“Rossana Rossanda e il PCI. Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica (1956-1966)” di Alessandro Barile

Dott. Alessandro Barile, Lei è autore del libro Rossana Rossanda e il PCI. Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica (1956-1966), edito da Carocci: che importanza riveste, per la storia della politica culturale comunista del Dopoguerra, la figura di Rossana Rossanda?
Rossana Rossanda e il PCI. Dalla battaglia culturale alla sconfitta politica (1956-1966), Alessandro BarileNon è facile rispondere a una domanda simile, perché bisogna intendersi sul valore che vogliamo dare alla parola «importanza». Se intendiamo importanza “operativa” – ovvero la capacità di Rossanda di influire sulla direzione culturale del partito – direi che Rossanda è una figura decisamente minore, non per suoi limiti, ma perché la cornice politico-culturale era stabilita altrove, dal gruppo dirigente propriamente inteso, in Direzione e nel suo rapporto col Comitato centrale. Oltretutto, dopo il 1956 il ruolo della Sezione culturale si riduce, ed è comunque sempre circoscritto al rapporto tra partito e intellettuali. Il lavoro della Sezione non interviene sul profilo ideologico del partito, non decide il posizionamento teorico o politico-culturale. Dunque Rossanda, che pure tenta in tutti i modi di incidere su questi piani attraverso una “diversa” (necessariamente tra virgolette, poi ci torneremo) idea di politica culturale, è destinata alla sconfitta. Viceversa, se per «importanza» intendiamo la capacità di Rossanda di prefigurare nuove domande e problemi al partito in una fase storica di eccezionali mutamenti (il boom economico, il neocapitalismo, la cultura di massa, il consumismo, l’urbanizzazione eccetera), allora Rossanda è una personalità di prima grandezza. Una grandezza forse più culturale che politica, ma in ogni caso una delle poche voci interne al partito che, da un punto di vista assolutamente “schierato” e “ortodosso” (direi sinteticamente: togliattiano), è capace e ha il coraggio di porre questioni non più rinviabili, ma che pure continuavano ad essere rinviate, sopportate male, allontanate da una linea che, tutto sommato, sembrava funzionare bene. E infatti la linea politica e politico-culturale funzionava, era sostenuta da continui progressi elettorali e da uno spostamento tendenziale del quadro politico verso sinistra, da una crescita relativa dei salari. Insomma, perché scornarsi coi problemi che stava ponendo la crescita economica, se questa stessa crescita rafforzava il Pci invece di ridurne la sua capacità d’influenza? E invece Rossanda – e con lei ovviamente altri compagni nel partito, a cominciare da Ingrao, ma bisogna citare almeno anche Luciano Barca, Alfredo Reichlin, Lucio Magri e altri ancora che sarebbe lungo elencare – Rossanda dicevo, dal suo avamposto milanese, si rendeva conto di un progressivo scollamento tra un pezzo di società e il partito. Un pezzo di società formato da nuove forme di proletariato urbano e industriale, nonché dalla incipiente figura dello studente della nuova università di massa, che avevano col partito e con la politica un atteggiamento diverso. Non più solo “disorganico” rispetto al partito inteso come organizzazione politica, ma alieno ai suoi riferimenti culturali. E infatti Rossanda tenta di organizzare una battaglia, combattuta piuttosto in solitaria, proprio sul piano dei riferimenti culturali del Pci. A partire da una critica dello storicismo che la rende, come dire, quantomeno “antipatica” al resto del gruppo dirigente, molto omogeneo da questo punto di vista. Insomma, che importanza riveste Rossanda? Direi rilevante a Milano, nella direzione della Casa della cultura; scarsa a livello politico, una volta trasferita a Roma; di una “grandezza inespressa” se pensiamo alla mole di problemi agitati e seminati, che saranno però raccolti da un’altra generazione, e da un’altra sinistra, a partire dal Sessantotto.

Come si articolava l’attività della Sezione culturale del PCI negli anni Sessanta?
La Sezione – o Commissione – culturale, nasce col VI Congresso del Pci nel 1948, come riflesso dell’avvio della Guerra fredda e la conseguente stretta politico-organizzativa di un movimento comunista che rispondeva all’irrigidimento dei rapporti politici rilanciando il proprio coordinamento con la formazione del Cominform nel settembre 1947. Non si capisce la vicenda politico-culturale del Pci se non in relazione agli eventi complessivi che agitano le acque del confronto-scontro tra i due blocchi nel periodo più drammatico della Guerra fredda (1947-1954). Eppure, mentre una parte del partito è pienamente ingaggiata nella logica dello scontro (identificando e sovrapponendo la direzione politico-culturale alla lotta ideologica), Togliatti sin da subito la soffre, cerca di smarcarsene perché coglie il rischio di isolamento insito in questa logica, per un partito costretto a sopravvivere in uno scenario politico avverso a quello sovietico. La storia della Sezione culturale a partire dal 1948 è una storia di progressivo allontanamento da un modello che, in estrema sintesi, potremmo definire “ždanoviano”, in favore di un confronto più aperto col mondo intellettuale italiano. Rossanda è il culmine di questa parabola. Non perché dopo di lei non si proseguirà in un insieme di rapporti (quelli tra politica e cultura) destinati progressivamente a divaricarsi, ma perché Rossanda si propone di sciogliere il nodo cultura-ideologia all’interno di una visione pienamente togliattiana, ovvero di complessiva unità dei rapporti tra politica e cultura. Rossanda non è portatrice di una visione “liberale” delle cose, sulla falsariga delle celebri posizioni di Bobbio. Rossanda è, lo ripeto, assolutamente ortodossa. Quello che prova a fare è di portare alle estreme conseguenze il tentativo, già togliattiano, di separare le ragioni della cultura da quelle di un’ideologia che la controlla e che ne vorrebbe validare i risultati, addirittura preventivamente. In tal senso Rossanda cerca di organizzare la Sezione culturale negli anni Sessanta. Cerca cioè di ricostruire su altre basi un’unità del corpo intellettuale organico o “amico” del partito, che Rossanda vedeva in dispersione, liberata dal controllo ideologico. Sul piano dell’articolazione specifica, vi era un gruppo di lavoro (tra i vari possiamo citare Giuseppe Chiarante, Romano Ledda, ma vorrei in particolare ricordare Filippo Maone, purtroppo recentemente scomparso, un compagno di rara umanità) che lavorava in simbiosi con le iniziative dell’Istituto Gramsci, organizzando convegni e seminari. Altrettanto importante era l’attività editoriale: gran parte della politica culturale del partito trovava il suo naturale luogo di pubblicità e confronto sulle riviste, e in particolare «Rinascita», «il Contemporaneo», «Società» e poi «Critica marxista». Solo che «Rinascita» era gestita direttamente da Togliatti, e poi, dopo la sua scomparsa, dalla Direzione. «il Contemporaneo» chiuderà nel 1964, per riproporsi come inserto mensile di «Rinascita», perdendo così la sua natura di luogo aperto ad un confronto meno paludato. «Società» anche chiuderà, nel 1961, sostituita due anni dopo proprio da «Critica marxista». Insomma a Rossanda vengono meno alcuni strumenti fondamentali per istituire un rapporto nuovo tra partito e intellettuali. La Sezione avrà un carattere sempre molto accentrato: non solo “romano” – cioè poco ramificato sul resto del territorio, il che forse era anche inevitabile – ma soprattutto verticale, sviluppando poco il confronto nelle base. Paradossalmente, questo confronto sui temi “caldi” si avrà, nelle sezioni, con la vicenda del manifesto, ma è un’altra storia.

Quali orientamenti assunse la direzione di Rossana Rossanda alla Sezione culturale del PCI?
In parte la risposta è contenuta in quanto già ho detto in precedenza. Rossanda porta avanti una battaglia a 360°, intendendo con “politica culturale” tutto l’insieme di questioni che investivano i rapporti tra questi due estremi. Cioè potenzialmente – data l’estensione che si può dare al concetto di politica culturale – tutto ciò che aveva natura di questione politica per il partito (al di là della tattica contingente in sede di lotta parlamentare, o delle questioni organizzative). Dispone una battaglia polemica contro lo storicismo, che componeva l’orizzonte culturale di gran parte del gruppo dirigente del partito formatosi negli anni Trenta-Quaranta. Tenta di dare profondità agli studi storici e politico-economici, con ciò sottraendoli all’accusa di economicismo (o determinismo). Vuole dare rilevanza alle scienze sociali, in primo luogo alla sociologia, pur nel generale “sospetto” che il mondo comunista (Rossanda compresa) aveva verso le scienze empiriche. Tenta di organizzare una riflessione sulla “morale marxista”, con ciò individuando i mutamenti in corso nella società rispetto ad un certo canone che caratterizzava l’impostazione comunista su alcuni temi (la famiglia, ad esempio, il rapporto uomo-donna, la questione dei diritti civili). Ma soprattutto, potremmo dire, volge uno sguardo “pericolosamente” radicale alle lotte anticoloniali. Il Pci, a differenza del Partito comunista francese, non aveva problemi a sostenere il processo di decolonizzazione e le rivoluzioni anticoloniali sia nel “terzo mondo” (Cuba, Indocina eccetera), sia in Europa (questione franco-algerina in primis). Ma erano anche gli anni del duro scontro tra Unione sovietica e Cina proprio riguardo al valore generale che tali lotte potevano assumere. Insomma, l’accelerazione sul tema entrava direttamente in contrapposizione con la “teoria” della “coesistenza pacifica”, che poi era al cuore delle incomprensioni tra Urss e Cina, e quindi tra partiti nazionali (come il Pci) e un certo estremismo politico che ne contestava il valore generale. Rossanda, pur condannando le posizioni cinesi, poneva esplicitamente la domanda se questa “coesistenza pacifica” non significasse una rinuncia alla rivoluzione, un depotenziamento delle ragioni dell’incompatibilità di sistema tra capitalismo e socialismo tanto a livello globale, quanto nello scontro politico italiano. Una posizione che la rendeva aliena alle simpatie di tutto il gruppo dirigente: con quello più allineato con Mosca (Donini, Cossutta, o ancora Secchia, che però in questi anni non è più un dirigente di primo piano); con quello più impegnato nella ricerca di un avvicinamento all’area di governo (Amendola, Bufalini, Alicata eccetera); infine, anche con Pietro Ingrao, in questo pienamente schierato su posizioni anti-cinesi, contrario a una radicalizzazione del rapporto est-ovest. Questi i temi principali, senza contare ovviamente la riflessione sugli aspetti specifici della cultura italiana (la letteratura, il cinema, le arti figurative eccetera), che però non condurranno a veri cambiamenti, semmai a un continuo lamento del corpo intellettuale, “sedotto e abbandonato” potremmo dire, nel senso che dopo essersi lamentato, negli anni Cinquanta, dell’eccessivo controllo, ora sembra lamentarsi dello smagliarsi dei rapporti di organicità.

Cosa significò, per la Sezione culturale, il “dopo Rossanda”?
Vorrei, su questo, essere drastico, ben sapendo dei rischi di tale semplificata reductio: dopo Rossanda la Sezione culturale comunista non ha più senso d’esistere. Anche qui: non per meriti o demeriti di chi la condusse, ma per il generale rivolgimento dei rapporti tra politica e cultura, a cui andrà incontro non solo il Pci, ma tutto il movimento comunista, sulla scorta dei colpi assestati tanto dall’ammodernamento di tali rapporti (una società sempre più individualizzata, scolarizzata, consumista eccetera), quanto dai colpi inferti dalla nuova sinistra, un crogiolo di posizioni tutte rivolte alla critica spietata verso la “guerra di posizione” togliattiana (di cui la politica culturale rappresentava un momento fondamentale). Rossanda fu l’ultima, in seno al Pci, a credere davvero all’unità del momento politico e culturale, provando ad aggiornarla in risposta agli stimoli dell’Italia del boom economico. Dopo, questo modello non potrà più darsi, perché la società italiana, direi più in generale la società in Occidente, non ha più bisogno della necessaria mediazione di determinati agenti collettivi organizzati per accedere alla cultura. La cultura (intendendo con ciò anche lo svago), nell’Italia fino agli anni Cinquanta è un fatto eminentemente collettivo, si consuma pubblicamente, vi si accede attraverso canali di mediazione: la Chiesa, il lavoro, il partito o il sindacato, l’intellettuale-chierico. A partire dagli anni Sessanta questo insieme di rapporti viene stravolto, peraltro molto velocemente, e a rimanerne coinvolto non è solo il mondo comunista. Anche la Chiesa reagisce male, si chiude, tenta di organizzare una resistenza. Da questo punto di vista la Dc, storicamente meno interessata a disporre forti presidi culturali (d’altronde c’era già la Chiesa a organizzarli per lei), riesce a inserirsi meglio in questo cambiamento, non si può dire che riesca a governarlo, ma sicuramente riesce a sfruttarlo senza moralismi (semmai, in alcuni casi, con una cinica a-moralità). Insomma, altro che unità dei rapporti! La “società affluente” degli anni Sessanta ingenera una liberazione completa e, per certi versi, drammatica di una relazione che, marxisticamente, non può che essere considerata in termini unitari. E poi c’è la nuova sinistra, che lavora per risolverli nel senso opposto: non liberazione, ma compiuta direzione della politica sulla cultura. Si capiscono i motivi alla base di questo riflesso, che non è fondato su una riproposizione più o meno inconsapevole di ždanovismo, ma su di un’urgenza rivoluzionaria. È – come detto – la strategia politica fondamentale del Pci ad essere criticata, ovvero quella che si definisce attraverso il concetto di “guerra di posizione”. Nella guerra di posizione la prospettiva decisiva non è quella di “attaccare”, ma di “durare”, di allargare lo spettro della propria influenza, di organizzare una politica delle alleanze sempre più raffinata, ramificata, profonda. Il rapporto con gli intellettuali rientra in questo quadro. Ma che valore può avere un simile modello per una sinistra rivoluzionaria convinta della necessità di portare l’attacco sul piano frontale dello scontro, e in cui l’intellettuale si fa direttamente politico? Non c’è, non può esserci, separazione dei ruoli (lo specialista e il politico, riuniti insieme dal “moderno principe”, cioè dal partito), ma l’intellettuale si fa direttamente militante politico, sospende la sua specifica natura di scienziato, o di letterato, o di filosofo, e si fa dirigente di un processo che sopravanza le “banali” ragioni della cultura. Per concludere: Rossanda è arrivata troppo tardi e, al tempo stesso, troppo presto. Troppo tardi perché pienamente dentro un’Italia diversa, in cui il suo tentativo non poteva condurre a un successo; troppo presto perché troppo distante cronologicamente dal Sessantotto e dagli anni Settanta, che infatti avranno verso Rossanda un sentimento di rispetto, ma di sostanziale disinteresse. Col Sessantotto inizia un’altra storia, di cui Rossanda non riesce a fare politicamente parte.

Alessandro Barile ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea alla Sapienza, con una ricerca sulla Sezione culturale comunista negli anni Sessanta. È ricercatore all’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, dove coordina l’area di ricerca “Territorio e società”; collabora con la cattedra di Sociologia al dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale, alla Sapienza. Si occupa, principalmente, di questioni relative alla storia del movimento comunista, soprattutto del Novecento. Ha scritto sulla Guerra di Spagna (Il fronte rosso. Storia popolare della Guerra civile spagnola, RedStarPress 2014), ma soprattutto sul Pci (Pietro Secchia. Rivoluzionario eretico, Bordeaux 2017). Si occupa anche di scienza urbana (Il tramonto della città, Derive Approdi 2019) e di sociologia politica (Il secondo tempo del populismo, Momo 2020). Collabora alla redazione di alcune riviste scientifiche, tra cui «Zapruder», «Materialismo storico», «Historia Magistra» e la «Rivista di Studi Politici». Scrive per «il manifesto», nonché per una miriade di riviste online. Rossana Rossanda e il Pci (Carocci 2023) è il coronamento di un lungo percorso di ricerca, ma anche la base di partenza per nuovi lavori di prossima pubblicazione.

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