“Sacra facere. Aspetti della prassi ritualistica divinatoria nel mondo romano” di Claudia Santi

Sacra facere. Aspetti della prassi ritualistica divinatoria nel mondo romano, Claudia SantiSacra facere. Aspetti della prassi ritualistica divinatoria nel mondo romano
di Claudia Santi
Bulzoni Editore

«Il sacra facere di cui si occupa questo libro riguarda l’azio­ne del collegio sacerdotale romano che porta nel nome stesso questa locuzione sotto la forma di riti (espiatori) da istituire. Diciamo “istituire” e non “compiere” perché in questo caso il fa­cere ha più una valenza fondativa che esecutiva. Compito es­senziale del collegio dei viri sacris faciundis (composto inizial­mente di due membri, passati a dieci dopo il 367 a.C. e a quin­dici a partire da Silla) era quello di consultare i libri Sibyllini (una raccolta di sentenze oracolari di varia provenienza), traen­do indicazioni riguardo ai riti da effettuare e alle divinità da coinvolgere nell’azione riparatoria di una precedente violazione del “patto con gli dei” (pax deorum). In questo senso, “prassi ri­tualistica” è da intendere sia come procedura (che era assai complessa, perché coinvolgeva senato ed alte magistrature, per non parlare degli adempimenti del collegio), sia come produ­zione (di nuovi riti, che il collegio individuava, lasciando che al­tri eseguisse: di qui il gerundivo usato per sacra facere).

Significativa appare, in questo senso, la distinzione-com­plementarità di funzioni tra il collegio sacris faciundis e quello dei pontifices. Rispetto a questo sacerdozio arcaico, il soda­lizio sacris faciundis si presenta come una formazione in pie­no sviluppo in età repubblicana. I “miti” di età regia sono fon­danti solo in negativo, sia quanto all’errata consultazione dei Commentarii di Numa da parte di Tullo Ostilio, sia quanto alla svantaggiosa contrattazione per l’acquisto dei libri Sibyllini da parte di Tarquinia Superbo. Mentre i pontifices “conservavano”, nel senso di garantire la scrupolosa esecuzione di modalità e procedure religiose tradizionali, i viri sacris faciundis “innova­vano” – sia pure entro le regole previste dal mos maiorum – pro­ponendo l’introduzione di nuovi riti (a volte anche di nuove en­tità divine), senza per questo cadere in una nova religio, anzi proprio per evitare di cadervi. Inoltre, mentre i pontifices limi­tavano la loro sfera d’azione all’Italia, ai viri sacris faciundis era aperto il mondo intero, col suo patrimonio di culti e di riti espiatori […]. Non era infat­ti possibile consultare i libri Sibyllini al modo stesso di un “massimario” giurisprudenziale. La raccolta di vaticini, espres­sa in un linguaggio polisenso, criptico, “sibillino” appunto, co­stituiva un materiale divinatorio di per sé inerte, “caotico”: si potrebbe dire pre-romano, nel senso di non essere stato con­cepito in funzione delle strutture concettuali proprie del siste­ma civico-giuridico-statuale di Roma. Compito dei viri sacris faciundis era “cosmicizzare” quel materiale eterogeneo in senso romano, trasformando i responsi oracolari in risposte tecnico­ rituali univoche e certe, ordinate al fine di ricostruire il patto con gli dei. […] In linea di principio, nulla garantiva che la rispo­sta rituale concordata dai viri sacris faciundis fosse risolutiva della crisi. Livio riferisce casi di “insufficienza” dell’operato del collegio, che comportava il ricorso ad altri operatori, ovvero la proposta di altri riti espiatori fino al raggiungimento di quelli efficaci (cfr. Livio VII, 2-3 (364 a.C.). etc.). Tutto ciò non smi­nuiva l’importanza di consilium, diligentia, prudentia, etc., ma al contrario ne ribadiva la necessità. Se rischio vi era che gli dei non accogliessero il piaculum, questo rischio era calcolato, ed il calcolo del rischio non poteva che venire da una valuta­zione ponderata del materiale rituale, filtrata dalla scientia sa­cerdotale, dall’esperienza acquisita in precedenti consultazioni, dal ricorso a una casistica analogica, etc..

Tutte possibilità, queste, che derivavano ai viri sacris faciundis dal fatto di appartenere alla stessa classe sociale e alle stesse famiglie che gestivano il potere, dalle quali (salvo i casi di homines novi, comunque cooptati nella nobilitas) venivano tratti i magistrati curuli e i sacerdoti pubblici; il che, dunque, consentiva una circolazione di informazioni, un accesso ad archivi di famiglia e a raccolte di commentarii, an­che a prescindere dalla possibilità, tutt’altro che remota, che anche i viri sacris faciundis disponessero di propri archivi. […]

Senza dubbio, il complesso prodigiapiacula marca un se­gno di discontinuità nel rapporto fra cultura moderna e Roma antica. […]

Uno dei pregi maggiori di questo libro consiste […] nell’oltrepassare il livello dello scetticismo pregiudiziale, per considerare il materiale disponibile, alla luce della compa­razione, nel suo svolgimento storico-culturale: con le ragioni che giustificarono l’istituzione del sacerdozio dei viri sacris faciundis, che portarono a farne uno dei quattuor amplissima col­legia sacerdotali di Roma; che ne videro gli elementi di conti­nuità e di cambiamento nel corso di quasi mille anni di storia romana; che ne segnarono l’importanza anche a motivo del­l’attaccamento dimostrato dai cittadini all’istituzione, fino agli estremi tentativi da loro operati per salvare i libri Sibyllini dal­la distruzione […], ancora nella secon­da metà del IV sec. d.C..

Ricostruire il significato religioso (ma anche politico!) della prassi ritualistica divinatoria dei viri sacris faciundis significa comprendere uno dei meccanismi essenziali di regolazione del sistema politeistico romano, del suo continuo ristrutturarsi nel­la storia, del suo rispondere alle sollecitazioni politico-religio­se provenienti dall’esterno, senza rinunziare ai valori del mos maiorum. […]

Uno dei fili conduttori del libro ci sembra consistere nel contributo decisivo che l’istituzione del collegio sacris faciundis reca al processo di “demitizzazione” della religione romana. Il collegio acquista importanza a partire dal momento in cui Ro­ma abbandona alcuni connotati che la omologavano alla koiné greco-etrusco-italica (con aperture al mondo fenicio-punico). […] A partire dalla fine del VI secolo a.C., in coin­cidenza con l’affermarsi della repubblica, si afferma un pantheon non più sovrapponibile ai corrispondenti politeismi della koiné: un politeismo centrato su Giove Capitolino […] gli dei di Roma vengono sguarniti delle loro componen­ti mitico-genealogiche per trasformarsi in “dei dello stato” […]. legati agli uomini da rappor­ti giuridico-religiosi di tipo contrattualistico, comprendenti la possibilità di pattuizioni rinegoziabili in caso di rottura. In questo spogliamento di miti a favore di una nuova veste giuri­dico-ritualistica […] s’inserisce il ruolo del collegio sacris faciundis […].»

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