
1) la modernizzazione squilibrata dell’Impero russo, dove sacche urbano-industriali molto compatte convivevano con un mare agrario ancora semifeudale, con milioni di contadini disperatamente affamati di terra;
2) il carattere arcaico del sistema di governo zarista, fondato su un paradigma che risaliva a Pietro il Grande, quando non all’Impero bizantino;
3) l’incapacità di garantire alle tante nazioni dell’Impero un sia pur minimo quadro di diritti e di autogoverno;
4) la mancata rivoluzione del 1905, che aveva approfondito le contraddizioni senza risolverne nessuna.
Poi ci sono le cause di breve periodo, in particolare la Grande guerra – dall’andamento catastrofico per la Russia – e le sue conseguenze: crisi dell’agricoltura, privata di milioni di braccia; esasperazione nelle città in preda alla penuria alimentare, agitazioni fra i milioni di contadini in armi, desiderosi di tornare a casa; discredito definitivo del regime zarista.
L’impressione, come scrive un testimone dei fatti, era «che la rivoluzione fosse nell’aria, che tutti l’attendessero senza che nessuno ci si preparasse»; lo stesso Lenin, esule a Zurigo, ammette nel gennaio 1917 a un’assemblea operaia: «noi vecchi non vedremo forse le battaglie decisive dell’imminente rivoluzione». E dopo meno di un mese…
Quali sono le principali vicende rivoluzionarie che accompagnano il 1917?
Il 1917 corre come su un piano inclinato. L’onda di entusiasmo unanime, dovuto al crollo del regime zarista, è di breve durata. Proprietà della terra, rapporti di lavoro (a partire dalla giornata lavorativa di 8 ore), autodeterminazione delle nazioni dell’ex impero, uscita da un conflitto bellico disastroso, organizzazione complessiva dell’economia: fra il febbraio e l’ottobre, nessuna delle questioni ereditate dal passato è risolta o in via di risoluzione. Le aspettative della “democrazia” (così erano definite le masse popolari) e quelle dei “censuari” – ossia dei ceti privilegiati – vanno sempre più divaricandosi, scatenando crisi periodiche di violenza crescente: in particolare i moti pietrogradesi di luglio, non voluti dai bolscevichi, ma ad essi poi attribuiti. Dopo ogni crisi si tentava di rabberciare una gestione condivisa del potere, ma si trattava di tentativi sempre più velleitari, dato che i problemi di fondo rimanevano irrisolti e non si prestavano a una soluzione unanime.
È vero quanto afferma certa storiografia secondo la quale i fatti del 1917 fossero eterodiretti?
Nessuna “storiografia” seria afferma niente del genere: si può pensare qualsiasi cosa della rivoluzione russa, ma chi – di fronte a un processo immane e storicamente plurisedimentato di crisi delle classi dirigenti, della compagine statale, delle relazioni sociali di un immenso Paese – cerca la chiave di tutto in complotti da operetta, mostra di essere o un disonesto o un cretino.
E poi, “eterodiretti” da chi? Dal complotto demo-pluto-giudaico-massonico? È vero: molti oppositori del regime zarista avevano trovato nelle logge massoniche un luogo dove poter parlare di politica al riparo da occhi indiscreti; è vero anche che fra i dirigenti socialisti russi (principalmente fra i menscevichi, ossia fra i marxisti moderati) erano molti gli ebrei: una popolazione dell’Impero sottoposta a una durissima discriminazione e molto più acculturata di quanto lo fossero in media i russi etnici. C’è da stupirsi che trovassero un fattore di riscatto nel socialismo, ma anche nel nazionalismo sionista, come Ze’ev Jabotinsky, o nelle idee liberaldemocratiche, come Maksim Vinaver?
O si intende forse la vecchia storia dell’“oro tedesco” concesso ai bolscevichi dal Kaiser perché fungessero da quinta colonna? Né le indagini condotte dallo stesso governo provvisorio nel 1917, né quelle successive hanno mai trovato il minimo indizio a conforto di questa leggenda propagandistica. Parlare di queste cose significa uscire dalla ricerca storica propriamente detta per addentrarsi nel gossip di bassa lega.
Come mai i primi tentativi post-rivoluzionari di gestione condivisa del potere fallirono miseramente?
L’ho già in parte spiegato prima. L’impasse dei governi provvisori fra il febbraio e l’ottobre (ma anche l’impotenza del Soviet a guida socialista moderata, che del governo avrebbe dovuto essere il pungolo “democratico”) riflette la profonda lacerazione del tessuto civile e il contrasto fra gli interessi oggettivi delle classi sociali, sempre più divaricati. In area liberale si decide ben presto di ricorrere al golpe militare per “mettere a posto” la plebe e chi la strumentalizza: a fine agosto è il capo di Stato maggiore, generale Lavr Kornilov, a tentare un colpo di mano, dove il capo del governo Aleksandr Kerenskij gioca un ruolo assai ambiguo. A sinistra – anche in frange del partito bolscevico – non mancano i fautori di una strategia conciliante e inclusiva, ma si tratta di conati tanto generosi, quanto privi di reale sponda politica, poiché le masse popolari sono ormai molto più radicali di chi tenta di guidarle. Di tali masse, solo Lenin e i suoi bolscevichi sapranno interpretare i bisogni e incanalare la forza sovversiva, inscrivendo gli uni e l’altra in un disegno complessivo di trasformazione in senso socialista dello Stato russo e – in prospettiva – dell’umanità intera.
Con che modalità si impose la supremazia di Lenin e dei bolscevichi?
Il genio strategico di Lenin si dispiega compiutamente nei due mesi seguiti al fallito putsch di Kornilov: la resistenza opposta al generale golpista ha definitivamente compattato e legittimato i reparti armati irregolari bolscevichi (la Guardia rossa); Pietrogrado è una vera e propria bomba a orologeria, forte di 400.000 operai industriali e 300.000 militari acquartierati, profondamente permeati dalla propaganda bolscevica, a cui il governo provvisorio non può opporre quasi nessuno, dato che l’esercito è in rapida dissoluzione; 9 milioni e mezzo di soldati stanno abbandonando il fronte per tornare nei villaggi di origine e partecipare alla redistribuzione fondiaria, in pieno svolgimento tramite la spoliazione sistematica dei latifondisti; lo stesso fronte antibolscevico è profondamente diviso, e il partito di Lenin ottiene la maggioranza in numerose amministrazioni locali e nei Soviet chiave di Pietrogrado e di Mosca (a cui obbediscono operai e soldati).
Quando il 25 ottobre i bolscevichi (formalmente, un Comitato militare rivoluzionario che risponde al Soviet) prendono il potere, Lenin sta attento a legare subito le istanze contadine (tradizionalmente poco sentite dai bolscevichi) a quelle dei lavoratori e dei soldati. Qui sta il segreto del successo bolscevico nelle settimane successive: se le campagne fossero rimaste inerti o peggio ostili alla Pietrogrado rivoluzionaria, i bolscevichi avrebbero fatto rapidamente la fine della Comune di Parigi. In seguito, ovviamente, entreranno in gioco fattori sempre nuovi, ma questa è altra storia.
Che eredità lasciò il 1917 alla Russia e al mondo intero coevi?
La lunga rivoluzione del 1917 è storia nazionale, ma ha invece carattere universale il grandioso big bang che dall’Ottobre prende inizio: il movimento comunista nella sua infinita pluralità e contraddittorietà, che oggi molti vogliono ridurre a utopia astratta e patologica, ad avventura criminale, accomunata al nazifascismo in un indistinto “totalitarismo” contrapposto alla “buona” democrazia liberale. Io invece condivido il giudizio di chi vede nei comunismi (al plurale) soprattutto ciò che li differenzia tanto dai regimi fascisti quanto da quelli liberaldemocratici: come ben scrive Michel Dreyfus nel suo contributo a Il secolo dei comunismi (Milano, 2004), tale quid non è altro che «l’utopia di un potere politico effettivamente esercitato dalle classi popolari, dai gruppi più numerosi della società, dai gruppi meno dotati di risorse materiali e culturali […] Un’utopia che, in ogni caso, promette di rimanere – in altre forme – uno degli orizzonti della storia politica del XXI secolo». Tale utopia – io preferisco parlare di prospettiva – è un’onda lunga che ancora oggi ci accompagna, quella che forse è stata l’esperienza antropologica fondamentale dell’umanità nei dodicimila anni trascorsi dalla rivoluzione neolitica: il primo tentativo di edificare uno Stato, compiuto da masse popolari che da ogni ruolo politico attivo erano sempre state sistematicamente escluse.