
In quest’autentica fucina che è Roma un posto di primo piano e riservato alla religione e ai culti attraverso i quali il rapporto tra uomini e divinità viene a rinserrarsi. Non si dimentiche di quanto l’uomo antico sia un homo naturaliter religiosus! A Roma arrivano culti ufficiali evocati dal Senato, culti che verranno ufficializzati solo in un momento diverso dalla loro entrata in città, culti legati a devozioni private, culti utilizzati da “stranieri” per dimostrare tanto l’attaccamento alle radici ancestrali quanto la capacità di essere diventati osmotici nei confronti di una città nella quale essi vivono e lavorano (a volte con ragguardevole successo), culti misterici che non eccederanno mai le soglie dei rispettivi penetralia… In ogni caso culti e retaggi culturali diversi per portata e provenienza così compresenti, una volta confluiti a Roma, nel tempo e nello spazio non rimarranno separati da paratie stagne ma finiranno, da un lato, con il confrontarsi non sempre in maniera naturale con la religione ufficiale e, dall’altro, per giustapporsi in forza della comunanza di luoghi e persone al punto tale da dar luogo a processi inevitabilmente osmotici. In questo senso Roma si rivela un “laboratorio religioso” che permette una possibilità di analisi storico-comparativa in maniera pressoché unica per ampiezza e dialettica rispetto a qualsiasi altra realtà del mondo antico e/o tardoantico.
Quali pratiche erano poste a garanzia della pax deorum che reggeva la missione di Roma?
Roma, per sua vocazione, è da sempre chiamata a regere imperio populos… pacique imponere mos attraverso la forza del diritto. Questa è la sua honesta missio attraverso la quale l’Vrbs dichiara la costante fedeltà a Iuppiter Optimus Maximus Capitolinus, fedeltà che ne permette allo stesso tempo la prorogatio in aevum. Come si realizza questa honesta missio? Come rivelano le parole presaghe rivelate da Anchise a Enea nel VI libro dell’Eneide, la modalità di questa honesta missio si estrinsecherà attraverso il parcere subiectis et debellare superbos, ovverosia “risparmiare i sottomessi e far cadere con la guerra dall’indebito fastigio sui cui si sono posti i superbi (i.e. quelli che non riconoscono il numen di Iuppiter e la consequenziale honesta missio ingiunta all’Vrbs)”. Finché Roma e i Romani rimarranno fedeli a questo dover essere, non potranno conoscere né sconfitta né scomparsa, garante proprio la pax deorum; invece, se ci si dovesse discostare da questo requisito imprescindibile, allora le stesse fondamenta di Roma verrebbero a vacillare. Orazio è illuminante quando nell’Epodo VII chiama i Romani, suoi contemporanei, scelesti, affiancandoli a chi aveva commesso lo scelus (cioè il delitto) per antonomasia consumatosi esattamente al momento dell’atto di fondazione, proprio perché, invece di debellare superbos, rivolgono contro loro stessi il gladio ultore col risultato di vedere infranta quella pax deorum, ovverosia la condicio sine qua non Roma possa continuare a essere prorogata in aevum. Non sarà un caso, allora, che proprio Augusto, una volta sconfitto Marco Antonio, fonderà tutta la sua politica di pacificazione sulla restaurazione di quel mos maiorum che un secolo di guerre civili (meglio, fratricide agli occhi dei Romani) aveva troppo spesso rinnegato.
La pratica maggiormente in uso per ristabilire la pax deorum era la consultazione dei Libri Sybillini (una raccolta di responsi oracolari risalente a Tarquinio il Superbo conservata nel tempio di Iuppiter Optimus Maximus Capitolinus; trasferiti da Augusto nel tempio di Apollo sul Palatino, andarono perduti nel V sec. d.C.) da parte del collegio dei viri sacris faciundis su richiesta del senato e dopo il verificarsi di tetra prodigia, eventi minacciosi intesi come segno di rottura della necessaria concordia tra la comunità dei cives e le divinità del pantheon romano. A seguito di tale consultazione i Viri indicavano i remedia, e cioè, specifiche cerimonie espiatorie volte a ristabilire la pax deorum.
In che modo tradizioni, usanze e norme spesso di portata ancestrale coabitavano nella Roma antica assieme a externae superstitiones?
Non c’è un unico modo secondo cui le externae supertitiones e la Romana religio coabitassero nella “città eterna”. Per rispondere a questa domanda, infatti, bisogna tener conto delle già ricordate categorie di spazio e tempo, determinanti tanto assiali quanto dialettiche. Se in alcuni momenti, come nel caso dell’introduzione a Roma del culto di Cybele, Mater deum, saranno le istituzioni, su tutte il Senato, e la consultazione favorevole dei Libri Sybillini, a stabilire ufficialmente l’entrata in Vrbe di un culto “straniero” già alla vigilia della fine della seconda guerra punica, in altri casi sarà la costanza della stessa devozione verso dèi cosiddetti “orientali” da parte di fedeli via via sempre più presenti, anche ad un alto livello di prestigio sociale ed economico, a permettere a culti come quello di Isis e Osiris di passare da un atteggiamento francamente ostile a livello ufficiale fino all’età augustea a un’attenzione devozionale più o meno sincera da parte degli imperatori, come nel caso specifico dei Flavi (69-96), che ne determinerà il definitivo “sdoganamento”, fino ad arrivare all’inclusione della festa del navigium Isidis (5 marzo) e dell’inventio Osiridis (12-14 novembre) tra le date ufficiali del calendario romano. Altri culti, invece, come quello riservato a Iuppiter Optimus Maximus Dolichenus e a Mithras, pur rimanendo a livello sostanziale di culti privati, non conobbero nessun tipo di ostilità, anzi, il loro floruit coincise con l’avvento al soglio imperiale della dinastia afro-siriana dei Severi (192-235).
Chi erano vettori e attori dei nuovi culti introdotti nel Pantheon romano?
C’è da distinguere tra l’introduzione dei nuovi culti a Roma e nel Pantheon romano. Bisogna dire, infatti, che non tutti i nuovi culti introdotti a Roma conosceranno un’ufficializzazione, come avvenuto ad esempio per quelli già ricordati di Cybele e di Isis e Osiris. Quindi, piuttosto che di introduzione nel pantheon romano sarebbe meglio parlare di introduzione degli stessi culti a Roma. Da questo punto di vista, si potrebbe dire, che tutti siano stati vettori e attori di tale introduzione, anche quei conservatori integerrimi che, nello schierarsi totalmente e reiteratamente contro la marea montante dei culti venuti dall’Egitto e dall’Oriente, hanno finito con l’amplificarne fama e risonanza sostenute dalla specificità di un connaturato “esotismo” di fronte agli occhi austeri del mos maiorum. Messi comunque da parte questi vettori e attori “loro malgrado”, c’è da dire che i migliori “profeti” dei nuovi culti sono stati gli orientali stessi che, giunti a Roma da tutte le regioni poste sotto il dominio romano, proprio in Vrbe porteranno divinità e culti delle regioni di origine. Schiavi e liberti, commercianti e impiegati burocratici, soldati e ufficiali, mestieranti e uomini di alta cultura, giungendo a Roma e soggiornandovi, hanno contribuito in modo determinante a questa progressiva osmotica diffusione capace di far breccia, col tempo, nell’ufficialità della religione romana e, allo stesso tempo, di relazionarsi ad essa fino a rileggere, in alcuni casi, il substrato plurimillenario di divinità di caratura etnica e/o poliade: Come pars pro toto si può pensare al “caso” di Iuppiter Optimus Maximus Dolichenus, un dio geograficamente ben connotato in forza di un inequivocabile appellativo epicorico, eppure esaltato in forza di caratteristiche e attributi capaci di connetterlo analogicamente alla somma divinità del pantheon ufficiale romano.
Se in un primo momento tali culti saranno appannaggio delle classi meno abbienti per estrazione sociale e/o per “noblesse”, con il passare del tempo faranno breccia anche tra la classi aristocratiche e gentilizie fino a diventare, col tramonto del mondo cosiddetto “pagano”, una delle estreme trincee dentro le quali gli ultimi “pagani”, spesso proprio gli aristocratici, si rifugiavano per cercare di opporre una strenua e disperata resistenza di fronte alla nuova religione cristiana divenuta l’unica religio dell’impero.
In che modo la conversione di Costantino costituì un unicum rispetto ai culti introdotti dai suoi predecessori?
Per Costantino parlare di conversione è improprio. Il vincitore di Massenzio a Ponte Milvio (28 ottobre 312) e il sottoscrittore, assieme a Licinio, del cosiddetto “editto di Milano” (promulgato il 13 giugno 313), si convertì ufficialmente solo in punto di morte e si fece, solo allora, battezzare da Eusebio di Nicomedia, un vescovo ariano; insomma, piuttosto che convertirsi al cristianesimo il christianissimus imperator ne permise la libertà di culto e, come già fatto da Galerio con l’Editto di Serdica (30 aprile 311), pose termine alle persecuzioni. Costantino, dunque, non introdusse di certo a livello ufficiale il cristianesimo; egli fu piuttosto legato ad Apollo/Sol invictus secondo le concezioni enoteistiche del periodo (cfr. I. Tantillo, L’impero della luce. Riflessioni su Costantino e il sole, MEFRA 115, 2 [2003], pp. 985-1048) e si dimostrò sensibile verso un divino che si incentrava sempre più su un unico dio come il potere si incentrava su un unico uomo. Una volta eletta a propria sede e capitale dell’impero Costantinopoli, “seconda Roma”, lo stesso Costantino si allontanerà progressivamente dall’eliolatria per avvicinarsi, altrettanto progressivamente, verso la nuova religione dichiaratamente monoteistica, capace di sostenere ancor meglio la volontà politica e psicologica di un imperatore che intendeva sempre di più il proprio potere come un unicum. Certamente Costantino, al quale il Senato e il Popolo romano avevano dedicato l’arco trionfale ancora visibile accanto al Colosseo per celebrare allo stesso tempo la vittoria sul “tiranno” (i.e. Massenzio) e la rivendicazione della legittimità della res publica, segno tangibile d’ispirazione divina e grandezza di spirito (instictu divinitatis mentis magnitudine; cfr. CIL VI 1139), dette un notevole impulso all’edilizia cristiana di Roma. Tuttavia non bisogna dimenticare che, a differenza di Costantinopoli, i luoghi di culto qui edificati per la nuova religione non verranno di certo eretti nel “centro della città”.
L’avvento del cristianesimo ruppe la quasi millenaria tradizione di sincretismo religioso dei romani: qual era lo sguardo cristiano sui “culti orientali”?
Di fronte alla naturale poliedricità dei cosiddetti “culti orientali” lo sguardo dei cristiani, forti di un credo monoteistico e, perciò, esclusivo, è sostanzialmente univoco. Gli scrittori cristiani del II secondo secolo, come Giustino Martire, cercando di dimostrare come l’essenza dei culti pagani fosse stata già contemplata dalle Sacre Scritture, tentano così di ricondurre nell’alveo del Vecchio e del Nuovo Testamento i culti pagani alla luce di una loro attribuita recenziorità rispetto al messaggio divino; sarebbero stati i malvagi demoni ad aver introdotto culti e riti a imitazione di quanto già indicato proprio nelle Sacre Scritture. Gli autori del III e del IV sec., come Tertulliano e Firmico Materno, invece, non esiteranno non solo a condannare senza appello tutte le manifestazioni cultuali pagane ma addirittura rivolgeranno contro i pagani stessi le accuse di cene tiestee e di unioni illegittime sistematicamente rivolte contro i cristiani: come si possono accusare proprio i cristiani di azioni di cui sono protagonisti addirittura quegli dèi che si adorano fin sul Campidoglio? Una tale virulenza da parte dei cristiani finirà per virare verso un atteggiamento di totale disprezzo nei confronti di pagani aristocratici ingiuriati di recrudescenza per la pervicacia con cui continuano a venerare gli dèi “falsi e bugiardi”, proprio come avviene nella poesia di Pretestato volta alla celebrazione dei martiri.
Corinne Bonnet insegna Storia antica all’Università di Tolosa e studia le religioni del Mediterraneo antico, con un’attenzione speciale ai contesti multiculturali. Dal 2017 dirige un progetto europeo che mira a raccogliere e studiare gli innumerevoli appellativi degli dèi greci e semitici dal 1000 a.C. al 400 d.C. Ha pubblicato numerosi libri e articoli (cfr. https://plh.univ-tlse2.fr/accueil-plh/annuaire/mme-corinne-bonnet#/), fra cui di recente il volume collettaneo Noms de dieux. Portraits de divinités antiques (Toulouse, Anacharsis, 2021).
Ennio Sanzi, allievo di Giancarlo Montesi e Ugo Bianchi, è docente di ruolo nel Liceo classico. Dottore di ricerca in Storia religiosa, ha conseguito l’abilitazione a professore universitario di II fascia. Studia i fenomeni religiosi del Secondo Ellenismo tanto pagani che cristiani. Oltre a raccolte di saggi e contributi in diverse lingue scientifiche sulle tematiche indicate (cfr. https://independent.academia.edu/EnnioSanzi), ha pubblicato numerosi volumi propri e miscellanei e curato traduzioni commentate di autori greci e latini. È orgoglioso di avere cantato e suonato al Folkstudio così come di essere una persona libera.