
D’altra parte, (almeno) due strade si aprono davanti allo studioso impegnato a tracciare l’ennesima introduzione a Saffo e alla sua poesia. La prima è molto breve, e consiste nella rassegna ordinata e sistematica dei circa 215 frammenti (tra cui una ventina di dubbi e tre spurî) della sua poesia e delle circa 100 testimonianze sul suo conto: gli uni e le altre largamente insufficienti a ricostruire una personalità letteraria e un quadro coerente di una produzione poetica, gli uni e le altre produttivi piuttosto di una fittissima serie di domande e problemi. Se è vero che Saffo ha influenzato notevolmente la poesia femminile e la poesia lirica nel suo complesso dei secoli successivi, e non solo in greco (basti pensare a Catullo, a Orazio, a Ovidio, per non fare che qualche esempio), lo è anche che quell’influenza, e di conseguenza la sua importanza nella storia letteraria, è di fatto indeterminabile, sbriciolata com’è nei frammenti e nelle testimonianze che ne costituiscono oggi il mutilatissimo corpus.
La seconda, invece, è molto lunga e si snoda per le innumerevoli tappe della fortuna di Saffo, o meglio dell’immagine che già gli antichi, a partire almeno dai commediografi del V secolo a.C., trasmisero di lei: la Saffo amante brutta, piccola e nera; la Saffo perversa ninfomane; la Saffo maestra di scuola e Socrate in gonnella; la Saffo vessillifera della femminilità e persino del femminismo.
La prima Saffo, quella ‘vera’, resta un grande, imbarazzante interrogativo nella storia della letteratura greca (e mondiale): un problema in senso etimologico, su cui i filologi di ogni tempo continueranno prevedibilmente a incrociare le spade, nell’inesausto duello delle ipotesi e delle ricostruzioni letterarie, storiche, socio-antropologiche. Ma la seconda – quella ‘falsa’, quella dell’immagine con il libro, la penna alle labbra e l’aria assorta, quella denunciata come forgery da molti di quegli agguerriti spadaccini, quella divenuta di volta in volta Omero, Socrate, santa, prostituta, sacerdotessa, etera, maestra di scuola, tribade, e tanto altro ancora – è un patrimonio dell’umanità.
Che cosa sappiamo della sua vita?
Le notizie biografiche sono relativamente abbondanti, anche se quasi tutte tarde e spesso viziate dall’intemperante biografismo degli antichi, per cui del resto la biografia non era una branca della storiografia, come per noi, ma della critica letteraria, dell’esegesi dei testi, che ne costituivano quindi (circolarmente) la fonte e che essa doveva servire a illustrare. Saffo, nata alla fine del VII e morta nei primi decenni del VI sec. a.C., fu contemporanea di Alceo – con cui forse intrattenne rapporti (una pittura su un vaso del 470 a.C. ca., opera del Pittore di Brygos, li ritrae a colloquio) – e nacque a Ereso, figlia di Scamandronimo (ma vi sono altri sette candidati) e Cleide (mater semper certa…). I suoi tre fratelli si chiamavano Erigio, Larico (che servì come coppiere nel pritaneo di Mitilene) e Carasso, che, commerciante a Naucrati in Egitto, forse del vino di produzione famigliare, finì vittima delle arti di seduzione della celeberrima cortigiana Dorica-Rodopi, che riscattò a gran prezzo, mettendo a repentaglio il patrimonio e l’onore della famiglia; il marito, proveniente dall’isola di Andro, Cercila; l’adorata figlia, Cleide, come la madre di Saffo: si tratta di notizie sospette e forse frutto delle manipolazioni comiche dell’immagine di Saffo, tra V e IV sec., anche perché il nome del marito di una poetessa (pure) dell’eros suona in greco qualcosa come “Codone di Virilia” (o Dick Allcock of the Isle of MAN, come ha tradotto un collega), benché l’individuazione di nomi parlanti sia sempre un’operazione rischiosa, che non deve ispirare troppa confidenza (mi dicono che uno dei fidanzati della disinibita soubrette contemporanea Sara Tommasi si chiamasse Alessandro Verga, conte di Lomazzo…) e benché l’origine prima di tali informazioni – proprio per le dinamiche biografiche sopra indicate – possa essere individuata nella stessa poesia di Saffo, in cui le vicende della famiglia sembrano aver giocato un ruolo importante: un carme noto solo dal 2014 (fr. 10), in séguito alla pubblicazione di controversi frustuli di papiro (di acquisizione sospetta e in odore di fraudolenza), ha confermato almeno i nomi di Carasso e Larico, mentre la persistenza di quello di Cleide in linea di discendenza matrilineare (cf. fr. 98) può segnalare un qualche ruolo della componente femminile della famiglia nello scacchiere aristocratico della Lesbo tra VII e VI sec. a.C. (caratterizzato da sanguinose lotte tra ‘cosche’ rivali).
Piccola, di carnagione scura, non bella, la poetessa doveva comunque essere di origine aristocratica se all’epoca di Mirsilo (probabilmente tra il 603/602 e il 596/595), per i consueti contrasti tra le casate aristocratiche di Lesbo, fu in esilio in Sicilia. Una grande enciclopedia bizantina del X sec. a.C. (ma le cui notizie biografiche, attraverso numerosi passaggi, possono risalire all’attività esegetico-biografica dei Peripatetici), la Suda, registra ancora i nomi delle ‘amiche’/‘amanti’ Attide, Telesippa e Megara, e delle ‘allieve’ Anattoria di Mileto, Gongila di Colofone ed Eunica di Salamina: ulteriore, indiretta testimonianza dell’attività educativa e cultuale di Saffo come guida di un ‘tiaso’ (ma il termine non compare nei frammenti superstiti), connesso con il culto di Afrodite, delle Muse e delle Cariti, cui partecipavano ragazze provenienti da diversi centri di Lesbo e anche da altre parti del mondo egeo, in particolare dall’Asia Minore, che ricevevano una formazione aristocratica (fondata su attività cultuali e su musica, danza e canto, ivi compresa la conoscenza dell’epos e delle grandi opere poetiche del passato), e si esercitavano, tra l’altro, ad assumere le funzioni sociali cui sarebbero state destinate una volta spose.
Alla cerchia saffica, caratterizzata da frequenti rapporti con la Lidia, si contrapponevano comunità rivali, come quelle di Gorgo e Andromeda (una delle quali appartenente alla potente famiglia mitilenese dei Pentilidi, l’altra forse a quella dei Polianattidi), e Attide fu in qualche modo attratta dal gruppo di Andromeda, come Gongila da quello di Gorgo, con quelli che Saffo poté leggere come autentici tradimenti. All’attività della cerchia, che fruttò a Saffo fama e ricchezza, si riconnettono i rapporti omoerotici con le fanciulle e gran parte della stessa poesia saffica, strumento e contenuto di educazione culturale e cultuale, nonché occasione di condivisione affettiva, di comunicazione interpersonale e di celebrazione collettiva: dalla preghiera ad Afrodite (fr. 1) al carme per Anattoria lontana (fr. 16), dall’ode sui sintomi della sofferenza amorosa (fr. 31, imitata da Teocrito, Lucrezio, Orazio e tradotta da Catullo) ai carmi di addio per le compagne (cf. fr. 94), dalla malinconica celebrazione della bellezza di Attide (fr. 96) sino agli epitalami, in alcuni dei quali è più evidente il riuso letterario – con tanto di patenti epicismi – di elementi popolari (cf. fr. 44).
In quale contesto si sviluppa la sua produzione poetica e quali funzioni svolge?
La domanda è cruciale, perché – come spesso cerco di spiegare ai miei studenti – tutta la lirica arcaica consiste in performances, eventi a cui il pubblico assiste in diretta, ascoltando il canto e la voce, guardando gli occhi e la danza degli esecutori (quando si tratta di un Coro) o della/del performer (che quasi sempre coincide con ‘l’autore’), e non già – come per noi – in letture di occhi muti su pagine inchiostrate e fruscianti, con la schiena sul divano o sul letto. E la risposta è impegnativa, perché l’individuazione di un contesto performativo è un problema sempre difficile e non sempre risolvibile, e incide pesantemente sull’interpretazione complessiva del nudo testo (senza musica, senza danza), che è quanto ci resta di quegli spettacoli. Rispondere a chi ci chiede in quale contesto sociale vivesse la poetessa, con quale funzione, per chi componesse i propri carmi, dove li eseguisse, in quali circostanze, con quali finalità, significa restituirgli un mosaico complessivo – storico-socio-biografico e letterario-critico-esegetico nel contempo – con la consapevolezza che molte tessere sono frutto delle nostre congetture (un monito alla prudenza che non rende affatto tale rischiosa operazione meno necessaria o addirittura allegramente trascurabile). Tra le molte contestualizzazioni che sono state immaginate – ‘tiasi’, ruoli sacerdotali, educandati-ancien régime, bordelli di lusso, scuole di musica e danza, simposi lesbici (in senso antico e moderno) – almeno tre dati di fatto possono però essere registrati:
- a) L’attività dichiaratamente educativa svolta da Saffo nel contesto della Lesbo del suo tempo, per giovani locali e provenienti altresì da oltremare, testimoniata da più fonti, indipendenti tra loro, i numerosi riferimenti a ‘ragazze’ presenti nei frammenti (in cui Saffo talora si rappresenta come anziana), i gruppi rivali e la ricchezza che la poetessa avrebbe accumulato con la sua attività costituiscono un coro coerente e difficilmente silenziabile, e soprattutto ben poco armonizzabile con l’immagine univoca e oggi largamente accreditata di una Saffo intenta a ludici e gratuiti simposi con un gruppo di disinibite coetanee; e proprio la componente omoerotica – ormai difficilmente negabile per la quantità e la qualità degli indizi che la fanno emergere dai frammenti – sembra un ulteriore indizio in tal senso, data la natura essenzialmente pedofilica dell’omoerotismo greco.
- b) Contesti eterico-simposiali ‘al femminile’, d’altra parte, non sembrano totalmente assenti nei frammenti di Saffo, e – per quanto la pratica di simposi femminili sia mal documentata per l’età arcaica e classica – va sottolineata la presenza anche di coetanee nei contesti saffici, a variare e complicare sensibilmente l’immagine scolastica e univocamente verticale (la ‘maestra’ e le ‘allieve’) della comunità e dei rapporti erotici che vi nascevano.
- c) Tanto i contesti ‘educativi’, quanto quelli ‘simposiali’, d’altra parte, appaiono non di rado caratterizzati da connotazioni marcatamente religioso-cultuali, soprattutto di inconfondibile segno afroditico: il nettareo ‘simposio’ del fr. 2, per esempio, si conclude con un’epifania di Cipride, chiamata a parteciparvi, mentre un chiaro contesto omoerotico come quello del fr. 94 appare decorato dai consueti fiori dell’erbario afroditico e da elementi esplicitamente cultuali, tra cui un “tempio”.
Malgrado i molti dubbi e la mancanza di paralleli davvero calzanti, queste tre connotazioni non sono forse necessariamente in contrasto l’una con l’altra: perché escludere che Saffo potesse avere rapporti sia con ragazze più giovani, rispetto alle quali aveva una responsabilità latamente educativa, sia con coetanee che condividevano i valori e le pratiche sociali di quella determinata formazione sociale o ‘eteria’? O che l’attività musicale e culturale potesse affiancarsi a quella più marcatamente cultuale e paideutica? O ancora che ‘funzione pubblica’ e ‘dimensione privata’ (sempre ammesso che la distinzione non finisca per implodere in un anacronismo troppo schiacciato sull’oggi degli analisti) potessero convivere, come nella vita di chiunque, e magari trovare entrambe riflessi nella produzione poetica di Saffo? Che tutto ciò non possa e non debba essere condensato negli abusati (dall’età post-classica delle ‘scuole’ filosofiche alle pruderies e ai corto-circuiti storici delle grandi costruzioni culturali otto‑ e novecentesche) clichés della maestra di scuola o della sacerdotessa di Afrodite (o, all’estremo opposto, dell’etera lesbica e sfrenata) è senz’altro vero: ma che la demistificazione dei clichés debba spingersi sino alla negazione di funzioni sociali e culturali che la poesia greca ha storicamente assunto (magari a vantaggio del presunto recupero di un’affascinante quanto antistorica figura di poeta che compone in solitudine, n’importe quand e per i secoli a venire) non pare, viceversa, altrettanto raccomandabile.
Quanto ai contesti, il pubblico di Saffo pare sostanzialmente omogeneo, perlopiù femminile e perlopiù solidale, per quanto non manchino i ‘nemici’, cui sono dedicati, al solito, spunti giambici e sarcastici. Le tematiche da cui si può trarre qualche indicazione per evincere contesti e platee non differiscono in modo significativo da quelle di molti altri poeti lirici dal VII al V sec., e in specie di quei prodotti per cui sono state ragionevolmente ipotizzate un’ambientazione e una destinazione simposiale, e quindi una contestualizzazione eminentemente eterica, per cui il poeta compone e canta per il suo gruppo aristocratico di riferimento. Nel caso di Saffo, peraltro, se si vogliono immaginare contesti diversi da quel simposio e da quelle ritualità in cui si fa rientrare gran parte della produzione lirica maschile dell’età arcaica, la lunghezza standard dei componimenti ‘brevi’ – una ventina di versi in media per quelli in strofe saffiche del primo libro, per una durata stimabile in pochi minuti per ciascun componimento – costringe a pensare o che l’autrice ne eseguisse diversi nella stessa occasione (un po’ come nei moderni concerti), o che il suo canto non fosse l’unico nel ritrovo, o quanto meno non l’esclusiva e fondamentale ragione dello stare insieme in quella circostanza. Con molte semplificazioni, possono forse essere individuati componimenti per il gruppo ristretto (la cerchia delle donne: l’inno ad Afrodite, i poèmes d’adieu, per esempio), per la famiglia e la consorteria aristocratica, (come gli imenei e gli epitalami, i canti per le nozze, che costituivano una parte rilevante della produzione saffica, al punto di godere già nell’antichità di una particolare sistemazione editoriale), e per la città (come quelli che di stampo innodico, che presuppongono anch’essi di norma un Coro, sacra condivisi, e celebrazioni pubbliche di una certa importanza).
Quali stile e linguaggio caratterizzano la sua poesia?
Le dinamiche (e le casualità) della tradizione ci hanno consegnato una relativa omogeneità linguistico-stilistica della dizione poetica saffica, dove è difficile reperire scarti stilistici significativi, differenze marcate nei toni e nei registri, picchi e baratri. Da sempre, al contrario, i lettori di Saffo – ormai lontani dalle performances che caratterizzavano il contesto originario di fruizione della sua poesia – hanno messo in evidenza le costanti, pressoché onnipresenti, del suo stile: il linguaggio e la sintassi semplici, che danno l’illusione dell’immediatezza e del ‘vernacolo’ (e che sono invece il frutto di precise, e spesso scaltrite e meditate scelte espressive); i riferimenti diretti alla realtà e ai sentimenti in atto, che danno l’illusione dell’elaborazione poetica in chiave ‘realistica’ (e che sono invece legati alla performance e al contesto pragmatico del canto); la presenza ‘misurata’ di epicismi, che si fanno più densi nei frammenti epitalamici o comunque in metro dattilico; l’accentuata musicalità, che già in età augustea entusiasmava Dionigi di Alicarnasso (I sec. a.C.), perché il testo è sempre fatto per la musica (e non di rado per la danza).
La lingua di Saffo – si è detto, e si ripete comunemente – riflette la parlata colta della Lesbo del suo tempo. Poiché mancano documenti coevi che confermino direttamente quest’assunto, l’argomento che generalmente viene portato in suo supporto è quello per cui le iscrizioni di Lesbo – la cui documentazione superstite comincia peraltro dal IV sec. a.C. – riflettono esattamente la tipologia linguistica riscontrabile nei frammenti di Saffo e Alceo. Naturalmente, è possibile – anzi probabile – che il testo dei poeti di Lesbo sia stato fissato sulla base dell’assetto della lingua dei secoli IV e III a.C., ma non pare così improbabile nemmeno che la lingua di una tradizione letteraria così illustre come quella saffico-alcaica abbia potuto influenzare il dialetto dello scambio colto o comunque ‘ufficiale’ dei secoli a venire, e d’altronde il lessico complessivamente piano (sia pure capace di accogliere all’occorrenza omerismi, poetismi, termini ricercati) e l’ordo verborum semplice e poco artificiale di entrambi i poeti, e in particolare di Saffo, sembrano ulteriori indizi del fatto che la loro lingua poetica non dovesse distaccarsi troppo dall’eloquio degli aristocratici del loro tempo. Si tratta pur sempre, d’altra parte, di una lingua ‘letteraria’ e come tale formalizzata, che non rifugge dagli epicismi – magari con coloritura locale – quando il tono deve innalzarsi, come in alcuni epitalami, e che ammette, anche più spesso di quanto non si pensasse in passato, forme almeno apparentemente estranee al dialetto locale di Lesbo (il ‘vernacolo lesbio’ ipotizzato da Edgar Lobel) rappresentato dalle iscrizioni. Una lingua che pare configurare la poetessa quale consapevole attrice ed elaboratrice di tutte le dinamiche della comunicazione colta, insomma.
Quanto allo stile, per un esegeta del calibro di Dionigi di Alicarnasso, “la sonorità e la grazia” della dizione saffica risiedevano “nella continuità e nella levigatezza delle giunture”. “In ogni circostanza Saffo coglie le passioni concomitanti con le frenesie amorose a partire dai loro effetti e dalla realtà autentica”, rimarcava, probabilmente qualche decennio dopo, l’Anonimo Del sublime, nel citare quattro strofe del celebre carme della passione amorosa (fr. 31). Aggraziata semplicità, efficace naturalezza, levigata musicalità sono le formule critiche più spesso utilizzate da tutti i critici di Saffo, dall’antichità ai giorni nostri. Il lessico tendenzialmente comune e misurato, come l’aggettivazione semplice e intensa, però, non rifuggono certo dai ‘colpi d’ala’ della poesia, e il décor retorico è tutt’altro che sconosciuto alle modalità espressive della poetessa: i composti in primis, in cui già Aristotele notoriamente riconosceva uno dei tratti essenziali del linguaggio poetico greco, innalzano e ritualizzano la dizione soprattutto nei canti più impegnati e nei punti più sensibili del canto, e poi l’apparato di metafore e similitudini (tra cui quelle ‘lunari’ sembrano giocare un ruolo importante), il parco ricorso all’enallage e all’iperbato, nonché quella tendenza all’espressione iperbolica che traspare dal frequente uso di locuzioni comparative e superlative; ancor più rappresentate – specie, statutariamente, nella poesia epitalamica – figure di ripetizione come anafora, epifora, refrain, e ancora poliptoto e figura etymologica, e figure interamente di suono come l’allitterazione e la paronomasia.
La constatazione di tanto ingenium, associato a tanta ars, ha spesso ricondotto ad ammirare una volta di più la Saffo con lo stilo alle labbra: una poetessa ‘pre-alessandrina’, che componeva a tavolino, per iscritto e per un’anonima eternità, i propri carmi immortali. E anche quando lo studio dei contesti della poesia greca ha gettato qualche luce sulla natura essenzialmente ‘d’occasione’ della lirica greca arcaica e sulla dimensione ‘aurale’ della sua fruizione, si è spesso esitato – e proprio per le ragioni suddette – a riconoscere uno statuto integralmente orale alla melica saffica.
In realtà, le suddette ‘semplicità’ e ‘insegnabilità’ della dizione (lingua e metrica) di Saffo non depongono affatto contro una possibile composizione orale (anche se non necessariamente improvvisata) dei suoi canti, specialmente se unite a quella ‘formularità interna’ che rappresenta ancora oggi uno degli aspetti più sottovalutati, quando non espressamente negati, della poesia saffica: innumerevoli sono gli esempi – in un corpus conservato solo frammentariamente, e che dunque poteva ospitarne molti altri – che mostrano come anche Saffo tenesse nel suo strumentario i tasselli pronti per la composizione del canto, nelle diverse circostanze in cui esso era richiesto. Anche i numerosi casi di riferimento deittico a persone e cose evidentemente in praesentia di chi esegue il canto e del suo uditorio, sebbene non manchino certo casi di rappresentazioni evocative di luoghi lontani e di esperienze passate, sono ulteriori indizi a favore di uno statuto orale della poesia saffica. Ciò non significa, d’altronde, che si debba pregiudizialmente escludere che la scrittura abbia potuto giocare un ruolo, sia in sede di composizione, sia soprattutto in fase di conservazione dei canti di Saffo: l’impegno e l’elaborazione formale di alcuni frammenti epitalamici e innodici, le trame intertestuali o interdiscorsive che emergono anche oltre i fenomeni di persistenza di langue, i pur non sempre univoci accenni metapoetici alla sopravvivenza del canto e dei valori culturali e indubbiamente anche immagini (seriori, ma precoci) come l’istantanea di Saffo e rotolo immortalata dall’idria di Vari a metà del V sec. a.C. sono viceversa altrettanti indizi del fatto che il rapporto tra poesia performativa e Buchpoesie era più complesso e sfaccettato – anche in età arcaica – di come le periodizzazioni di comodo amano rappresentarlo.
Lo studio dello stile di Saffo può così forse dare un (piccolo) contributo a intaccare due inossidabili idola scholae ancora oggetto di venerazione: il ‘pan-oralismo’ di chi ritiene che i Greci non abbiano mai utilizzato la scrittura – una tecnologia che all’altezza degli albori della poesia greca era in uso già da qualche millennio nel Vicino Oriente antico – per faccende letterarie almeno sino alla fine dell’età classica, e il ‘pan-alessandrinismo’ di chi ritiene che bello stile, finezza, gusto, musicalità, levigatezza siano impossibili in contesti orali-aurali e non possano che uscire dal fumo e dal lume di molte lucerne, e da scrittoi ingombri di carte e di inchiostri.
Quali vicende hanno segnato la storia della formazione del corpus dei frammenti saffici?
Come molti altri poeti ‘dialettali’ (esprimentisi, cioè, in un dialetto diverso dall’attico, base della koine ellenistico-imperiale), Saffo – che aveva certamente goduto di raccolte di carmi e forse di edizioni ‘nazionali’ lesbie, con Alceo, già tra VI e IV sec., che era indubbiamente entrata tra gli autori di repertorio nei simposi arcaici, classici e post-classici, e che inclusa nel canone dei poeti lirici aveva beneficiato di un’edizione alessandrina (con i carmi organizzati in nove libri divisi lato sensu per metri, e all’interno di ogni libro in sequenze alfabetiche, per lettera iniziale della prima parola del primo verso, e forse anche tematiche) – cominciò a naufragare con la più stretta definizione dei canoni scolastici (già in età antonina), per inabissarsi completamente con quella generalizzata débâcle delle conoscenze del greco letterario che caratterizzò già il passaggio dal III al IV sec. d.C. Se ancora una pergamena del VII sec. ne conteneva alcuni poèmes d’adieu per donne della cerchia (i frr. 92-97), è improbabile che Saffo sia giunta integra a Bisanzio, perché gli autori bizantini non ne palesano una conoscenza più che antologica, e gli studiosi dall’età dell’Umanesimo (greco e italiano) a oggi non hanno potuto fare se non raccoglierne i cocci (talvolta re-incollandoli insieme in modo più o meno fantasioso).
Quale contributo hanno fornito alla nostra conoscenza della Saffo perduta i ritrovamenti papiracei?
Se si pensa che le quattro autorevoli edizioni ottocentesche dei lirici greci allestite da Theodor Bergk (1843, 1853, 1866-1867, 1882) contenevano circa 170 frammenti, che le autorevolissime sillogi novecentesche dei poeti di Lesbo di Edgar Lobel (1925), dello stesso Lobel e di Denys Page (1955, 1963, 1968) e di Eva-Maria Voigt (1971) ne registravano oltre 250 e che la mia arriva a oltre 300 items tra testimonianze e frammenti, ci si può rendere conto di quanto i papiri abbiano ampliato le nostre conoscenze, che pure restano altamente frammentarie. Oggi nessuno vorrà seriamente dubitare che una messa a punto – critico-testuale ed esegetica come pure storico-letteraria e cultural-ricezionale – di Saffo e della sua poesia fosse da tempo necessaria (anche se più d’uno potrà legittimamente dubitare che dovessi essere io a incaricarmene), soprattutto dopo che nuove acquisizioni papiracee, come quelle di P. Köln 60, 61a-b, P. Oxy. 2637 e P. Mich. inv. 3498r+3250br (1974), di P. Köln 429 (2004), e soprattutto quella – tanto spettacolare, quanto misteriosamente sospetta e in odore di fraudolenza – di P. Sapph. Obbink e di P. GC. inv. 105 (2014), hanno significativamente integrato il corpus della poetessa, irrimediabilmente datato quelle gloriose edizioni, e naturalmente contribuito al continuo aggiornamento di un dibattito critico che – tra gender studies, approcci antropologici, approfondimenti sulla mousike antica e sulla sua tradizione – ha introdotto nuove visuali (pur non senza ambiguità e contraddizioni) nello studio della poesia femminile antica e ha salutarmente costretto a ripensare dinamiche produttive, occasioni performative, contesti e funzioni sociali della lirica greca arcaica. I miei maestri mi hanno insegnato che un filologo lavora sempre con la matita e con la gomma, perché ogni nuovo ritrovamento costringe a cancellare e a riscrivere. Saffo, naturalmente, non fa eccezione.
Camillo Neri (1966) insegna Lingua e Letteratura Greca all’Università di Bologna. Si occupa di poesia greca, di esegesi biblica, di tradizione e fortuna dei testi classici, di applicazioni informatiche alla filologia classica, e di educazione alla pace. È membro dell’équipe internazionale dell’«Année Philologique» (di cui dirige il Centro Italiano), della rivista «Eikasmós. Quaderni Bolognesi di Filologia Classica» (di cui è condirettore) e del Centro Studi «La permanenza del classico». Tra le sue pubblicazioni principali, Studi sulle testimonianze di Erinna (Bologna 1996), Levitico, in La Bibbia dei LXX. 1. Il Pentateuco, a c. di Luciana Mortari (Roma 1999), Seneca nel Novecento (Roma 2001), Erinna. Testimonianze e frammenti (Bologna 2003), La lirica greca. Temi e testi (Roma 2004), Hermeneuein. Tradurre il greco (Bologna 2009), Breve storia della lirica greca (Roma 2010), Lirici greci. Età arcaica e classica (Roma 2011), Saffo. Poesie, frammenti e testimonianze (Santarcangelo, RN 2017), Μέθοδος. Corso di lingua e cultura greca. Grammatica (Firenze 2018).