aveva una lunga tradizione cronachistica, custodita da pontefici della classe aristocratica. Solo un aristocratico romano – forse un pontefice lui stesso – come Fabio Pittore, poteva rompere questa tradizione e rendere la versione originaria della storia romana accessibile al mondo colto in genere, come stavano facendo gli abitanti di altri paesi. Fu scrivendo storia in lingua greca che Fabio Pittore rivoluzionò la storiografia romana; non dobbiamo sorprenderci del fatto che si servisse anche di fonti greche, quando erano disponibili, come Diocle di Pepareto su Romolo (Plutarco, Romulus 3.8). Tenere pubbliche orazioni in greco richiedeva più coraggio; ci sono testimonianze delle figure ridicole che i Romani fecero puntualmente di fronte a sofisticati pubblici greci. Il greco scadente di Lucio Postumio Megello suscitò ilarità a Taranto nel 282 a.C. e contribuí alla guerra successiva (Dionigi d’Alicarnasso, XIX 5; Appiano, Guerre Sannitiche 7). Ma lentamente emerse una differenza fondamentale tra Greci e Romani: questi ultimi parlavano ai primi in greco. Flaminino (Plutarco, Flamininus 6), il padre dei Gracchi (Cicerone, Brutus 20.79) e Lutazio Catulo (Cicerone, De oratore II 7.28), parlavano un ottimo greco. Publio Licinio Crasso Dives Muciano, il perfetto esemplare di sfortunato e insopportabile proconsole (console nel 131), poté rispondere in cinque diversi dialetti a supplicanti greci (Valerio Massimo, VIII 7.6; Quintiliano, Institutiones oratoriae XI 2.50). Stava al Romano decidere se parlare in latino o in greco ad un uditorio greco – vale a dire, se con o senza interprete – ed Emilio Paolo poteva abilmente passare da una lingua all’altra (Livio, XLV 8.8; 29.3). Solo nel caso di Catone possiamo sospettare che non possedesse un’alternativa al latino, benché Plutarco sia convinto che avrebbe potuto parlare greco, se lo avesse voluto (Plutarco, Cato Maior 12).
I Greci, per quanto ne so, non ebbero mai una possibilità di scelta. Essi potevano parlare ai Romani solo nella propria lingua, e spettava a questi ultimi decidere se richiedere o no un interprete. Dobbiamo supporre che nel 280 a.C., Cinea parlò in greco nel senato romano e fu tradotto da un interprete (Plutarco, Pyrrhus 18). Si parla specificamente di un interprete nel caso della missione dei tre filosofi a favore di Atene nel 155 a.C.; l’interprete fu uno dei senatori, Gaio Acilio (Aulo Gellio, Noctes Atticae VI 14.9; Macrobio, Saturnalia I 5.16). Apollonio Molone fu ascoltato nel senato romano senza l’intervento di un interprete, al tempo di Silla (Valerio Massimo, II 2.3).

Il greco divenne virtualmente obbligatorio per reggere l’impero romano. Non saremo mai in grado di stabilire quanto del successo dell’imperialismo di Roma sia implicito nello sforzo d’imparare a parlare e pensare in greco, che i suoi cittadini misero in atto con determinazione. Né possiamo far altro che azzardare ipotesi sulle conseguenze del fatto che i Greci non conobbero il latino. Gaetano Salvemini sosteneva che Mussolini finí rovinosamente perché diceva sempre «Ja» a Hitler nel momento sbagliato. Essendo vanitoso, Mussolini non voleva ammettere che il suo tedesco fosse inadeguato ad un colloquio diplomatico. I Greci perlomeno non fecero alcun tentativo di nascondere la propria ignoranza del latino. […] Nel periodo tra il 160 e il 60 a.C. vi furono Greci che studiarono la storia e le istituzioni romane, non per adulare i Romani (come troppi fecero), ma per comprendere le loro conquiste.»

«L’Ellenismo influenza ancora il nostro atteggiamento nei confronti delle antiche civiltà. Dal tempo di Attila in poi, molti fattori hanno contribuito all’erosione della visione ellenistica del mondo, ma l’homo europaeus è rimasto intellettualmente condizionato dai suoi antenati ellenistici. Il triangolo Grecia-Roma-Giudea mantiene ancora una posizione chiave, ed è probabile la mantenga fintanto che il Cristianesimo rimarrà la religione del mondo occidentale. La Persia, la Mesopotamia e l’Egitto conservano più o meno la posizione in cui l’erudizione ellenistica li aveva situati come depositari della sapienza barbarica. I Fenici, e in particolare i Cartaginesi, hanno ancora un posto di rilievo nei nostri manuali di storia per le loro istituzioni e colonizzazioni perché i Greci si identificavano in queste attività. I Celti, che furono solo sfiorati dalla civiltà ellenistica e rappresentarono la maggiore ragione di allarme per Greci e Romani, sono stati semplicemente esclusi dall’orizzonte del tradizionale mondo civile occidentale. […] Solo a Vercingetorige, a Boudicca e a qualche druido è concesso di ricordare agli scolari della Comunità Europea che i Celti esistettero davvero nell’età di Roma. Il bagaglio medio di conoscenze che un individuo colto d’oggi possiede sull’India, non è superiore a quello che si riscontra in scrittori greci e latini. Perfino ai nostri giorni, il curriculum scolastico tradizionale non prevede nessun obbligo di sapere qualcosa sulla Cina, dato che sia Greci che Romani non ne sapevano niente, o quasi.»

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