
Il significato di un luogo unico al mondo come Roma è legato a una serie di valenze simboliche, a partire da quelle che gravitano intorno alle sue mitiche origini. I racconti leggendari, giunti fino a noi grazie alla trascrizione di storici come Tito Livio, riconducono anche ai simbolismi di quelle che ho definito “geometrie originarie” della forma urbana: dal quadrato (relativo al primo nucleo della città sul colle Palatino, la cui sommità è all’incirca di forma quadrangolare, da cui la definizione di “Roma quadrata”) al cerchio (l’orbis che contrassegnava il limite immateriale della zona destinata dagli auspici alla fondazione della città, in seguito il primo cerchio abitato e delimitato). In seguito il simbolismo legato al cerchio si ripropone in quello formato, attorno al Palatino, dalle prime colonie che diventeranno quartieri della città “serviana” quando verrà circondata di mura stabili; osservando una pianta attuale, ritroviamo richiami al cerchio anche nel tessuto urbano contemporaneo (pur nella totale dissimmetria delle successive “forme” della città intramuraria), ad esempio nelle strutture viarie della tangenziale e, procedendo sempre in senso centrifugo, del Grande Raccordo Anulare.
Il sito su cui Roma è sorta è particolarmente privilegiato, grazie alla presenza del fiume (basilare per gli scambi commerciali con l’entroterra e con le regioni marittime), dei colli che consentivano di sfuggire ai miasmi malarici delle vallate paludose, del mare vicino ma non così tanto da esporre la città alle incursioni delle flotte straniere e, infine, grazie alla posizione mediana rispetto all’Italia, che ne agevolò le fortune come capitale dell’Impero e del Papato, costituendo in tempi più recenti uno dei motivi della definitiva scelta della città come capitale del Regno e poi della Repubblica italiana. Potremmo parlare di una simbolica predestinazione legata alla posizione geografica? Al di là di ogni superato determinismo, i vantaggi sono stati comunque indubbi.
Quali problemi ha posto storicamente e pone attualmente l’espansione della città?
Già in età repubblicana, con l’espansione oltre le Mura Serviane, la struttura urbana presentava quell’assetto caotico e anarchico che avrebbe continuato a caratterizzare il suo sviluppo territoriale fino ai nostri giorni. La notevole irregolarità è anche da attribuirsi, nei secoli, all’opera dei potenti di turno, che hanno in genere anteposto i propri interessi al bene comune, e di un popolo che ha tentato di riprodurre a scala assai ridotta, al solo scopo di soddisfare i propri bisogni primari, l’ottica personalistica senza tener conto delle esigenze dell’intera comunità. Conoscere la lunga storia dell’evoluzione dell’assetto urbano rende maggiormente consapevoli della situazione attuale e capaci di intraprendere azioni di cittadinanza attiva per un’inversione di rotta quanto mai urgente. Dall’alto Medioevo (dopo crisi di varia natura che avevano condotto a una diminuzione della popolazione) e fino al 1870 la città permane raccolta all’interno delle Mura Aureliane, con pochi nuclei densamente abitati e ampie aree disabitate, a tratti occupate da necropoli e da discariche di rifiuti (il problema dello smaltimento dei rifiuti è purtroppo ancora oggi a Roma di drammatica attualità). Dopo il 1870, con l’arrivo dei Piemontesi, s’infittisce l’edificato entro le Mura e inizia l’espansione extramuranea che non conoscerà più significative battute d’arresto, fino ad arrivare all’estensione urbana “a macchia d’olio”, secondo l’azzeccata definizione di Antonio Cederna. La città oggi dilaga in maniera anarchica oltre il “confine” del Grande Raccordo Anulare, spesso sotto le spinte speculative dell’iniziativa privata. Scomparsi i baraccamenti degli inizi del Novecento ai margini della città, risanate e riqualificate le borgate popolari sorte nel Ventennio nell’allora aperta campagna, è ora necessario porre un freno all’ urban sprawl, ovvero alla disordinata dispersione della città e al consumo di suolo che sta erodendo i residuali spazi verdi.
Come ricorda nel Suo testo, Roma fu definita Regina aquarum: come si è evoluto il rapporto tra la città e l’acqua?
Come tutte le antiche città fluviali, Roma è nata dal legame con il suo fiume, sulle cui sponde nei pressi dell’Isola Tiberina si è sviluppata in senso multietnico e multiculturale grazie all’incontro per scambi commerciali di genti di diversa etnia e provenienza (latini, sabini, etruschi, greci, focesi ecc.). Nel corso dei secoli Roma ha avuto con il Tevere un rapporto che si potrebbe definire di amore-odio: amore per la risorsa che esso ha costituito fin dalle origini come riserva idrica e via di comunicazione, odio a causa delle disastrose inondazioni del centro storico durante le improvvise piene. La soluzione al grave problema si è trovata agli inizi del Novecento con la costruzione dei muraglioni, che tuttavia hanno modificato il rapporto diretto della città con il fiume, relazione che oggi si sta recuperando grazie agli interventi di risanamento delle acque e ai progetti di navigabilità e di fruizione delle banchine con attrezzature e piste ciclabili.
L’appellativo di regina aquarum è stato attribuito a Roma quando gli undici antichi acquedotti (costruiti dal III secolo a.C. al III d.C.) l’hanno resa ricchissima d’acque, più di ogni altra città del mondo antico. Da quel momento Roma ha potuto disporre di un quantitativo d’acqua tale da consentirle di alimentare, oltre a numerose fontane e ai ninfei, persino le grandiose Terme imperiali. Le fontane romane, che hanno avuto il momento di massimo splendore artistico nel Sei-Settecento, rappresentano ancora un patrimonio di grande pregio e una forte attrazione turistica. Oggi i cittadini romani, abituati all’ininterrotto fluire d’acqua potabile dalle tipiche fontanelle di ghisa (i “nasoni”) sparse in tutti i quartieri della città, faticano ad accettare la necessità, sebbene le risorse idriche captate dai moderni acquedotti nelle sorgenti dell’Appennino e delle aree vulcaniche del Lazio riescano per il momento ancora a coprire il fabbisogno, di mettere in atto anche nella Capitale oculati comportamenti per il risparmio idrico. L’azione delle amministrazioni deve essere inoltre rivolta alla lotta all’inquinamento degli acquiferi nelle aree di captazione, dove la forte urbanizzazione sta trasferendo nel suolo (e quindi nelle falde) una quantità insostenibile di sostanze organiche e prodotti chimici non biodegradabili.
Quali problemi ha posto e pone il tema dell’abitazione nella Capitale?
Il problema abitativo e le tipologie edilizie a Roma hanno da sempre messo in evidenza la dicotomia esistente tra i pochi benestanti e i moltissimi appartenenti ai ceti medi meno abbienti, fino a coloro che si trovano al limite dell’indigenza o in stato di povertà conclamata. Già nella Roma dell’ultimo periodo repubblicano e di quello imperiale era palpabile questa differenza: i patrizi nelle domus e nelle villae suburbane, il popolo nelle insulae, fabbricati di 4-5 piani con solai e scale in legno. Persino all’interno delle insulae si percepivano le differenze di censo; la situazione economica degli abitanti era infatti inversamente proporzionale all’altezza dei piani: l’ultimo piano ospitava chi poteva permettersi solo un canone d’affitto molto contenuto, dovuto al maggiore rischio di rimanere intrappolato a causa dei frequenti incendi. La stessa separazione tra aristocrazia e popolo si perpetra nei secoli successivi, sempre mostrando il doppio volto di Roma: da una parte i nobili, nel Medioevo arroccati nella nuova forma della “torre”, poi in fortilizi spesso sorti sopra monumenti antichi (come sui mausolei di Augusto e di Adriano, sul Teatro di Marcello ecc.) e successivamente nei grandiosi palazzi rinascimentali e barocchi; dall’altra parte i vari strati della popolazione, sistemati in case di uno o due piani addossate l’una all’altra e affacciate su vicoli tortuosi. Nella prima metà del Novecento e fino ai nostri giorni il problema abitativo si fa sempre più acuto, con la marginalizzazione progressiva delle fasce di popolazione svantaggiate, che nel migliore dei casi vanno a risiedere nei fabbricati intensivi delle aree periferiche, dove non si è provveduto alla preventiva creazione delle infrastrutture e dei necessari servizi. Il monito di “ripartire dalle periferie”, lanciato con forza anche da papa Francesco come vescovo di Roma, si deve tradurre nell’impegno fattivo e onesto degli amministratori, sotto il controllo consapevole e responsabile dei cittadini stessi.
Il tema del degrado urbano della Capitale è di stringente attualità: quali a Suo avviso le cause e quali le possibili soluzioni?
Appare fin troppo facile e scontato attribuire la responsabilità del degrado urbano della Capitale alla classe politica e agli amministratori capitolini degli ultimi decenni. A questa situazione ai limiti dell’irreversibilità si è giunti gradatamente, persino con il contributo di una cittadinanza in passato troppo deresponsabilizzata. Sarebbe lungo affrontare una disamina degli scandali e degli errati o mancati interventi pubblici. Mi limito pertanto a elencare in estrema sintesi possibili soluzioni, in molti casi prospettate da esperti settoriali e da me pienamente condivise, relative solo ad alcune delle principali emergenze: edilizia, ambientale e sociale. Riguardo all’emergenza edilizia, è importante mettere a frutto in modo completo l’attuale edificato (attraverso stringenti controlli sulle abitazioni lasciate sfitte), evitando di ampliare il raggio del consumo di suolo con ulteriore cementificazione; occorre anche procedere (come in alcuni casi è già in atto) con quelli che Renzo Piano chiama “rammendi”, ovvero interventi di ristrutturazione e restauro dell’esistente, mantenendo e incrementando le agevolazioni fiscali per i condomini che decidano di provvedere.
Riguardo all’emergenza ambientale, comune a tutti gli agglomerati urbani non solo italiani, le misure più urgenti sono ravvisabili nella riorganizzazione dei sistemi di mobilità pubblici e privati, anche con l’effettiva adozione di corridoi realmente preferenziali per i mezzi di trasporto pubblico. La soluzione ai problemi del traffico nel centro storico e sulle direttrici viarie, tra le principali cause d’inquinamento dell’aria, è annosa questione di non poco conto, che deve coinvolgere una serie di competenze qualificate, ispirate alla trasparenza e alla legalità. L’adozione dei “tetti verdi”, consistente nella copertura vegetale del lastrico dei terrazzi condominiali in grado di apportare vantaggi alla qualità dell’aria, come pure l’impianto di pannelli solari per la produzione di energia alternativa faticano ancora ad attecchire nella pratica, nonostante i previsti incentivi fiscali. Limitazioni dovrebbero essere poste, come nell’uso degli impianti di riscaldamento invernale, anche all’utilizzo sempre più diffuso di condizionatori per il raffrescamento dell’aria in abitazioni e negozi, che hanno la negatività, oltre a quella del carico sul consumo energetico, di provocare all’esterno un aumento della temperatura e dell’umidità, alterando il microclima urbano. L’emergenza sociale è infine quella che sta assumendo proporzioni imbarazzanti, con l’aumento delle disuguaglianze, l’accrescersi del popolo degli homeless e della cospicua schiera di nuovi poveri, costretti a rivolgersi a strutture caritatevoli di volontariato. Più che ipotesi di soluzione a un problema così grave e complesso, posso soltanto permettermi di esprimere l’auspicio che gli amministratori, e non solo quelli comunali, riescano a fare con serietà la loro parte. Altra importante parte deve svolgerla la scuola di ogni ordine e grado, il luogo istituzionale dove si pongono le premesse di una nuova cittadinanza partecipativa e solidale.
Come ritiene possa e debba indirizzarsi nel futuro un nuovo senso del luogo per Roma?
Al termine del percorso di ricostruzione della complessità di significati, legati alle stratificazioni delle varie preesistenze territoriali che la Città Eterna racchiude, mi sono interrogata sui nuovi “segni”, materiali e immateriali, che si stanno imprimendo sul tessuto urbano, vale a dire sui segni che denotano la presenza, come del resto avvenne alle origini, di una umanità multietnica e multiculturale, che deve potersi riconoscere nella condivisione di valori e di spazi. Per questo ho ritenuto che la chiave per la scoperta di un nuovo senso del luogo potesse essere la convivenza responsabile: convivenza della città storica intramuranea con le nuove “centralità periferiche” (secondo la terminologia e la progettualità legate all’ultimo Piano Regolatore), che devono ancora trovare la loro funzione identitaria nell’abbattimento di quella marginalità per troppo tempo alimentata; convivenza delle vestigia archeologiche, che costituiscono un immenso quanto unico patrimonio culturale da valorizzare, con la metropoli aperta a contaminazioni e sperimentazioni, recuperando così in pieno il ruolo di capitale di respiro internazionale. Ma la convivenza responsabile va posta in essere anche sul piano umano e sociale, recuperando l’originaria vocazione all’inclusione di etnie e di culture differenti e di ogni tipo di diversità, affinché ognuno a Roma possa sentirsi accolto in una casa comune da amare, rispettare e tutelare.
L’indagine però resta aperta: la affido a tutte e tutti coloro che vogliano accogliere la sfida di ricercare quello che potrebbe essere il nuovo senso del luogo di questa città o di sue porzioni (un rione, un quartiere…) che costituiscono il proprio spazio quotidianamente vissuto e percepito. L’individuazione di un nuovo o di un recuperato senso del luogo deve però avere come necessaria premessa un grande interesse e un intimo coinvolgimento nei confronti di una città che per riscattarsi ha bisogno della sensibilità, dell’impegno e della collaborazione di tutti.