
Più che di insidie parlerei di semplificazioni e di scorciatoie logiche. Dobbiamo alle infografiche moltissimo, in questi giorni in cui cerchiamo ragione e risposte nei numeri. E le infografiche ce li rendono più comprensibili e immediati, ci fanno capire a che punto siamo nell’ennesima curva, in che direzione stiamo andando e con che mezzi possiamo tentare di far flettere questa curva. Nello stesso tempo, le visualizzazioni di dati danno una visione parziale delle cose e spesso, offrendo spaccati diversi dello stesso fenomeno, sono usati come prove di ipotesi opposte.

Facciamo un esempio che è sotto gli occhi di tutti negli ultimi mesi: da una parte, chi mette in discussione l’utilità del vaccino sostiene che i casi di ricovero o morte di persone vaccinate siano più frequenti di quelli dei non vaccinati. Dall’altra parte, chi difende il vaccino “normalizza” i dati (cioè usa i rapporti tra i casi e la popolazione vaccinata e non vaccinata) e può decostruire il discorso no-vax attraverso configurazioni grafiche come il diagramma di Eulero che pesca da due insiemi di dimensioni diverse un unico insieme. E una guerra giocata a livello di visualizzazioni, dove chi propone con le immagini numeri assoluti si oppone a chi invece ragiona in termini ponderati e relativi (Fig. 1).

D’altra parte ci sono dei grafici (penso a un’infografica presentata dal presidente della Regione Toscana sul confronto tra il numero di vaccinati e di non vaccinati che finisce in terapia intensiva, Fig. 2) dove non c’è coerenza nei metodi di rappresentazione: un pittogramma che in una parte del grafico rappresenta un numero approssimativo di individui, finisce in un’altra parte del grafico per rappresentare singoli individui. Se uno guarda superficialmente, sembra che quasi tutti i vaccinati siano finiti in terapia intensiva. Otto Neurath, padre dell’infografica tramite pittogrammi, sarebbe rabbrividito: per lui ogni pittogramma rappresentava non solo l’oggetto della comunicazione statistica ma anche una quantità precisa, rilevabile attraverso una legenda.Un’altra “insidia” tipica è mettere in correlazione dati che non sono necessariamente collegati.
L’altra sera, guardando un talk show, mi sono imbattuta in un’infografica che associava la percentuale dei vaccinati alla percentuale delle persone che credono che la terra sia piatta. Da due premesse solide, sorrette dalla forza dei numeri, veniva fuori una conclusione forse plausibile ma azzardata, sicuramente metodologicamente inaccurata. Il conduttore si è limitato a leggere questi numeri di seguito, lasciando allo spettatore il compito di tirare le conclusioni. Ho trovato questa forma di comunicazione disonesta, perché la presenza di terrapiattisti tra le file dei no-vax andrebbe provata in altro modo, con studi di matrice qualitativa, non con un’associazione di numeri che probabilmente pesca da bacini diversi.
Quello della correlazione spuria, tra l’altro, è un tipico meccanismo di costruzione delle bufale – pensiamo alle innumerevoli cause attribuite all’aumento dei casi di autismo negli ultimi anni attraverso la falsa correlazione. Una comunicazione che si vuole al servizio della scienza dovrebbe assolutamente evitarla, anche perché è dal disagio e dall’urgenza di darsi delle risposte che nascono spiegazioni false ma plausibili a fenomeni non facilmente spiegabili.
Ci sono buoni e cattivi grafici dunque?
In un certo senso, sì: ci sono buone e cattive forme di comunicazione statistica attraverso le visualizzazioni. E per questo invito a non perdere di vista i precetti di Edward Tufte (statistico americano che ha cercato di sistematizzare le qualità di una buona visualizzazione dell’informazione quantitativa). Tufte in particolare, da bravo statistico, invita a normalizzare sempre i numeri e a non distorcere i dati attraverso una variazione nella scala di rappresentazione: nel caso visto prima a proposito della regione Toscana, cambia il contenuto numerico da attribuire a ogni pittogramma e ciò si ripercuote sulla percezione dei rapporti tra la parte superiore del grafico e quella inferiore. Detto questo, ci sono grafici identici che, inseriti all’interno di diversi discorsi, assumono significati opposti. Consideriamo l’eccesso di mortalità a partire da Marzo 2021 per cause non riconducibili al Covid: per medici e scienziati, l’aumento delle morti è una drammatica conseguenza del calo delle visite specialistiche e degli interventi durante la pandemia da Covid; nel contesto di un discorso no-vax, il numero è invece indizio degli effetti collaterali del vaccino. Quindi in questo caso il problema non è se il grafico sia cattivo o buono ma come viene usato in un contesto comunicativo. Il grafico di per sé riporta dei numeri ma, mostrando un’anomalia, invita a ricercarne le cause. Per questo sostengo che tutti i grafici, anche quelli apparentemente più neutri, abbiano un valore retorico, servono come exempla per rinforzare un’opinione, suscitare un’emozione – paura, speranza, indignazione – e invitare all’azione.
Possiamo dire allora che i grafici esprimono punti di vista e agiscono sulla realtà, affermandosi come potenti strumenti di persuasione?
Certo. Bruno Latour, in La sfida di Gaia, inserisce una pagina interna di Le Monde del 2013 che presenta tre diagrammi tra cui una semplice curva di Keeling (il grafico che dagli anni Sessanta misura la quantità di anidride carbonica dispersa nell’aria). Il grafico racconta con chiarezza che, attraverso una progressione lenta e inesorabile, è stato raggiunto il tasso di anidride carbonica più alto degli ultimi due milioni e mezzo di anni. Cos’altro c’è da dire? Nulla, secondo Latour. La presa di coscienza di un’evidenza è talmente devastante che non c’è bisogno di condirla con esortazioni e appelli. La descrizione di un fatto è già una prescrizione. Per dirla in termini linguistici, l’informazione è già di per sé performativa, fa fare. Quello grafico è dunque un linguaggio apparentemente descrittivo che in realtà ha un forte potere di influire sulla realtà.
Amitav Ghosh, d’altra parte, fa notare come la fascinazione narrativa del discorso sul cambiamento climatico sia debole in confronto ad altre narrazioni, in cui l’individuale entra attraverso racconti nel collettivo. Tutti sappiamo, dice Ghosh, “dove eravamo l’11 Settembre”, ma nessuno si ricorda dov’era il giorno in cui è stata pubblicata quella notizia su Le Monde, “quando sono state raggiunte le 400 parti di biossido di carbonio per milione”, per quanto la notizia sia altrettanto devastante. È la differenza d’impatto tra l’evento (e la sua visualizzazione in diretta) e il processo che lentamente si avvicina al limite, che richiede un’assimilazione lenta e una visualizzazione che è sì performativa ma meno vivida e scioccante.
Come si è espresso tale carattere performativo della comunicazione visiva durante la pandemia da Covid-19?
La comunicazione del Covid-19 è caratterizzata dalla rappresentazione dell’individuale nel collettivo attraverso la statistica: ognuno di noi si sente parte dei numeri rappresentati. D’altra parte, è la visione stessa della curva a influenzare le scelte individuali – forse è meglio rimandare quella cena con gli amici; forse è meglio anticipare la terza dose; forse è meglio far vaccinare anche i miei figli. La proiezione sul futuro, d’altra parte, influenza le scelte politiche. Le famigerate “zone” scattano con un meccanismo legato al superamento delle soglie che ha una visibilità grafica. Sembra quasi che le scelte politiche abbiano assunto carattere automatico, come quando scatta l’allarme in presenza di fumo. Una de-responsabilizzazione che implica l’abdicazione del soggetto politico di fronte ai numeri e alla loro rappresentazione grafica: sono loro che “fanno fare cose” ai cittadini al posto suo, un dominio del non-umano che evita la varietà dei comportamenti dei governatori regionali che ha destabilizzato la prima fase della pandemia. C’è molto lavoro da fare per filosofi, sociologi, psicologi e semiologi – abbiamo lasciato che i numeri decidessero per noi, era necessario. Ma quali saranno le conseguenze? Di certo questa prassi non è ancora stata applicata al cambiamento climatico: il superamento di certe soglie attiva summit e confronti intergovernativi, ma non esiste ad oggi un meccanismo immediato che attivi procedure d’emergenza di fronte a un allarme che suona già da tempo.
I grafici sono realmente oggettivi e trasparenti come spesso viene loro attribuito?
I grafici traducono visivamente dati e rapporti tra dati. Ma i dati, come spiego nel mio libro, non sono frutti che raccogliamo dagli alberi. Nessuno li “dà” così come sono, non sono gli atomi ultimi dell’informazione. Il dato è ricercato e catturato, è la risposta a una domanda, una selezione operata sul campo del conoscibile. Già questo ci fa capire che la scelta di mostrare alcuni dati piuttosto di altri dipende dagli interessi e dalle domande di chi li raccoglie. Questo non significa abbandonarsi al relativismo o peggio ancora al complottismo: “Ci dicono ciò che vogliono che noi pensiamo. Ci nascondono ciò che non vogliono sappiamo”. Esiste anche l’interesse pubblico, di cui giornalisti, scienziati e politici dovrebbero farsi portavoce, ed è quello che determina la scelta di mettere alcuni dati in risalto. L’interesse collettivo degli umani nei confronti del riscaldamento globale porta a cercare quei dati che ne dimostrano l’evidenza e a tradurli in un artefatto grafico comprensibile a tutti. Pensiamo alla famosa Hockey Stick Chart, presentata all’Intergovernmental Panel on Climate Change del 2001: lo scienziato a capo del laboratorio che l’ha realizzata, Michael Mann, ha passato la vita a difendersi dalle accuse di manipolazione togliendo prezioso tempo alla ricerca. Poteva realizzare un grafico più “trasparente”? Non credo, non esiste grafico scientifico che sia una trasposizione diretta della realtà, che non sia frutto di pensiero, rielaborazione, studio, confronto, soprattutto quando le prove delle proprie ipotesi si rilevano attraverso proxy, indicatori indiretti. Certo, è più facile nel caso di un sismogramma che misura e visualizza l’intensità di un terremoto. Gli scienziati fanno di tutto per raggiungere la massima affidabilità, ma questa è dovuta soprattutto alla verifica e al confronto intersoggettivo più che a una presunta “oggettività”.
Quali tracce di incertezza e di errore portano in sé le infografiche?
Prima di tutto l’incertezza non coincide con l’errore ma con la possibilità di sbagliarsi. La grande maggioranza dei grafici risponde a regole di chiarezza e leggibilità e non porta tracce d’incertezza. C’è però un dibattito all’interno delle comunità scientifiche sull’opportunità di comunicare visivamente il grado di certezza con cui si fanno certe affermazioni. Non tutti i dati che raccogliamo sono sicuri al cento per cento. Nel libro racconto di alcune esperienze personali in cui ho raccolto dati per progetti giornalistici, ad esempio riguardo ai numeri degli sbarchi dei migranti sulle coste italiane: i numeri non sono precisi, ma per visualizzare un aumento o una riduzione significativa nel tempo, è necessario usare quei dati, seppur imprecisi. Però quell’imprecisione va comunicata se vogliamo essere onesti con il nostro lettore e ci sono metodi visivi per farlo. Per essere affidabili è meglio essere onesti riguardo alle proprie incertezze piuttosto che ostentare sicurezza per poi essere smentiti. Questo è stato secondo me l’errore comunicativo degli scienziati nei primi tempi della pandemia: invece di ammettere che si stava procedendo per tentativi di fronte a un evento nuovo e non adeguatamente preventivato, ci si è spinti in dichiarazioni avventate e ben presto smentite. L’aspettativa del pubblico – di trovare nella scienza risposte certe e assertive ai propri dubbi – è stata confermata e tradita nello stesso tempo da questi atteggiamenti. Forse sarebbe piuttosto valsa la pena di condividere il dubbio e l’incertezza insita nella ricerca scientifica, che procede sperimentalmente per tentativi, verifiche, conferme e smentite
Valeria Burgio insegna Communication, Visual and Interior Design alla Ca’ Foscari School for International Education. È stata per sei anni ricercatrice a tempo determinato alla Libera Università di Bolzano, dove ha insegnato Visual Culture nell’ambito di progetti di comunicazione visiva. Laureata in Scienze della Comunicazione a Bologna, ha un titolo di dottore di ricerca in Teorie delle Arti conseguito allo Iuav di Venezia e ha ottenuto assegni di ricerca di post-dottorato all’EHESS/CNRS di Parigi e all’Università Iuav di Venezia. È autrice del libro William Kentridge (2013). Ha co-curato il libro e collaborato al progetto Europa Dreaming. Yearning for Europe from the Brenner Pass (2019).