
La tradizione culturale italiana, spesso disattenta agli aspetti materiali dell’esistenza, si è lasciata raramente affascinare dalla conoscenza storica dei contesti di vita e dalle procedure instabili della loro percezione. Il fatto è che il terreno della percezione è scivoloso: ogni individuo ha la propria, mutevole nel corso della vita, e quella collettiva è instabile e piena di sfaccettature. La geometria della forma urbana sembra offrire una prospettiva più oggettiva e più stabile; ma, andando a ritroso nei secoli, su questo piano potremmo incontrare molte città, l’una diversa dalle altre: la Roma del secondo dopoguerra che si espande a macchia d’olio, quella ottocentesca rifatta all’interno delle sue mura per essere Capitale, quella descritta dalle bolle papali del Rinascimento, o dagli itinerari della devozione medievale o dai fasti dell’incoronazione di Carlo Magno, quella della fame della guerra gotica, dell’immenso cantiere delle Mura di Aureliano, del secolo d’oro dell’impero e via continuando a ritroso… E non basterebbe, perché la forma di ciascuna di queste città potrebbe essere a sua volta scandita in periodi, fasi, avvenimenti, che l’hanno vista, mai ferma, respirare, contrarsi, sbuffare.
Se pensiamo dunque ad una Roma percepita non c’è risposta alla nostra domanda. Anche sul piano del paesaggio le Rome tornano a essere infinite, dal momento che ogni paesaggio è un corpo vivo, in continua trasformazione, luogo e simbolo del rapporto incessante tra persistenza e trasformazione. Potremmo essere tentati allora di dare una scansione letteraria di queste trasformazioni, guidata dalle descrizioni che nei secoli hanno provato ad accompagnare il lettore in una visita virtuale alla città; o una scansione figurativa, sostenuta dalle infinite inquadrature che hanno visto Roma, ma solo dal Cinquecento, dai quattro punti cardinali o dai mille angoli di osservazione forniti dai colli che la formano e da quelli che le fanno corona. Ma sarebbe una storia limitata agli ultimi secoli della città, quando si è concessa all’occhio analitico o artistico dei suoi descrittori, quindi incapace di accompagnarci in una visita che aspirerebbe a distendersi nell’arco di tre millenni.
Una Roma, dunque, e insieme tante Rome: è questa l’ovvia normalità che ci sembra di dover cogliere innegabilmente. Perché nessun profilo è oggi in grado di distinguere le tante città che si sono succedute: sempre di Roma si tratta. Un profilo non basta, ma troppi non servono. Perché Roma non è una singola città, ma non è neppure una città plurale: Roma potremmo definirla come una città duale.
Di quale utilità è un approccio stratigrafico alla storia urbana della Capitale?
Roma è stata traforata da una infinità di scavi archeologici, dagli sterri praticati per recuperare materiali da costruzione o opere d’arte alle raffinate indagini stratigrafiche di questi ultimi tempi, che hanno restituito le prove materiali della sua vita antica, medievale e moderna. Ma in questo caso non si tratta di approfondire questo o quello scavo, quanto piuttosto di considerare la città nel suo insieme come oggetto di indagine stratigrafica. Nei tanti secoli della sua vita il volto di Roma ebbe a modificarsi profondamente, innanzitutto nel lungo millennio che la portò a diventare da un villaggio di pastori la capitale del mondo conosciuto. Dalle prime catastrofiche vicende che la colpirono nel V secolo alla lenta ripresa della città rinascimentale a partire dal XV secolo un altro millennio trascorse, e altre grandi cesure attraversarono il corpo della città, che nel corso di quelle lunghe stagioni si contrasse fino a diventare la pallida eco della grande metropoli che era stata. Una storia planimetrica di Roma ce la presenterebbe come se i circoli prodotti da un sasso gettato nell’acqua, dopo essersi espansi, volessero ritornare al punto di partenza: un gioco che si è prodotto varie volte nel corso della storia, che tuttavia non risponde alla nostra domanda iniziale.
Nei capitoli del libro ho cercato dunque di seguire le vicende della città e della sua evoluzione osservando non tanto la sua superficie, quanto il suo volume, generato nei secoli da una incessante interazione fra quanto veniva prodotto dalla natura e dalle attività dell’uomo. È quindi attraverso una visione archeologica della formazione della stratificazione urbana, e quindi delle modalità di accrescimento del suolo, che questo volume prova ad inserire un’ottica finora mai tentata: quella della tridimensionalità. E cerca di proporre alla fine un tentativo di risposta originale alla domanda apparentemente senza senso sul numero di Rome che si sono succedute nel corso dei secoli.
Gli occhiali dell’archeologo non guardano dunque a questo o quello scavo che abbia messo a nudo la stratificazione della città dai tempi di Romolo ai nostri giorni (ce ne sono stati tanti nel corso del tempo), ma guardano alla città nel suo insieme come il prodotto di una serie continua di accumuli e di smottamenti, di modesti o giganteschi movimenti di terra per formare alture o per spianarle, di fosse piccole o grandi e dei loro riempimenti. In questa massa di terreno, che svolse un po’ il ruolo dei muscoli e della pelle del corpo della città, gli occhiali dell’archeologia cercano di districare il ruolo svolto dai muri, dalle grandi strutture architettoniche dell’antichità e dalle infinite case di abitazione, e dalle strade basolate o fangose, vero e proprio scheletro di un corpo in continua evoluzione. Nel corso dei secoli, ad una crescita in altezza, favorita dai sedimenti lasciati dalle alluvioni e dai continui crolli delle architetture fatiscenti, faceva riscontro un abbassamento delle quote dei colli cittadini, i cui pendii scivolavano a colmare le profonde valli sottostanti, avviluppando i muri diroccati, che si prestavano a fare da fondamenta a nuove costruzioni o ad assumere l’imprevisto ruolo di romantici ruderi. È questo il secolare processo che l’occhio dell’archeologia cerca di portare alla luce.
In quale città viviamo oggi quando percorriamo le vie del centro storico più vasto d’Italia?
Grazie a questa ottica è possibile mettere in campo un complicato e affascinante sistema di fonti scritte, conservate nelle biblioteche e negli archivi, e di fonti materiali, in particolare architettoniche (chiese, torri, ponti…), che ci aiutano a mettere in luce un momento epocale per la storia di Roma, quando il suolo della città – ridotta al tempo ad un piccolo agglomerato di nuclei sparsi nell’area già fittamente edificata – fu in molti luoghi sistematicamente rialzato di molti metri, quasi a suggellare qualcosa che aveva concluso il suo ciclo vitale e sul quale una nuova città avrebbe potuto prendere corpo.
Oggi possiamo forse dire che risale a circa 900 anni fa, ai primi critici decenni del XII secolo, il momento in cui Roma antica, dopo sette secoli di agonia, definitivamente ‘muore’, e una nuova Roma, quella in cui oggi ancora abitiamo, lentamente si ricostruisce pietra su pietra. Tutto ciò sembra dunque avvenire nel cuore stesso del Medioevo, un periodo millenario che, dal punto di vista della forma stratificata della città di Roma, ci appare quindi distinto in due epoche tra loro fisicamente separate, una più antica ed una più recente, metafora del nostro rapporto di moderni con il passato, fatto di continuità e rotture, di certezze e di ambiguità.
Personalmente ritengo dunque che Roma medievale conobbe una profonda cesura tra la fine dell’XI secolo e i primi decenni del XII, al tempo di quella che nei libri di scuola conosciamo come ‘lotta per le investiture’. È in quella fase storica di grande crisi (politica, istituzionale, militare…) della città che Roma antica viene definitivamente sommersa (per entrare nel mito) e una nuova Roma ‘rinasce’ sopra le sue rovine: è la Roma in cui tuttora viviamo.
Alla fine della nostra indagine possiamo forse intravedere, pur nella lunga storia della crescita incessante dei livelli urbani, quello che potremmo chiamare come qualcosa di più di un “cambio di passo” prodottosi nella volumetria della città: qualcosa che ci permette forse di leggere una dualità di Roma dislocata al di sotto e al di sopra di una linea di cesura difficilissima da disegnare, eppure quotidianamente presente nella percezione della città che noi, abitanti del Duemila, viviamo ogni qualvolta ne percorriamo le strade e i marciapiedi.
Nel centro storico di Roma noi camminiamo insomma sopra superfici stradali che nascondono sotto di sé la città antica e quella dei primi secoli del Medioevo e si affacciano invece su un’edilizia abitativa e monumentale, che ancora conserva la sua ossatura tardomedievale sotto la trama continua delle trasformazioni, sopraelevazioni, manomissioni e rifacimenti degli intonaci delle facciate.
In che modo passato e presente convivono nella città contemporanea?
Se individuiamo una cerniera nella vita millenaria di Roma, una “morte” e una “rinascita”, possiamo aprirci a riflessioni nuove sul tema antico del rapporto fra passato e presente nella città contemporanea. Come in ciascuno di noi, in ogni città stratificata passato e presente convivono. La distanza fra queste due dimensioni a volte è annullata da un cortocircuito, che sembra richiamare in vita un passato defunto. È accaduto, ad esempio, quando la Roma del tardo Ottocento per costruire il nuovo volto di Capitale, si espanse a macchia d’olio là dove la Roma antica sepolta era stata abbandonata dalla città medievale addensatasi sulle sponde del Tevere. Sotto la terra delle vigne e degli orti la Roma dell’Ottocento entrava di nuovo in contatto diretto con la Roma dei Cesari.
Ma la storia delle città, anche quando segnata da profonde cesure, prosegue imperterrita nei suoi luoghi che accolgono, antichi e nuovi a un tempo, le diverse forme di questa continuità, che è fatta di larghe persistenze e di trasformazioni profonde, sul piano sia materiale che ideale. Roma medievale è cresciuta infatti con le pietre, i mattoni, le colonne e le statue della Roma antica, riusate sia come elementi edilizi sia per produrre la calce necessaria alle nuove costruzioni. La città fu di fatto per secoli una cava a cielo aperto. Mentre una nuova Roma si alimentava dei resti dell’antica, le sue rovine ancora emergenti, a volte mastodontiche, furono motivo identitario per una popolazione che non aveva perso la memoria dei tempi in cui Roma era la padrona del mondo. La trasformazione di quella memoria in mito fu anzi una delle componenti, e non la minore, della sua stessa ‘rinascita’. Ma la immersione di Roma antica nel ‘mito’ implicava – come dicevo – la sua stessa ‘morte’.
L’archeologia cerca il senso del nostro presente nelle tracce materiali dei tanti diversi passati che si sono succeduti nei luoghi in cui ancora viviamo. Conoscerli significa cercare di interpretare quel che è accaduto, e quindi – nei nostri limiti – di capirlo: è una condizione necessaria per agire consapevolmente nel presente e concorrere alla progettazione del futuro. Per questo diciamo che il mestiere dell’archeologo interviene su ciò che è stato per guardare con sguardo più chiaro e profondo a ciò che sarà.
Daniele Manacorda ha insegnato Archeologia negli atenei di Siena e Roma Tre. Si è occupato di storia urbana (Crypta Balbi. Archeologia e storia di un paesaggio urbano, Mondadori Electa, 2001; Paesaggi di Roma medievale, Viella, 2021), di archeologia della produzione e cultura materiale (Dizionario di archeologia, con R. Francovich, Laterza, 2000), del ruolo dell’archeologia nella società contemporanea (Il mestiere dell’archeologo, Edipuglia, 2020; I libri degli altri, Edipuglia, 2021) e di politiche del patrimonio culturale (L’Italia agli italiani, Edipuglia, 2014; Posgarù, Edipuglia, 2022).