
Oggi continuiamo ad avere sotto gli occhi le conseguenze tragiche di un nazionalismo estremista ed esclusivo, quello antilluministico e anticosmopolitico del Romanticismo. Il nazionalismo romantico vagheggiava l’esistenza di una nazione geneticamente intesa come comunanza di sangue, da sempre esistita e sacralmente insediata nella sua terra, una grande famiglia diversa dalle altre e con esse inconciliabile; dunque, potenzialmente loro nemica. Nel mio libro ho cercato di spiegare come Manzoni, un romantico molto a modo suo, abbia sì parzialmente condiviso in alcune sue opere (specie Marzo 1821, Adelchi e il Discorso storico sui Longobardi) questo nazionalismo aggressivo e bellicoso; ma lo abbia poi del tutto messo da parte nei Promessi sposi. Qui gli Spagnoli non sono una razza diversa e odiata in quanto tale, ma un ceto di governo di inefficienti cialtroni, al pari dei loro colleghi e collaboratori italiani. La lezione per la nostra attualità- implicita ma chiarissima- è che non ci si deve schierare, contrapporre, odiare in base a identità nazionali, ma prendere razionalmente delle posizioni politiche che implicano giudizio, ma anche confronto e dialogo, sulle cose, le persone, i gruppi, le nazioni stesse.
La giustizia è forse il principale dei temi del romanzo. Ovviamente c’è la giustizia di Dio, l’unica davvero perfetta. Ma l’idea di Provvidenza nutrita da Manzoni comprende il dovere che ogni uomo ha, in questa terra, di vivere comunque secondo giustizia. La Storia della colonna infame, che abbiamo la discutibile abitudine di leggere separatamente dal romanzo, ma che per l’Autore ne è il completamento necessario, visto che ha pubblicato insieme i due testi, denuncia con grande e coraggioso radicalismo l’abuso della giustizia nel funzionamento dell’apparato giudiziario. Quella della responsabilità dei giudici è una questione che non smette mai di essere di attualità, e la riflessione dolorosa di Manzoni al riguardo è fondamentale. Ma l’analisi della responsabilità individuale è un filo conduttore anche dei Promessi sposi, perché ogni evento e ogni azione di tutti i personaggi, grandi e piccoli, non vi sono semplicemente narrati ma valutati con una concentrazione implacabile sul loro contenuto di giustizia o ingiustizia. È un’attitudine impegnativa, e talora anche un po’ spigolosa; ma credo che porti con sé una lezione sempre valida.
Quanto alla rappresentazione della donna, i Promessi sposi sono a ben vedere di una modernità ammirevole. Attenzione: non ci si può aspettare da un autore del primo Ottocento la condivisione di un’idea della libertà sessuale che si è affermata solo negli ultimi decenni della nostra storia. Ma dal romanzo esce una richiesta vibrante di rispetto dei diritti e della autonomia di scelta delle donne. La contadina analfabeta Lucia è rappresentata sì timida e riservata, ma fermissima nella determinazione di difendere la propria scelta. La figura che le fa da tragico contrappunto, Gertrude, è disegnata con straordinaria penetrazione psicologica proprio perché Manzoni ha preso di petto, e tutto dalla parte della vittima, il dramma di una adolescente soggiogata dalla prepotenza familiare e paterna. I due capitoli su Gertrude mi paiono un capolavoro nel capolavoro, e vorrei sottolinearne il succo: la denuncia scandalizzata e partecipe della violenza che il paternalismo maschile esercita su di una ragazzina adolescente.
Cosa ci dicono sulla nostra storia i Promessi sposi?
Hanno fissato nella coscienza degli Italiani di buona cultura, ma non specialisti in storia moderna, un’immagine totalmente negativa del Seicento, come epoca di massima decadenza nella storia nazionale. Non si toglie nulla al valore del romanzo nel dire a chiare lettere che questa immagine è un po’ forzata. Gli studi che gli storici vanno facendo da tempo su quel secolo hanno smontato molti stereotipi e ricostruito un quadro più equilibrato nelle luci e nelle ombre. Ma il fatto è che Manzoni scrive nel pieno della delusione per la Restaurazione che ha nuovamente schiacciato l’aspirazione alla nascita di un’Italia unita e indipendente; non può essere sereno e imparziale. Nel mio libro ho messo in evidenza, forse più di quanto si faccia di solito, il rapporto di Manzoni con Simonde de Sismondi, uno storico ed economista ginevrino di cultura liberale e calvinista che aveva scritto una fortunata e diffusissima storia d’Italia. Le Osservazioni sulla morale cattolica (1819), di pochissimi anni precedenti il Fermo e Lucia, cioè la prima stesura dei Promessi sposi, sono la replica manzoniana alle durissime accuse rivolte da Sismondi al Cattolicesimo come causa principale della corruzione della morale privata e della vita pubblica in Italia. Il cattolico e patriota Manzoni non può accettare quella condanna senza appello. Ma poi nel romanzo finisce col fare propria la visione sismondiana del Seicento- che è pur sempre l’età della Controriforma- come secolo di crisi (“un secolo bestiale”, arriva a definirlo una volta). Nel Risorgimento occorre appunto risollevarsi da quella situazione disastrosa, prima fase della decadenza della nazione e della soggezione agli stranieri; e per farlo occorre creare una consapevolezza culturale e storica del periodo più buio del nostro passato. Oltre che da patriota, Manzoni guardava al Seicento con gli occhi dei grandi illuministi, da cui discendeva anche per eredità familiare (Cesare Beccaria era suo nonno materno), e ha fatto propria la visione polemica e aggressiva di quegli intellettuali verso l’età barocca. Insomma, nei confronti della storia d’Italia i Promessi sposi sono, più che un’analisi spassionata, un impegnatissimo intervento militante.
Qual è il messaggio ideologico al cuore di questo romanzo?
Ovviamente quello cristiano nella sua versione cattolica; ma, attenzione, con due aspetti di importanza decisiva. Dopo la sua cosiddetta conversione, o piuttosto ritorno alla fede, Manzoni rimane a pieno titolo un erede dei Lumi, ciò che del resto è inevitabile per un liberale del primo Ottocento. Perfino nelle Osservazioni sulla morale cattolica scrive chiaramente che gli errori degli illuministi e la loro avversione alla religione non devono far perdere di vista le grandi verità che essi hanno affermato lottando contro l’ignoranza, la superstizione, l’intolleranza. Nel mio libro ho insistito sul fatto che nei Promessi sposi si sente spessissimo l’influenza dell’ironia critica di Voltaire. Credo che una delle grandi lezioni del romanzo sia la combinazione riuscita fra razionalismo illuministico e spirito cristiano; e voglio ricordare che già nelle Osservazioni, prendendo in esame le aberrazioni pericolose del nazionalismo romantico, Manzoni ha coniato una bellissima espressione proponendosi un atteggiamento “cosmopolita, cioè cristiano”.
Il secondo aspetto è quello della responsabilità individuale e della libertà di coscienza. Ancora una volta, già nelle Osservazioni Manzoni replica alle accuse dei protestanti spiegando che l’esistenza dei direttori di coscienza e del sacramento della confessione non esimono affatto i cattolici dall’assumersi la responsabilità di decidere sul proprio comportamento. Ogni vero cristiano crede alla Provvidenza; e nel dialogo implicito ma sostanziale voluto dall’Autore fra Promessi sposi e Storia della colonna infame viene resa esplicita- di fronte all’antico tormento circa il male nel mondo e la sofferenza del giusto- la convinzione che il premio o la punizione divini saranno comprensibili solo alla fine dei tempi. Ma è altrettanto esplicito che intanto ogni essere umano ha la responsabilità individuale, di fronte alla sua libera coscienza, di comportarsi in modo giusto. Lo ripeto perché mi pare importante: non so se esista un altro romanzo in cui l’analisi e la valutazione sulla giustizia o ingiustizia delle azioni degli uomini, specie se potenti e influenti, siano tanto continue e implacabili come nei Promessi sposi.
Latinorum è una creazione manzoniana entrata poi nell’uso comune: quale visione vi esprimeva, nei riguardi della cultura classica, Manzoni?
Ricordiamo quando Manzoni inventa la parola: don Abbondio si sta rendendo complice della violenza di don Rodrigo recitando parole latine per abbindolare Renzo, e il ragazzo si ribella: “Si piglia gioco di me? Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”. Trovo l’invenzione un colpo di genio assoluto. Naturalmente Manzoni sapeva benissimo che il latino era stato fino a pochi decenni prima, oltre che la lingua della Chiesa cattolica, una lingua non solo di alta cultura ma anche di necessaria comunicazione fra i dotti di vari paesi d’Europa. Sapeva però che era anche stata una lingua di potere e di dominio, e di dura discriminazione sociale. In quell’episodio denuncia perciò, con una creazione letteraria felicissima al posto di tanti discorsi, l’uso del latino come arma di sopraffazione sui ceti più umili.
Questo ci introduce al tema del suo rapporto con la cultura classica. Per non dilungarmi, dimostro la profondità della sua preparazione in materia ricordando che nel 1868, a 83 anni, ha scritto la sua ultima poesia proprio in distici elegiaci latini: s’intitola Volucres, uccelli. Senza essere un classicista e filologo della statura di Leopardi, Manzoni era però pienamente in grado di inserirsi nella gloriosa tradizione classicistica della letteratura e della cultura italiana. Tuttavia ha deliberatamente rifiutato questo retaggio; anzi, è fra i nostri scrittori quello che ha propriamente spezzato una linea di continuità. Nel mio libro ho cercato di spiegare che ciò non dipese solo dalla presa di posizione letteraria a favore del Romanticismo, del resto da parte sua attuata in modo molto particolare, ma anche e soprattutto da un’opposizione ideologica. Il culto dell’Antichità classica comportava, a parte la questione del paganesimo, una tendenza all’esaltazione della grandezza umana, e più precisamente dei grandi uomini nel senso per esempio delle Vite di Plutarco, incompatibile con la centralità assunta nel pensiero di Manzoni dal popolo nazionale inteso in tutte le sue componenti a ogni livello sociale. Parafrasando l’espressione sopra citata, potremmo aggiungere qui che si proponeva un atteggiamento “egualitario, cioè cristiano”.
In che modo il romanzo testimonia il giudizio manzoniano sulle vicende storiche a lui coeve?
In modo indiretto. Come ho detto prima, il nazionalismo più esplicito, e soprattutto più aggressivo, che si può rilevare in altre grandi opere di Manzoni viene addomesticato nei Promessi sposi da un razionalismo cosmopolitico che allontana dalla sottolineatura dello scontro fra etnie per puntare invece sulla rappresentazione politica del malgoverno e dell’ingiustizia sociale. Ovviamente il dominio degli Spagnoli nel Seicento può far pensare a quello degli Austriaci nell’Ottocento; ed è sicuro che lo scrittore non poteva sfidare la censura. Ma questo vale anche per Adelchi e per il Discorso sui Longobardi pubblicato insieme con la tragedia; e lì l’allusione alle vicende storiche coeve è enormemente più sensibile e rilevante. La politicità dei Promessi sposi sta piuttosto nella volontà, che ho descritto sopra, di fare i conti con la decadenza e l’incompiutezza della situazione italiana, colta nel suo momento iniziale e peggiore, e ciò proprio per porre le basi culturali di un riscatto.
Voglio concludere osservando che una politicissima attenzione alle vicende coeve è riscontrabile nella riscrittura del romanzo fra 1827 e 1840. Manzoni non ha solo fiorentinizzato la lingua dei Promessi sposi: l’ha resa meno letteraria, più semplice, più popolare. Infine: più adeguata a un progetto rivoluzionario per cui dopo secoli di poesia cortigiana e di satira antivillanesca due ragazzi del popolo per la prima volta campeggiano come protagonisti amati e rispettati in un capolavoro della nostra letteratura.
Roberto Bizzocchi, professore di Storia moderna nell’Università di Pisa, si è occupato di vari temi di storia politica, sociale e culturale. Fra i suoi libri, alcuni tradotti all’estero, Chiesa e potere nella Toscana del Quattrocento (il Mulino 1987), Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna (il Mulino 1995), Guida allo studio della storia moderna (Laterza 2002), Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (Laterza 2008), I cognomi degli Italiani. Una storia lunga mille anni (Laterza 2014).