“S’i’ fosse foco” di Cecco Angiolieri

Poche le notizie biografiche; Cecco conobbe Dante, al quale inviò tre sonetti. Esponente di spicco della tendenza comico-rea­listica, è certamente il poeta più noto in quel gruppo; ma va detto che poesie di questo genere ne composero anche poeti normalmente interessati ad altro, a partire dallo stesso Dante, autore di una “tenzone”, con scambio di accuse infamanti, col suo amico Forese Donati. L’ideale di vita di Cecco è riassunto nella triade donna, taverna e dado, le sole cose che gli vanno a genio («m’ènno in grado»), ma le sue poesie sono attraversate dal tema della malinconia e della miseria, benché il padre, che il figlio non perde occasione di esecrare, fosse un ricco banchiere. Molto è letteratura; però, nel suo caso, qualche elemento biografico è indubbio: colpisce il fatto che, poco prima della morte di Cecco, i figli abbiano rinunciato all’eredità, evidentemente gravata da molti debiti. Quel che è certo è che, anche in questo caso, abbiamo − paradossalmente proprio come in Iacopone − una lettura del mondo lontanissima dai canoni stilnovistici.

S’i’ fosse foco (Rime)

Sonetto molto noto che anche Fabrizio De André mise in musica nel 1968. Cecco effonde il suo malumore contro tutto e tutti, in un grottesco assemblaggio che non risparmia nemmeno Dio e i genitori. Ma l’ultima strofa svela l’intenzione scherzosa e tutto si stempera nella battuta finale: quel che gli sta a cuore sono le facili avventure amorose. L’apparente elementarità dell’impianto in realtà cela un’indubbia sapienza espressiva. La prima strofa è rappresentata da quattro periodi ipotetici (e non era facile condensare ciascuno in un endecasillabo); nella seconda, i periodi ipotetici sono due, alternati; nella terza, due in successione; nella quarta uno solo. Inoltre, i primi tre versi «chiamano in causa gli elementi naturali costitutivi del mondo, posti in una precisa gerarchia decrescente, che rispecchia quella cosmologica: fuoco, aria (vento), acqua»; i versi 3, 4, 7, ancora in ordine decrescente, i massimi punti di riferimento per un uomo del Medioevo (da Dio al papa, suo vicario in terra, all’imperatore); il verso 12 si apre con la protasi dell’irrealtà («S’i’ fosse»), ma riconduce subito alla realtà, con la certezza del modo indicativo: «com’i’ sono e fui». Gli ultimi due versi presentano un chiasmo: verbo + oggetto nel 13, oggetto + verbo nel 14.

Linguisticamente, sono tenui le tracce del senese, anche perché nessuno dei manoscritti che hanno trasmesso poesie di Cecco è stato scritto da un concittadino. Da notare solo esempi della conservazione del gruppo ar in protonia (che in fiorentino, e quindi in italiano, passa ad er): tempestarei (2), embrigarei (6), mozzarei (8), andarei (9), accanto a annegherei (3) e lasserei (14).

S’i’ fosse foco, ardere’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en profondo;

[5] s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutt’i cristïani embrigarei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;

[10] s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre.
S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui.

4 mandereil en profondo: lo farei sprofondare (al condizionale segue il pronome lo, apocopato)
6 embrigarei: metterei nei guai
7 sa’ che farei?: Giunta sottolinea il “tu diatribico”, proprio del dialogo e consistente nel rivolgersi a un interlocutore immaginario con un’interrogativa: «un tratto della lingua parlata che ci è familiare ancora oggi. “Ma sai che faccio? Io…”»
8 a tondo: di netto
13 torrei: prenderei; da togliere, qui in un’accezione arcaica, che però vive, cristallizzata, nell’interiezione toh! con la quale porgiamo qualcosa a qualcuno o gli diamo uno schiaffo (il passaggio semantico è ‘leva qualcosa da una parte e prendilo su di te’)

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