
In ragione di questa sua unicità, con Rousseau si sono confrontati tutti i più grandi pensatori a lui contemporanei (Voltaire, Diderot, Helvétius) e successivi (da Kant a Hegel, sino a Rawls), che hanno offerto interpretazioni differenti e talvolta contraddittorie della sua riflessione, pur riconoscendone sempre il carattere inaggirabile. Proprio in queste fluttuazioni risiedono probabilmente l’interesse e il fascino più profondi di un’opera che dev’essere annoverata tra gli intramontabili classici della cultura occidentale, di cui ogni rilettura – per riprendere una celebre osservazione di Italo Calvino – «è una lettura di scoperta come la prima», anche perché «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» (Perché leggere i classici, Garzanti, Milano 1991, p. 13).
Di quale modernità è la sua riflessione?
La riflessione di Rousseau è, a mio modo di vedere, la più moderna tra quella di tutti i philosophes settecenteschi. Egli non ha soltanto segnato indelebilmente il processo di formazione del soggetto moderno – investendo la singolarità di un inedito ruolo morale –, ma, come ha acutamente osservato Tzvetan Todorov, «ha scoperto e al tempo stesso inventato la nostra modernità. Scoperto, poiché la società moderna esisteva prima di lui ma non aveva ancora trovato un interprete così penetrante. Ma anche inventato, poiché ha trasmesso alla posterità i concetti e i temi che […] non smettiamo di sondare» (Fragile felicità, SE, Milano 2002, pp. 12-13).
Lo scopo principale che il mio libro si propone di perseguire è precisamente quello di far emergere la modernità del pensiero filosofico di Rousseau, non attraverso una sua attualizzazione distorsiva ma, al contrario, attraverso un lavoro di contestualizzazione di tale pensiero all’interno dell’irripetibile quadro storico e culturale dell’età dei Lumi. Esclusivamente a partire da tale premessa mi pare possibile, in primo luogo, mettere in luce un’attualità che si potrebbe definire “metodologica” della riflessione di Rousseau: essa ha infatti introdotto tematiche, forme espressive, modalità di pensiero e di valutazione che, pur essendo nate in un determinato contesto, possono essere applicate ai problemi del dibattito contemporaneo con la stessa congruità e la stessa efficacia. In secondo luogo, e specularmente, mi pare che proprio la posizione distintiva che Rousseau assume nei confronti dell’ambiente dei philosophes diventi un reagente straordinario per rivelare un’immagine variegata (e, almeno in parte, inedita) dell’Illuminismo, ben distante dalla visione monolitica e stereotipata ancora diffusa nella cultura di massa e in una certa manualistica.
Quali sono i capisaldi del pensiero rousseauiano?
Il caposaldo dell’intera produzione di Rousseau risiede probabilmente nell’opposizione tra natura e cultura, incentrata sull’idea che il progresso storico, invece di inverare la natura umana (come pretendeva il pensiero dominante del suo tempo), abbia condotto a una “degenerazione” fisica e morale.
Questa contrapposizione – che si riflette nello iato tra “uomo della natura” e “uomo dell’uomo” – fa emergere il grande paradosso all’origine dell’idea di natura in Rousseau, ossia il suo essere destinata a rimanere una dimensione normativa, irrimediabilmente sottratta, nella sua purezza, all’esperienza. La possibilità di conoscersi veramente trova infatti un ostacolo insormontabile nella storia, che si connota come un processo inverso alla manifestazione della naturalezza. Questa antitesi viene espressa attraverso una delle metafore più celebri del Discorso sulla disuguaglianza (1755), quella che paragona la natura umana alla statua sfigurata del dio marino Glauco, che da affascinante giovane si è trasformata in un mostro ripugnante.
Il paradosso della natura umana, che coincide con il paradosso della speculazione filosofica, emerge così in tutta la sua forza. Il desiderio di conoscere filosoficamente la natura “prima” nasce soltanto in una condizione di natura “seconda”, ossia quando i progressi storici (tra cui deve essere annoverata la stessa filosofia) l’hanno ineluttabilmente modificata. Questa idea chiarisce il significato della celebre affermazione di Rousseau secondo cui «a forza di studiare l’uomo, ci siamo messi nell’impossibilità di conoscerlo» (Discorso sulla disuguaglianza). Il processo di dénaturation è pertanto animato da una dialettica beffarda: esso non scaturisce semplicemente da una contrapposizione tra la natura umana e qualcosa di esterno ad essa (la storia), ma affonda le proprie radici in una lacerazione interna al primo termine. In altre parole, non si tratta di opporre banalmente l’être della natura al paraître della storia, ma di comprendere un divenire della natura umana che si contrappone all’essenza di questa stessa natura.
In che modo Rousseau si inserisce nel contesto filosofico e culturale dell’età dei Lumi?
Si tratta di una domanda particolarmente complessa, poiché mette in causa l’appartenenza o meno di Rousseau all’Illuminismo. Interrogarsi su Rousseau in quanto philosophe, nonché sul suo tormentato rapporto con gli altri philosophes, lungi dall’essere un’operazione oziosa o un modo di sminuirne l’originalità, consente di far emergere l’effettiva portata filosofica del suo pensiero, evitando al contempo di rimanere impigliati nel dibattito, ormai sterile, sul presunto “anti-illuminismo” di Rousseau. Questa idea è stata giustificata di volta in volta sulla base del carattere “conservatore” della sua opera, della sua spiccata componente religiosa, del sentimentalismo di cui è intrisa, ecc. Nel corso del Novecento, e ancora agli albori del ventunesimo secolo, Rousseau è stato ripetutamente indicato come il “fondatore” del contro-Illuminismo, da studiosi quali William Everdell, Arthur Melzer o Graeme Garrard, autore di una monografia significativamente intitolata Rousseau’s Counter-Enlightenment (2003). Oltre a essere in gran parte arbitraria, questa rigida volontà tassonomica rischia di far perdere all’oggetto di studio quella magmatica complessità che ne rappresenta la forza. Forse per questo, sino ad anni recenti, la storiografia consacrata all’Illuminismo in generale e quella di matrice rousseauiana hanno percorso, per così dire, binari paralleli.
Per andare al di là della superficialità (per quanto à la mode) della distinzione binaria tra Illuminismo e anti-Illuminismo, ho scelto di servirmi – nel mio lavoro – della categoria interpretativa di «autocritica dei Lumi», coniata da Mark Hulliung (The Autocritique of Enlightenment. Rousseau and the Philosophers, 1994, 20172). In tale prospettiva, l’eccezionalità di Rousseau consiste nell’essere e non essere al tempo stesso un philosophe delle Lumières: proprio grazie al suo rapporto di inclusione ed esclusione, alla sua posizione centrale e marginale nella filosofia del suo secolo, egli ne diviene un interprete particolarmente acuto e un critico particolarmente lucido.
Quali sono le opere principali del filosofo svizzero?
Generalmente, quando pensiamo alla filosofia di Rousseau, viene naturale indicare come il suo scritto principale Il contratto sociale (1762), in cui egli delinea il modello di una nuova società in grado di garantire, grazie alla legge, l’uguaglianza e la giustizia, che sono andate smarrite nel corso dell’evoluzione storica. Quest’ultimo tema era già stato affrontato in un altro degli scritti fondamentali di Rousseau: il Discorso sulla disuguaglianza del 1755.
Tuttavia – e si tratta di una delle tesi principali che innervano il mio libro – la riduzione della filosofia di Rousseau alla sua riflessione politica in senso stretto è un’operazione in larga parte miope e ingiustificata, che conduce a demandare indebitamente l’analisi di gran parte della produzione filosofica di Rousseau ad altre discipline, quali la letteratura, la storia, la pedagogia, ecc.
Tra le opere filosofiche fondamentali di Rousseau vanno invece annoverati scritti che rispecchiano un peculiare modo settecentesco di fare filosofia, servendosi di generi letterari che un lettore contemporaneo fatica a riconoscere immediatamente come “filosofici”. Esemplificativo in tal senso è il romanzo sentimentale La Nuova Eloisa (1761) che, al di là del suo valore letterario, si configura come un vero e proprio “trattato” sulla dimensione emotiva e sullo scontro tra inclinazioni e doveri. Lo stesso discorso vale per l’Emilio (1762), in cui Rousseau coniuga la riflessione sull’educazione con il tentativo, squisitamente filosofico, di delineare un nuovo modello antropologico di individuo, capace di rimanere nella storia fedele alla natura. Un’ultima menzione merita la più tarda produzione autobiografica di Rousseau, a sua volta gravida di implicazioni teoriche. L’autobiografismo rousseauiano – che trova la sua più celebre espressione nelle postume Confessioni – presenta infatti un carattere intrinsecamente filosofico: la conoscenza della natura umana, raggiungibile attraverso il ripiegamento in sé, coincide, socraticamente, con il fine stesso della filosofia.
Qual era la sua concezione morale e religiosa?
Rousseau colloca la morale e la religione al vertice delle conquiste umane. In questi ambiti – come in molti altri – egli prende le mosse da problematiche tipiche dell’età dei Lumi, sviluppandole tuttavia verso orizzonti inediti. Per quel che concerne la riflessione morale, gli scritti di Rousseau s’inseriscono nella riflessione eudemonistica cara a tutti i philosophes, individuando tuttavia nella stessa debolezza della natura umana l’istanza conciliatrice di questa quête du bonheur. Poiché è la natura che lega lo sviluppo dell’individuo alla sua attività sensoriale e alla distinzione tra piacevole e spiacevole, la ricerca della felicità individuale si articola inevitabilmente a quella della felicità collettiva. Questa dialettica consente non solo la piena espressione dei sentimenti compassionevoli (la pietà, secondo Rousseau, è un tratto essenziale dell’umanità), ma anche la convergenza degli interessi particolari, armonizzando le opposte esigenze del ripiegamento in sé e dell’apertura al mondo che caratterizzano ogni individuo. Da qui la nascita di quell’idea di un bonheur politico e sociale – superiore a quello individuale – che sarà sancita, pochi anni dopo la morte di Rousseau, nell’articolo inaugurale della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1793. La morale si situa pertanto inevitabilmente, agli occhi del filosofo ginevrino, nello snodo più nobile e pericoloso dello sviluppo “genealogico” dell’essere umano: è solo quando l’individuo abbandona l’immediata presenza a sé per aprirsi all’alterità, alla relazione sociale, che la morale assume significato. Per questo motivo l’etica di Rousseau si esprime e si risolve, in un rapporto di perfetta co-essenzialità, nella politica.
Il secondo ambito a cui la morale risulta legata a doppio filo è quello della religione. Su questo aspetto Rousseau è uno strenuo difensore dell’esistenza di un Dio provvidente e dell’immortalità dell’anima, contro le predominanti idee anticlericali e ateistiche tipiche della filosofia sensista e materialista. Questa sincera fede personale non deve tuttavia essere confusa con la difesa di posizioni retrograde, né tanto meno ortodosse (Il Contratto sociale e L’Emilio saranno pubblicamente bruciati in quanto ritenuti eretici). Rousseau sviluppa infatti una peculiare forma di deismo sentimentale, incentrato sulla coscienza, che testimonia non solo dell’aperto scontro con i materialisti (destinato a consumarsi nella Professione di fede del Vicario savoiardo), ma fa altresì emergere una continua contaminazione tra esigenze spirituali e istanze mondane e politiche. La peculiare religiosità di Rousseau si caratterizza infatti per una dualità di fondo. Egli considera il fenomeno religioso in due prospettive differenti ma complementari: quella morale e quella politica. Questo metodo d’indagine lo spinge a separare, nella sua analisi, la religione naturale dalla religione civile. Entrambi questi aspetti ricoprono una funzione determinante all’interno del “sistema” di Rousseau, come conferma sia l’inedita soluzione che egli offre al problema della teodicea, sottratto all’ambito metafisico per essere posto nel cuore della riflessione antropologica, sia la riflessione sul possibile uso politico della religione stessa.
Qual è l’eredità di Jean-Jacques Rousseau?
L’“eredità” che Rousseau ha lasciato alla cultura occidentale è tanto ingombrante quanto preziosa. Non solo le opere di Rousseau hanno sempre goduto – e godono tuttora – di un notevole successo, sia accademico sia popolare, in ogni parte del mondo, ma esse rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per numerose discipline: la filosofia politica, l’autobiografismo, la letteratura, la pedagogia, l’antropologia, la storia della sensibilità e dell’emozione, ecc. In tutti questi ambiti del sapere, e in molti altri, Rousseau segna un passaggio epocale tra un “prima” e un “dopo”.
Non deve allora destare eccessivo stupore il fatto che la maggior parte degli avvenimenti cruciali e dei movimenti di pensiero che seguirono la morte di Rousseau abbiano cercato legittimazione o si siano richiamati al suo pensiero, talvolta polemicamente. Si possono ricordare – a titolo meramente esemplificativo – la Rivoluzione francese, il Romanticismo, il socialcomunismo, l’ascesa dei totalitarismi novecenteschi, sino a giungere ad ambiti di pensiero della più stretta attualità, quali l’ambientalismo o gli studi di genere.
La filosofia di Rousseau ha dunque indubbiamente saputo travalicare il suo tempo, di cui pure è figlia, per approdare, in ogni secolo e a ogni latitudine, a una dimensione nuova. Senza mai perdere i suoi significati originari, ma anzi aggiungendone senza sosta di nuovi e imprevisti.
Marco Menin è professore associato di Storia della filosofia all’Università degli Studi di Torino. Su Rousseau ha pubblicato Il libro mai scritto. La morale sensitiva di Rousseau (Il Mulino, 2013; ed. francese L’Harmattan, 2019) e Sognare la politica. Soggetto e comunità nelle «Fantasticherie» di Rousseau (con Lorenzo Rustighi; Il Mulino, 2017).