“Roma in bilico. Svolte e scenari alternativi di una storia millenaria” di Luca Fezzi

Prof. Luca Fezzi, Lei è autore del libro Roma in bilico. Svolte e scenari alternativi di una storia millenaria, edito da Mondadori. La storia non si fa con i ‘se…’, afferma un proverbio, eppure Lei dedica interamente il Suo nuovo, pregevolissimo, studio a un esercizio di storia controfattuale romana, grazie anche al fatto che gli antichi, immuni a condizionamenti storiografici di sorta, facevano ampio uso dei ‘se…’. Come sarebbe stato – e sarebbe anche ora – il nostro pianeta senza la città di Romolo?
Roma in bilico. Svolte e scenari alternativi di una storia millenaria, Luca FezziUn ‘se…’ di questa portata, ad apertura dell’intero volume, è un’evidente provocazione. Un mondo senza Roma è, semplicemente, inimmaginabile. Non ci sarebbe stata la romanitas ma neppure il Medioevo, il Rinascimento, la Modernità, momenti che sono – anche – prodotto storico e culturale dell’Urbe e del suo impero. Anche il futuro sembra voler ripartire da Roma. Non possiamo infatti non prendere atto, ad esempio, dell’entusiastica accoglienza che i suoi modelli giusprivatistici hanno recentemente riscosso nella lontana ma sempre più determinante Repubblica popolare cinese.

Ma torniamo alla provocazione iniziale. Essa è già presente in uno scritto di Plutarco di Cheronea. Il filosofo greco, ragionando sulla fortuna di Roma, ricordava addirittura che il suo leggendario fondatore sarebbe potuto morire affogato nei gorghi del Tevere oppure di fame, assieme al gemello Remo. Ma già per Plutarco, che viveva nel secolo II d.C., periodo di massimo splendore economico e culturale dell’impero, un’idea del genere era un voluto paradosso, reso evidente dall’uso del mito.

Se ragioniamo da storici possiamo addirittura affermare che un mondo senza Roma sarebbe non solo impensabile ma anche improbabile. Il luogo dove essa sorse era davvero ottimale. Si trovava all’incrocio tra la via costiera – che andava dalla Campania all’Etruria – e il Tevere, il maggiore fiume dell’Italia peninsulare. Politicamente e culturalmente, era ai confini tra mondo etrusco, latino e sabino. In altre parole, si prestava troppo bene ad accogliere una città destinata a un futuro radioso. Certo, un polo alternativo avrebbe potuto affermarsi sempre lungo il Tevere ma un po’ a monte, anche se non va dimenticata la particolare rilevanza del guado dell’isola Tiberina e della fortezza naturale del Campidoglio.

Ed ecco che questo molto improbabile ‘se…’ ci ha condotti a un’importante riflessione di tipo geopolitico. È in fondo questa la maggiore utilità della storia controfattuale, genere però che non gode, almeno tra gli specialisti, di particolare popolarità. La ragione di ciò va cercata nel concetto stesso di storia. Essa nasce come ricerca relativa al passato, si sviluppa come scienza, in senso lato, e prende forma di narrazione o di dissertazione, includendo ambiti tematici o cronologici molto diversi tra loro.

Nonostante questa grande varietà, il percorso della Storia, con la s maiuscola, è spesso visto come lineare e addirittura, in alcuni, orientato verso un obiettivo preciso. Si tratta in gran parte di un retaggio monoteistico, e in particolar modo cristiano. Storia è in certi casi il cammino stesso dell’umanità: per Agostino, verso Dio, per Hegel, verso la libertà, per Marx, verso la società comunista. Persino Fukuyama, quando ha ipotizzato la ‘fine della storia’, ha visto come punto di arrivo la democrazia liberale e il capitalismo. Limitiamoci alle considerazioni di carattere filosofico: quelle propagandistiche sono più smaccatamente orientate verso obiettivi di comodo.

La storia, però, riesce sempre a sorprendere, sfuggendo a ogni previsione: forse anche per questo nessuno ne ha mai messo in discussione l’esistenza, ma al limite la nostra capacità di conoscerla e di raccontarla.

Il divieto di usare i ‘se…’, è evidente, si fa particolarmente rigido tra coloro che, per varie ragioni, esaltano ineluttabilità, determinismo, necessità. Tali posizioni, per alcuni, metterebbero in dubbio il concetto di libertà; non è un caso che il più noto tra i pionieri della storia controfattuale – e padre del termine ‘ucronia’ – fosse un liberale, il francese Charles-Bernard Renouvier. Anche la sua Uchronie (1876) era ambientata nell’antica Roma. Egli mutò il corso della storia dando come successore all’imperatore filosofo Marco Aurelio non il figlio naturale Commodo – che godette sempre di ‘stampa’ pessima, rilanciata nell’ultimo ventennio dal successo del film Il Gladiatore di Ridley Scott – ma Avidio Cassio. Poté così immaginare, ad esempio, che riforme avanzate da una più rispettabile autorità centrale avrebbero preservato, in Europa, il paganesimo, e che il cristianesimo si sarebbe diffuso solo nelle regioni orientali del Mediterraneo. Un altro liberale, Croce, ritenendo a contrario che il concetto di libertà non fosse negato da una prospettiva storicistica, attaccò pesantemente l’esercizio di Renouvier; ma egli, va detto, era fortemente debitore dell’idealismo di Hegel.

Diciamo allora che i ‘se…’ non fanno la storia, ma possono essere di aiuto. A raccontare, a delineare le ‘svolte’, a soppesare il ruolo degli eventi. L’antichità politeista – che ha anche conosciuto interpretazioni della storia cicliche, ispirate all’andamento delle stagioni, e l’alternativa del mito, fantasiosa ma non necessariamente ingenua – si è mossa con più disinvoltura. La maggior parte dei ‘se…’ – rigorosamente ‘di autore’ e portati da questo volume alle loro estreme conseguenze – proviene infatti da voci autorevoli del mondo antico, come Cesare, Livio e Plutarco; quelli ‘moderni’ sono minoritari, ma non di personaggi minori: basti citare Napoleone e il generale Montgomery.

Se i ‘se…’ hanno avuto un grande passato, potrebbero anche riconquistarsi un futuro. Ciò, se non altro, come reazione a un mondo in cui tecnica e finanza hanno soppiantato la politica e compresso la sfera di azione dell’individuo, ormai burocrate, al virtuale, al consumo o, nel migliore dei casi, al privato.

Tengo invece a sottolineare che post-verità e fake news – sebbene antiche come il mondo – esulano da questo volume.

Chi avrebbe avuto la meglio se Alessandro il Macedone, dopo essersi volto a est nella sua conquista, avesse attaccato Roma?
Si tratta della famosa domanda posta da Livio, che nella sua ipotesi concede al Macedone, morto ancora giovane, qualche anno di vita in più.

La risposta del grande storico latino è retorica, perché secondo lui, naturalmente, avrebbe vinto Roma, grazie a un esercito meglio organizzato e guidato non da uno ma da più comandanti, tutti all’altezza di Alessandro. La domanda, però, è suggestiva, ed è stata sviluppata dalla critica moderna. Un grande storico, Toynbee, si è divertito a sua volta a creare un’ucronia nella quale il Macedone avrebbe unificato politicamente l’intero pianeta. Ciò avrebbe, nei secoli successivi, accelerato i progressi tecnologici e facilitato i trasporti, portando Erone di Alessandria (scienziato realmente vissuto nel I sec. d.C.) a creare le prime locomotive e navi a vapore, e attirando missionari buddhisti in Occidente. Al di là della fantasia, c’è invece chi sostiene che l’avanzata verso ovest fosse davvero nei piani di Alessandro, il cui progetto era quello di conquistare il mondo noto, e anche questo ‘se…’ costituisce uno spunto serio di riflessione storica.

L’ambiziosissimo piano, bisogna constatare, lo avrebbe condotto a una guerra non solo contro Roma ma anche contro Cartagine, soprattutto nel caso in cui egli avesse attaccato la Sicilia, in buona parte cartaginese. Si sarebbe quindi scontrato con la potentissima flotta punica; non sappiamo se sarebbe stato all’altezza della prova, non avendo egli mai condotto battaglie per mare. Inoltre, Cartagine si sarebbe alleata con Roma, così come avvenuto una quarantina di anni dopo, quando a puntare sulla Sicilia sarebbe stato Pirro, re dell’Epiro.

Ma se anche Alessandro avesse combattuto solamente contro l’Urbe, avrebbe dovuto risolvere il non facile problema di un assedio, problema che neppure Annibale, più di un secolo dopo, si sarebbe sentito di affrontare.

Cosa sarebbe avvenuto se Annibale, dopo la schiacciante vittoria di Canne, avesse marciato su Roma?
Anche questa è una domanda di Livio, poi ripresa da Plutarco e, molto più di recente, dal generale Montgomery.

La proposta di marciare sull’Urbe, nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno in cui Annibale aveva vinto a Canne, era stata formulata dal comandante della cavalleria Maarbale, che riteneva possibile raggiungere la città nemica in soli cinque giorni. Il condottiero prese invece tempo e l’altro, stizzito, lo accusò di non essere in grado di approfittare della vittoria ottenuta sul campo. Sempre secondo Livio, quando Annibale, cinque anni dopo, marciò davvero contro la città ma si trovò a mal partito, fu costretto ad ammettere che la prima volta gli era mancata la volontà, la seconda, invece, l’occasione.

Ma da Canne, nella lontana Puglia, sarebbe stato possibile giungere a Roma in soli cinque giorni e, soprattutto, ciò sarebbe servito? Come hanno sottolineato voci della critica moderna, l’impresa avrebbe potuto essere realizzata solo dall’avanguardia della cavalleria, formazione particolarmente inadatta ad assediare una città. Ogni effetto-sorpresa sarebbe stato reso vano dalle molte staffette romane. Per tale ragione c’è chi ha ipotizzato che l’idea di marciare contro Roma risalirebbe non allo scontro avvenuto nella lontana Canne ma a quello verificatosi un anno prima sulle sponde del ben più vicino lago Trasimeno: solo in quel frangente l’intero esercito cartaginese, fanteria e carriaggi compresi, avrebbe potuto raggiungere l’Urbe in cinque giorni.

In ogni caso, l’impresa di Annibale si sarebbe impantanata in un assedio, reso difficile non solo da questioni logistiche ma anche dalla fedeltà delle popolazioni alleate, che abitavano la Penisola italica. A tale proposito Montgomery si lascia sfuggire un sibillino «Maarbale aveva ragione», scritto forse non nella convinzione che il consiglio di marciare su Roma fosse buono, ma nella consapevolezza che il condottiero cartaginese non era preparato per assediare l’Urbe, anche perché la cosa non era nei suoi piani. Con una flotta drammaticamente ridotta dalle restrizioni successive alla Prima guerra punica, il Cartaginese si era spostato via terra dalla Spagna sino nella Penisola italica per portare lo scontro a est, sperando che le popolazioni locali si sollevassero contro i romani. Alcune lo fecero, ma l’insieme di alleanze creato dall’Urbe, nel complesso, resse.

Secondo altre voci della critica, Annibale attendeva Filippo V di Macedonia, la cui flotta avrebbe potuto creare un blocco navale sull’Urbe. Ma sempre Livio narra però che il discendente di Alessandro, in seguito a una serie di circostanze casuali ma soprattutto per mancanza di coraggio, non prestò fede agli accordi. In ogni caso Annibale, dopo circa 15 anni dovette abbandonare la Penisola italica; la sua definitiva sconfitta avvenne su territorio africano.

La narrazione dell’assassinio di Cesare è particolarmente densa di presagi inascoltati: Cesare se lo aspettava?
Ci troviamo di fronte all’omicidio più celebre della storia. La drammatizzazione è quindi inevitabile.

L’idea che Cesare avrebbe potuto salvarsi se solo avesse avuto maggiore rispetto per gli auspici e i segni celesti è, nelle fonti antiche, quasi costante. Essa però si lega naturalmente a riflessioni filosofiche e morali, quali l’ineluttabilità del destino e il danno causato dalla superbia.

Non mancano addirittura voci secondo le quali il dittatore, forse malato, sarebbe stato stanco di vivere. Due elementi spingono tuttavia a sospettare di ciò. Il primo è la mancanza, da parte di Cesare, di un progetto per la successione o anche, più genericamente, per la forma da dare all’ormai agonizzante res publica romana. Il secondo è che egli fu ucciso alla vigilia di un’ambiziosissima spedizione in Oriente, volta ad allargare la sfera d’influenza romana sino alla Mesopotamia, per raggiungere forse anche il Caspio e terminare addirittura in Germania, zona fortemente strategica, ma che Roma non sarebbe mai riuscita a controllare.

E se non vi fosse stato il disastro di Teutoburgo?
Quando si parla di ‘controfattualità’ e di Germania, la menzione della selva di Teutoburgo non può mancare. Là, nel 9 d.C., il massacro di ben 3 legioni romane portò alla fine dei disegni espansionistici imperiali nella regione.

Le fonti, con il senno del poi, parlano di un episodio facilmente evitabile, provocato dall’eccessiva fiducia del governatore Varo nei confronti del cherusco Arminio, fiducia che lo aveva addirittura portato a respingere i consigli di chi cercava invece di metterlo in guardia. In seguito al disastro, Augusto piombò nella disperazione. L’Urbe reagì con altre campagne militari, ma i difficili progressi furono spazzati via da una seconda sciagura, avvenuta sette anni dopo: il naufragio di un’intera flotta nel Mare del nord. A quel punto l’imperatore Tiberio volle ridimensionare le ambizioni geopolitiche di Roma, arretrando il confine della zona controllata dal fiume Elba al più occidentale Reno. Terminò così un tentativo di annessione che si stava protraendo ormai da un trentennio. Le terre germaniche, nei decenni e nei secoli a venire, avrebbero subìto occupazioni solo parziali.

Certo, se Varo avesse ascoltato gli amichevoli consigli non sarebbe caduto nella trappola di Arminio. Ma dobbiamo chiederci: ciò, oltre che necessario, sarebbe stato anche sufficiente a garantire l’espansionismo di Roma? Poiché la geografia della Germania favoriva agguati e imboscate, un qualunque successore di Varo avrebbe potuto fare la stessa fine. A meno che, naturalmente, l’Urbe non decidesse di procedere, come suggerito molto post eventum dallo storico Cassio Dione, a una ‘romanizzazione’ graduale e pacifica: in altre parole, applicando il ‘principio della rana bollita’ ante Chomsky. Non sappiamo però se, di fronte ai fieri germani, ciò sarebbe stato sufficiente.

Di certo, il ‘se…’ relativo a Teutoburgo è di portata enorme. Una Germania romana, infatti, avrebbe potuto rallentare di secoli il crollo definitivo del confine del Reno, simbolicamente avvenuto l’ultimo giorno del 405 o del 406, così come impedire le precedenti e ancora più pesanti infiltrazioni di popolazioni barbariche a sud del Danubio. In altre parole, si sarebbero evitate o più plausibilmente differite nel tempo la fine dell’Impero romano di Occidente, la nascita dei regni romano-barbarici e l’occupazione longobarda dell’Italia. Forzando ulteriormente la mano il ragionamento potrebbe estendersi all’infinito, sino a coinvolgere fenomeni e momenti storici successivi, che ebbero come protagonista la Germania: dall’Impero carolingio al Sacro romano impero, alla Riforma protestante, al Secondo e al Terzo Reich e, a cascata, ai due conflitti mondiali e alla Guerra fredda. Le ricadute linguistiche e culturali di una Germania romana sarebbero state altrettanto grandi.

Molto più verosimilmente però, l’irrevocabile decisione di Tiberio fu anche, allora e per qualche decennio a venire, la più logica. Il confine rimase comunque, come spesso accade, permeabile e, soprattutto, non impedì ai germani di combattere sempre più spesso a fianco dell’esercito imperiale o nei suoi ranghi.

Luca Fezzi (Lavagna 1974), ex allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa, insegna Storia romana presso l’Università degli Studi di Padova. Tra i suoi libri: Il tribuno Clodio (2008, Laterza); Catilina. La guerra dentro Roma (2013, EdiSES); Modelli politici di Roma antica (2015, Carocci); Il corrotto. Un’inchiesta di Marco Tullio Cicerone (2016, Laterza); Il dado è tratto. Cesare e la resa di Roma (2017, Laterza), tradotto in francese (Alea jacta est. Pourquoi César a-t-il franchi le Rubicon?, 2018, Belin) e in inglese (Crossing the Rubicon. Caesar’s Decision and the Fate of Rome, 2020, Yale UP); Pompeo (2019, Salerno); Cesare. La giovinezza del grande condottiero (2020, Mondadori).

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