
Per comodità espositiva e didattica distinguiamo grosso modo tre diverse fasi costituzionali ciascuna caratterizzata appunto da un preciso assetto istituzionale. E, pertanto, una fase monarchica incentrata sulla figura del rex; una repubblicana che nella sua età più matura vedeva un equilibrio nelle dinamiche politico-istituzionali tra magistrati, senato e assemblee popolari; una terza segnata dall’affermarsi di un nuovo centro politico rappresentato dal princeps, da cui principato o impero. Se vogliamo, potremmo individuare anche una quarta fase, da taluni definita dell’impero assoluto, ma che in realtà non è altro che un’evoluzione, o un’involuzione, del principato, questione richiamata dall’ultima domanda e su cui ritornerò alla fine.
Quali erano le istituzioni della Roma arcaica?
Le istituzioni arcaiche, superata una primordiale e assai fluida fase di strutture claniche federate, vedevano una carica monocratica di vertice, il rex privo di carattere dinastico che si poneva come il capo militare, civile e religioso della comunità. La genesi della città dalla chiara matrice federativa di gruppi piccoli o più o meno ampi condusse ad affiancare al rex un consilium regis, cioè il senato, gli anziani, i saggi, chiamati sempre patres; mentre su un piano diverso e con un ruolo inizialmente di partecipazione passiva, e ciononostante istituzionalmente rilevante, si collocava la prima forma di assemblea popolare denominata ‘comizio curiato’, da curia, sede di riunione dell’elemento maschile della popolazione atto alle armi. Tra le istituzioni arcaiche devono però annoverarsi anche i collegi sacerdotali, alcuni dei quali di assoluto rilievo per gli effetti sulla sfera politica e civile: gli augures, fondamentali nel procedimento di investitura regale; i pontifices, custodi e selezionatori della memoria pubblica, ma soprattutto giuristi: un ceto di sapienti detentori della scientia iuris, peculiarità dell’esperienza romana e del tutto sconosciuto dalle altre civiltà antiche; i fetiales, sacerdoti essenziali nelle relazioni internazionali e detentori di un ancestrale rituali attraverso cui si formalizzava la dichiarazione di guerra di Roma a una comunità nemica tale da ottenere la protezione divina perché bellum iustum.
Come si sviluppò e concluse l’esperienza regia a Roma?
La chiave di lettura è tutta interna al carattere della monarchia romana e alle politiche prodotte. Pur appartenendo alle esperienze della regalità antica, il re romano presentava un aspetto che lo rendeva un unicum nel quadro del Mediterraneo antico. La sua investitura avveniva mediante una complessa procedura, chiamata interregnum, in cui protagonisti erano i patres (cioè i senatori quali capi politici dei gruppi minori dalla cui federazione sorse Roma), la casta sacerdotale attraverso gli augures e il popolo, sia pure in funzione di assistenza passiva. Insomma, il re romano, almeno per molto tempo, fu espressione degli equilibri politici, della cultura e degli assetti istituzionali romani. Con gli Etruschi tutto cambiò e sappiamo come finì.
Giocò, poi, un ruolo fondamentale il mantenimento del carattere originario di Roma peculiare della genesi di città aperta, esito di un plurisecolare fenomeno di sinecismi, di incontri e scontri, di fusioni e di assorbimenti di villaggi e comunità. Questo carattere fu coltivato con determinazione dai sovrani romani protagonisti di politiche di accoglienza e di integrazione, leve assai funzionali alla crescita e all’irrobustimento della civitas nel panorama del Lazio arcaico, facendone una potenza regionale tale da attrarre presto l’attenzione etrusca.
L’esperienza monarchica si chiuse, checché ne dica la propaganda patrizia, con una classica congiura, una ‘manovra’ di palazzo maturata addirittura all’interno della dinastia dei Tarquini, come è dimostrato dall’identità di un componente della prima coppia consolare, Lucio Tarquinio Collatino. La cacciata avvenne dietro una reazione dei tradizionali ambienti aristocratici patrizi che mal tollerarono il rapporto diretto rex-populus, secondo il modello dei tiranni greci filopopolari che scavalcava, rendendolo marginale, l’elemento aristocratico. I dinasti etruschi, non a caso descritti come tiranni, avevano profondamente mutato il volto di Roma, non solo attraverso numerose riforme (si pensi alla tattica oplitica e all’ordinamento centuriato) ma anche incentivando cambiamenti nella compagine sociale con l’integrazione, anche a livello istituzionale, dei nuovi gruppi giunti a seguito dell’attrazione di Roma nell’orbita etrusca.
Come si sono evoluti il potere e le prerogative del Senato dalle origini all’età tardoantica?
Nonostante abbia attraversato 15 secoli lungo i quali si dipanò la storia giuridica di Roma ovviamente con fasi alterne circa il proprio peso specifico politico-istituzionale, il senato costituì sempre un’istituzione centrale dalle origini sino all’età tardoantica. Certo, come accade in ogni tempo e a qualunque latitudine, quando la politica è debole, fragile e si frantuma, entrano in scena altri protagonisti, le dinamiche sono diverse e così dinanzi all’irrompere dei ‘signori della guerra’, degli eserciti, come nell’ultimo secolo repubblicano o a seguito dell’uccisione di Alessandro Severo, il senato sbiadì fortemente. Ma in generale può dirsi che il senato rimase un’istituzione politica essenziale e permanente della storia di Roma. Una delle ragioni di ciò risiedette certamente nel carattere della singola carica senatoria: una volta nominati senatori, lo si restava a vita. Ciò fece sempre del senato il vero organo rappresentativo delle classi dirigenti, luogo della mediazione politica e strumento di continuità delle politiche di governo, rispetto ai magistrati dalla breve durata annuale e persino degli stessi re o imperatori che, nella loro essenza di cariche monocratiche di vertice, restavano particolarmente esposti, diciamo così, alle ‘insidie’ della politica e del potere (congiure, attentati, destituzioni, ecc.).
Quali erano le principali magistrature repubblicane?
Innanzitutto, i consoli, capi della nuova democrazia militare: in quanto tali detenevano l’imperium, cioè il potere militare supremo, ma erano anche reggitori civili della res publica. Dal 367 a.C. appare la figura del praetor urbanus, magistratura eminentemente tecnica a cui era assegnata la iuris dictio ovvero l’amministrazione della giustizia. Poi seguivano figure minori con competenze specifiche, come gli edili (curuli e plebei) incaricati di curare l’approvvigionamento della città, con compiti di sorveglianza e giurisdizione sui mercati, i quaestores con compiti amministrativi-finanziari, ecc. Discorso a parte va fatto per i censori e i tribuni della plebe. Dalla funzione principale, ed essenziale per la vita della repubblica, dei primi, cioè il censimento, dipendeva l’inquadramento dei cittadini nell’ordinamento centuriato e tributo; inoltre, erano i censori a scegliere i senatori e a esercitare un controllo sulla moralità pubblica da cui potevano discendere conseguenze politiche assai rilevanti. Tutto ciò faceva dei censori una magistratura particolarmente prestigiosa, sotto certi aspetti persino più del consolato. I tribuni della plebe, invece, nacquero come magistratura rivoluzionaria, fondata su un giuramento sacro collettivo (della plebe), per tutelare i plebei dall’arbitrio e dal prepotere dei magistrati patrizi. Essi, dotati di un potere di veto incontenibile (l’intercessio tribunizia) avverso qualunque magistratura, tuttavia, andarono sempre più perdendo il loro carattere extracostituzionale per inserirsi interamente nel quadro istituzionale repubblicano.
In che modo si sviluppò il principato?
Le origini del principato, come è noto, si ricollegano all’ascesa al potere di Ottaviano Augusto. Tuttavia, si continua a tramandare un’immagine distorta di Augusto, come eversore, distruttore violento della repubblica e instauratore di un regime autoritario quale il principato. La mia visione è invece assai diversa da questa che risente di una lettura ideologica, comprensibilmente condizionata da un grande classico della storiografia contemporanea: The Roman Revolution di Ronald Syme, scritto sotto la suggestione della nascita dei fascismi e dell’irruzione del nazismo in un’Europa presto precipitata nella tragedia della seconda guerra mondiale. Il parallelismo Augusto-Mussolini non regge alla prova dei documenti, soprattutto di quelli che negli ultimi 20 anni sono stati rinnovati. Considero Augusto l’erede sincero della teorica ciceroniana e del princeps repubblicano, da non intendere come una nuova istituzione dal forte stampo autoritario, ma al contrario aderente alla più autentica ideologia senatoria del ‘primo cittadino’. Un primato poggiante su virtù, meriti, saggezza, equilibrio, che sostanziavano in quel civis un carisma impareggiabile da renderlo così meritevole di guidare la res publica. Nessuna marcia su Roma, pertanto, ma un’abile azione politica lunga decenni che portò Augusto, coadiuvato dalla migliore intellettualità del tempo, al vertice del potere per 40 anni. Ma nessun atto di fede, per carità: invito alla lettura di quelle mie pagine con il più severo spirito critico.
Quale evoluzione subì nei secoli il potere dell’imperatore?
Quei connotati appena accennati, nei secoli successivi, andarono via via smarrendosi. Quando Diocleziano traghettò l’impero romano dalla crisi della cosiddetta anarchia militare – un cinquantennio circa di guerre civili per la successione al trono – la concezione dell’imperatore era profondamente mutata. Diocleziano plasmò la nuova fisionomia della carica imperiale che finì per assumere sempre più i caratteri delle monarchie orientali e di stampo ellenistico. Ciò si desume non solo dalla denominazione dell’imperatore ora dominus, ma soprattutto dal cerimoniale di corte: l’uso del diadema e della porpora ingioiellata, le vesti di seta e d’oro, la sottrazione della sua persona, sempre chiusa nel suo palazzo, al contatto pubblico, l’introduzione dell’adoratio (cioè la genuflessione e il bacio dell’orlo del mantello) per coloro che erano ammessi al suo cospetto, l’accentuazione degli elementi religiosi della sua figura, il consilium principis che in questa età si avvia a mutar pelle per preludere a un organo diverso persino nella sua denominazione (consistorium).
Eppure quel filo con l’antica, tradizione ideologia senatorio-repubblicana non si spezzò mai del tutto. Un interessante manoscritto adespota del X secolo contiene un trattato di scienza della politica redatto nel VI secolo d.C., cioè in piena età giustinianea. Svolto nella forma classica dialogica tra due personaggi, nel trattato si discute sulle migliori forme di governo e, nel mettere a confronto la Repubblica di Platone con la Repubblica di Cicerone, si opta per il modello di governo misto teorizzato da Cicerone: un basileus scelto tra i migliori aristocratici e affiancato da un gabinetto di dieci aristoi (senatori). Insomma, nelle stanze del potere di un impero ormai assoluto, a distanza di molti secoli, risuonava ancora la voce di Cicerone.