“Roma: la sovranità e il modello. Le istituzioni politiche romane nel IV libro del Contrat social di Jean-Jacques Rousseau” di Andrea Frizzera

Dott. Andrea Frizzera, Lei è autore del libro Roma: la sovranità e il modello. Le istituzioni politiche romane nel IV libro del Contrat social di Jean-Jacques Rousseau edito da Le Monnier Università: perché nella sua opera Rousseau dedica ben quattro capitoli a descrivere alcune istituzioni di Roma antica?
Roma: la sovranità e il modello. Le istituzioni politiche romane nel IV libro del Contrat social di Jean-Jacques Rousseau, Andrea FrizzeraQueste pagine del Contrat social, estremamente ‘tecniche’ in alcuni loro punti, hanno sovente messo in imbarazzo gli studiosi e i commentatori di Rousseau. È in effetti curioso osservare come, in un’opera di ridotte dimensioni e dallo stile talvolta apodittico, venga dedicato uno spazio così ampio a Roma e alle sue istituzioni. Chi provò ad occuparsene ormai sessant’anni fa, salvo rare eccezioni, vide in queste pagine una digressione male informata e potenzialmente dannosa per comprendere il pensiero di Rousseau oppure un ponte retorico utile a introdurre il capitolo finale sulla religione civile. Solo più recentemente si è diffusa una sensibilità volta a interrogarsi sul rapporto del filosofo ginevrino con le fonti nella redazione di questi passi. Intento del libro è quello di affrontare questi ultimi con gli strumenti dell’antichistica, per tentare di colmare una lacuna che non aveva mai visto la produzione di una monografia interamente dedicata a questo tema. Nel terzo capitolo del libro IV del Contrat social Rousseau si interroga su come la sovranità popolare sia mantenibile in uno Stato di grandi dimensioni, dappoiché, ai suoi occhi, nell’Europa del tempo ciò sarebbe stato realizzabile solo nelle comunità più piccole. È così che egli presenta ai lettori del trattato l’esempio storico di Roma, che, duemila anni prima, con i suoi comizi (curiati, tributi e, soprattutto, centuriati), consentiva a tutti i suoi cittadini di emanare le leggi della Res publica. Il filosofo ginevrino descrive analiticamente il sistema delle assemblee popolari romane, ripercorrendone le vicende storiche e tentando di individuarvi i punti di forza e di debolezza. Allo stesso tempo, egli recupera le magistrature del tribunato, della dittatura e della censura (a ciascuna delle quali dedica un capitolo), per disegnare, con maggiore slancio teorico rispetto al capitolo sui comizi, delle istituzioni volte a tutelare la sovranità popolare espressa nelle assemblee. Il tribunato è posto a difesa delle leggi, la censura a difesa dei costumi, la dittatura, in casi di estrema emergenza, a difesa della salvezza stessa dello Stato, con un limite temporale e priva del potere di emanare nuove leggi. Con questa lente viene letto dal Ginevrino anche il ruolo della religione civile, che chiude con il suo ultimo capitolo il trattato. Va osservato, tuttavia, che, nel descrivere il funzionamento dei comizi, Rousseau riporta una serie di errori e di incongruenze, che a ben vedere sono tutti volti a esaltare il carattere democratico delle assemblee, anche laddove esso non era presente. Si è rivelato dunque fondamentale individuare di volta in volta quando queste informazioni fossero dovute all’effettivo stato degli studi della sua epoca, a una accurata e informata scelta tra le fonti da parte dell’autore oppure a un deliberata invenzione di sana pianta di certe caratteristiche delle istituzioni romane. È singolare osservare come quest’ultimo caso, che forse ci aspetteremmo essere il più frequente per un filosofo che come Rousseau non instaura un rapporto da storico con le vicende di Roma, di fatto non si verifichi.

Come si collocano queste pagine nel resto del trattato e nel pensiero politico del filosofo ginevrino?
Anzitutto, va sottolineata la netta distinzione, operata da Rousseau, tra governo e sovranità. Se il primo è incaricato di occuparsi di atti particolari volti all’amministrazione dello Stato e per ciò sarebbe meglio affidarlo nelle mani di pochi esperti ‘commissari’ del popolo, la seconda, invece, si trova nelle mani dell’intero corpo politico (coincidente con la totalità dei cittadini della comunità), il quale si deve esprimere su decisioni di carattere generale e tendenti a una maggiore astrazione. Il filosofo ginevrino ritrova operante nell’antica Roma questa dinamica: non vi era legge che non passasse per l’approvazione dei comizi, i quali, al tempo stesso, nominavano di anno in anno dei magistrati che si occupassero dell’amministrazione della Res publica, senza che questi pensassero di arrogarsi il potere di agire al posto del popolo, a cui dovevano rispondere (in potestate populi, avrebbe detto Cicerone; Rousseau, com’è noto, rifiuta il concetto di rappresentanza). Il Senato non rientra tra queste considerazioni, perché capisce bene, creerebbe non poca distonia rispetto alla visione sin qui esposta. Tuttavia, la domanda costante che ci poniamo nel leggere le pagine ‘romane’ del Contrat social è la seguente: sappiamo che le assemblee popolari di Roma, al netto di tutti gli accorgimenti che il Ginevrino adotta per mitigarne gli aspetti timocratici, non erano veramente democratiche. Come possono dunque Roma e le sue istituzioni essere un modello per il tempo presente per un grande Stato dove la sovranità sia popolare? Rousseau è conscio di questi limiti, eppure cerca di trovare una dimensione attraverso la quale riproporre l’esempio storico romano. È anche su questo che il libro intende indagare.

Quali fonti nutrono la visione rousseauiana delle istituzioni romane quale esempio di esercizio democratico della sovranità in un grande Stato?
Molte più di quante ci si potrebbe aspettare. Le fonti di Rousseau sono sia antiche che moderne. La sua formazione sulle lingue classiche e la storia antica è essenzialmente da autodidatta, arriva ad avere una buona conoscenza del latino (ma non sufficiente da permettergli di intrattenere discussioni tra intellettuali, come egli stesso lamenta nelle Confessioni), ma non del greco, di cui non riesce mai ad avere padronanza, dovendo appoggiarsi a traduzioni latine e francesi delle principali opere letterarie e storiografiche. Quanto alle pagine del Contrat social oggetto della nostra attenzione, le fonti antiche sono le più canoniche. Le cito le principali: Livio, Dionigi d’Alicarnasso, Polibio, Cicerone e, molto probabilmente, il lessico di Festo. Quanto alle fonti moderne su Roma antica, esse erano di diversa natura e svolgevano quindi diverse funzioni. Le storie dell’Abate di Vertot e di Charles Rollin, all’epoca molto in voga, rappresentavano una ricostruzione evenemenziale della storia romana ed erano una porta d’accesso importante per i testi di Livio e Dionigi, dei quali riprendevano i passi, citandoli a margine della narrazione. Dall’altro lato, fonti di estremo interesse sono costituite dalla produzione giuridica del XVI secolo, in particolar modo Nicholas de Grouchy, Jean Bodin, Carlo Sigonio. Il De antiquo iure civium Romanorum (1560) di quest’ultimo autore fu, fino a tutto il Settecento, uno dei riferimenti privilegiati, insieme alle Origines Juris civilis di Gian Vincenzo Gravina, per la conoscenza approfondita del funzionamento delle istituzioni politiche romane e Rousseau ne riprende quasi verbatim alcuni luoghi. Non solo, ma le polemiche tra questi giuristi circa alcuni aspetti dei comizi e delle magistrature sono per il Ginevrino terreno fertile per individuare, talvolta, le opzioni più confacenti alla sua riproposizione, in chiave democratica, delle assemblee popolari di Roma. Infine, non si devono dimenticare quei pensatori politici di età moderna che direttamente o indirettamente si sono occupati del sistema politico romano. Essi non costituiscono delle vere e proprie fonti di cognizione per Rousseau, ma, al tempo stesso, gli forniscono fondamentali chiavi di lettura e di interpretazione delle istituzioni di Roma antica che egli di volta in volta accoglie o rigetta. Tra essi, particolare importanza rivestono gli scritti di Machiavelli, Bodin e Montesquieu.

In che misura è possibile leggere un legame tra l’attenzione di Rousseau verso le istituzioni romane e la tradizione del repubblicanesimo?
Nel pensiero politico di Rousseau confluiscono tanto la tradizione del contrattualismo hobbesiano, quanto quella del repubblicanesimo, aspetto quest’ultimo, oggetto di particolare attenzione di studio negli ultimi trent’anni. Hobbes rappresenta una cesura con il pensiero politico classico; dopo la sua teorizzazione dello Stato, non sembra esservi più spazio per la città/pólis, con i suoi ordini, le sue partizioni interne e le sue regolazioni di partecipazione alla vita pubblica. Rousseau, invece, pare recuperare, per tramite di Sigonio soprattutto, una concezione aristotelica della cittadinanza, intesa come piena partecipazione alla vita politica, che viene tuttavia declinata non solo con il suo contrattualismo, ma anche tenendo anche conto delle innovazioni della teoria politica moderna, in particolar modo con il concetto bodiniano di sovranità, assoluta e non divisibile, che per il filosofo ginevrino può risiedere solamente nella totalità dei cittadini, nell’intero corpo politico che ha stretto il contratto sociale. Inoltre, come già osservato da altri studiosi, possiamo trovare una certa corrispondenza tra alcune figure del pensiero giuridico romano e la teorizzazione rousseauiana di significativi elementi del ‘diritto politico’: si pensi proprio allo stesso contratto sociale, molto vicino al contratto di societasromano; così anche al rapporto tra il popolo e le leggi, dove il cittadino, attraverso l’esercizio della sua sovranità, diviene fonte stessa del diritto. Da ciò deriva poi quella concezione di libertà del cittadino intesa come obbedienza alle leggi che egli stesso si è dato, tema ormai di una certa fortuna tra Voltaire e Montesquieu, ma che recupera un celebre passo ciceroniano della Pro Cluentio e che troviamo già reimpiegato dall’umanista Poggio Bracciolini. In conclusione, se forse la complessità del suo pensiero politico è tale da non permetterci di iscrivere Rousseau a tutti gli effetti tra i pensatori del repubblicanesimo, dall’altra parte, relativamente al suo rapporto con Roma e le sue istituzioni politiche, è fortissima l’influenza di questa tradizione rispetto agli altri filoni che nel filosofo ginevrino trovano ricezione e originale rielaborazione.

Andrea Frizzera (Verona, 1995) è dottorando di ricerca in Studi storici, geografici e antropologici presso l’Università degli Studi di Padova e l’Università Ca’ Foscari Venezia. Formatosi presso la Scuola Galileiana di Studi Superiori e l’Università degli Studi di Padova, ha collaborato con la Société Jean-Jacques Rousseau (Ginevra). Si occupa dell’influenza dei modelli greci e romani nel pensiero politico moderno, di storia sociale, istituzionale e politica di Roma antica (con particolare attenzione per la mobilità delle persone, per la corruzione elettorale e per le decisioni senatorie).

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