“Roberto Longhi. Nel vivo dell’arte del ‘900” di Mauro Pratesi

Prof. Mauro Pratesi, lei è autore del libro Roberto Longhi. Nel vivo dell’arte del ‘900 edito da Pisa University Press: quale importanza riveste, per la storia dell’Arte, la figura di Roberto Longhi?
Roberto Longhi. Nel vivo dell’arte del ‘900, Mauro PratesiRoberto Longhi si era formato nell’ambiente dell’Università torinese laureandosi con Pietro Toesca nel 1911, dissertando una tesi su Caravaggio, all’età di 21 anni, essendo nato, terzogenito, ad Alba (Cuneo) il 28 dicembre 1890 da una famiglia originaria del modenese, il padre era insegnante di lettere in un istituto professionale. Fin dall’inizio gli interessi di Longhi si orientarono verso la cultura francese e la cultura militante della rivista “La Voce” diretta da Giuseppe Prezzolini, al quale si era rivolto giovanissimo offrendosi come collaboratore (come ricordò nel 1961 nelle sue ben note Avvertenze per il lettore poste ad introduzione degli Scritti giovanili): «il mio temporaneo parteggiare a quegli anni per il futurismo (1913: ‘I pittori futuristi’; 1914 ‘La scultura di Boccioni’) era il portato delle stesse intenzioni? Perché non favoreggiare un movimento italiano che dopo un’interruzione di più di un secolo si legava al resto d’Europa?», e, ancora, a conferma delle sue scelte, sempre nelle Avvertenze, leggiamo: «Fuori dell’Università, spesso contro l’Università, erano i richiami de ‘La Voce’ e della ‘Critica’. Proprio su ‘La Voce’, e contro il decadentismo in essenza dannunziano del Bistolfi e del De Carolis, il Soffici, ai suoi trent’anni, riprendeva la battaglia del dimenticato Martelli nei generosi articoli sugli impressionisti francesi, mentre a Venezia, per merito del Pica, la Biennale allestiva nel 1910 le mostre di Courbet e di Renoir che furono per me una rivelazione essenziale».

Longhi, si può ritenere, a ragione, uno dei maggiori protagonisti degli studi storico-artistici nel nostro paese e figura eminente della cultura europea del Novecento per il ruolo di indiscusso rinnovatore sul piano delle ricerche specialistiche di storia dell’arte, ma anche per i temi più ampi e validi nel dibattito metodologico intorno alla natura e ai fini delle discipline umanistiche.

Per la copertina del libro ha scelto un’immagine dimessa di Longhi, mentre gioca a bocce con Francesco Messina e Carlo Carrà: quale ritratto del critico e storico dell’arte rievoca il libro?
Seppure, nel mio libro, non abbia affrontato un ritratto di Roberto Longhi da un punto di vista ‘fisico’ , ‘umano’ o ‘caratteriale’, posso affermare, attraverso le molte testimonianze scritte e orali (alcune di queste trasmessami direttamente dai suoi numerosi allievi che ho avuto la fortuna, o, il privilegio, nel corso degli anni, di frequentare e formarmi con alcuni di loro come Mina Gregori e Carlo Del Bravo col quale mi sono laureato, senza, ovviamente, dimenticare i ricordi vivi della moglie di Longhi: la grande scrittrice Anna Banti) che Longhi fosse, indubbiamente, molto ricercato sia nell’aspetto che nel vestire, una sorta di moderno ‘dandy’? Forse, come appare dai ricordi, tra i tanti, di Leonetta Cecchi Pieraccini riferiti all’estate del 1928, quando i coniugi Cecchi insieme ai Longhi affittarono per la stagione estiva villa Lubrano a Quercianella (Livorno): «Anche nel vestirsi [Longhi] è un eccentrico artista. Ora, per il mare (dove neanche si affaccia) ha inventato due serici blusoni di foggia russa: rosa fragola l’uno e celeste cielo l’altro, su calzoni color avorio» e, ancora, la Pieraccini ritraeva il Longhi: «Con quella fitta calotta di capelli nerissimi, le fattezze scolpite, il personale imponente, sembra un principe orientale in incognito». Longhi aveva sempre, più per vezzo che per vizio, tra le labbra l’immancabile sigaretta ovale Turmac, amava, inoltre, fare alcune imitazioni proverbiali come quella di Sam Jaffe, il capo-gangster ‘scientifico’ del ‘cult’ Giungla d’asfalto, sempre la Leonetta Cecchi Pieraccini a ricordare che: «Longhi possiede uno spirito imitativo da maestro di varietà. Le sue caricature di persone viventi sono dei capolavori d’interpretazione e procurano oltre al divertimento, il rammarico di non assistere a quelle che ci riguardano»; imitazioni che Longhi continuò a sfoggiare nel corso della sua vita come quando negli anni sessanta amava canticchiare, regolarmente, ariette di Mina imitandone i gesti e le movenze. Si può affermare che Longhi fosse infuso, come lo ricorda un suo allievo Alvar González-Palacios, di una grazia demoniaca, amava parlare, ma sapeva anche ascoltare, poteva essere al contempo amabile e accogliente, ma anche duro e capriccioso e trasformarsi in duro e distante, per questo la scelta della fotografia della copertina, meno ufficiale, mi pare appropriata con quella smorfia arguta e sorniona che rivela, a mio vedere, tutto il senso acuto e beffardo di Longhi come una sorta di ‘Pinocchio’ geniale e unico del panorama della cultura e critica d’arte mondiale.

Come si articolò il percorso critico di Roberto Longhi?
Dai genialissimi esordi giovanili, anteriori alla prima guerra mondiale, che lo videro partecipe alle vicende futuriste, come abbiamo visto, alle pubblicazioni, dal 1914, su “L’Arte” diretta da Adolfo Venturi (di cui era allievo prediletto a Roma presso la scuola di perfezionamento in storia dell’arte) il quale gli aveva affidato, con ampia libertà d’azione, la rubrica bibliografica della rivista, come ricorderà, successivamente, lo stesso Longhi l’incarico affidatogli dal vecchio maestro si dimostrò di estrema importanza per la sua formazione: “quei miei [lunghi] viaggi a tavolino” e, proprio, su “L’Arte”, sempre nel 1914, pubblicherà il suo primo ampio saggio storico che ebbe una grande risonanza: Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana. A questa data (1914) Longhi insegna, in via sperimentale, storia dell’arte, a Roma, nei licei Tasso e Visconti e per i suoi allievi redige una dispensa dal titolo: Breve ma veridica storia della pittura italiana, pubblicata postuma nel 1980, che, almeno credo, sarà la sua traccia indelebile nel corso del tempo, con ripensamenti e aggiustamenti, ma il suo pensiero rimarrà fedele a questa linea ben tracciata. Sempre per “L’Arte” pubblicherà i suoi primi contributi, fondamentali, sui caravaggeschi: Battistello nel 1915 e, nel 1916, Gentileschi padre e figlia, nel frattempo presta servizio militare e soggiorna spesso a Milano dove intrattiene molti rapporti, in particolare, si legherà d’amicizia e stima con Raffaello Giolli, il quale, lo inviterà a scrivere su le riviste da lui dirette “Pagine d’Arte” e “Vita d’Arte”. A guerra finita Longhi si rinnova e si riposiziona nel panorama della critica italiana e non solo, è lo stesso a ricordare: «insabbiatosi il futurismo, sorta la letteratura ‘metafisica’ del De Chirico, che, poco dopo, il movimento dei ‘Valori plastici’, cui non partecipai, tentava inutilmente di mettere d’accordo con la pittura di Morandi […][il] movimento era in sostanza uno dei ‘rappels à l’ordre’ di quegli anni che si dovevano concludere per noi con la cultura magari strenuamente arcaizzante, ma in essenza reazionaria, dell’imminente ‘Novecento’, risorse in me più forte l’esigenza personale di approfondire storicamente le zone più malintese dell’arte italiana». È in questo periodo (1918) che pubblica sul primo numero della “Rassegna Italiana”, ove figurava come redattore per la rubrica ‘Arte’, un lungo articolo, sorta di ricognizione vivace del panorama artistico-culturale del momento, che spaziava dall’ampio commento all’edificio Cinema-Teatro Corso in piazza Lucina a Roma di Marcello Piacentini, alla recensione dei ‘Balli Plastici’ di Depero, a valutazioni estetiche e sociali intorno all’attuale situazione artistica posizionandosi con il suo solito piglio polemico e, al contempo, propositivo; purtroppo, questi brillanti e ‘infuocati’ interventi furono ‘tagliati’ da Longhi nel 1961 quando ripubblicò nel I volume delle sue Opere Complete i suoi Scritti Giovanili (1912-1922); in questa occasione, infatti, l’autore ripubblicò solo la parte centrale del ricco contributo apparso nel 1918 quello dedicato agli Illustratori francesi, ma, ora, nel mio libro (Roberto Longhi. Nel vivo dell’arte del ‘900) ripropongo integralmente le parti tagliate, in due saggi, con ampiezza di argomentazioni e interpretazioni: Longhi 1918 e il caso De Pero; Longhi 1918 e uno scritto ‘dimenticato’ su Marcello Piacentini. In parallelo Longhi inizia nel 1919 una brillante collaborazione giornalistica col quotidiano romano “Il Tempo”, rivolta principalmente all’arte contemporanea, in questo contesto è memorabile la stroncatura alla mostra di de Chirico: Al dio ortopedico, ma altri contributi furono folgoranti come quello su Mario Cavaglieri, Emilo Notte, Albert Besnard, Bepi Fabiano, Romano Dazzi. Nel 1922 comincia ad esercitare la libera docenza presso l’università di Roma ove si stabilirà stabilmente fino al 1934.

Quali vicende ne segnarono la maturità critica?
La maturità critica di Roberto Longhi ha una data certa e ineluttabile 1927: esce il suo libro, forse tra i più noti, per le edizioni di ‘Valori Plastici’, Piero della Francesca. Il libro avrà una enorme eco e successo clamoroso, sia nel mondo degli storici dell’arte antica che nell’ambiente contemporaneo dei critici e degli artisti, possiamo affermare, a buon ragione, che il libro non passò inosservato da parte di nessuno tra i grandi artisti del momento basti ricordare le impressioni di Carrà (il quale, tra l’altro, scrisse una significativa e bella recensione del libro), Morandi o Casorati, tanto per citare solo alcuni dei più noti artisti, ma anche all’estero il libro ebbe una notevole influenza e fu tradotto in più lingue. Con questo libro, che riprendeva, ovviamente, alcuni fondamenti già espressi, oltre un decennio prima, nel Piero dei Franceschi Longhi supera il formalismo giovanile per assurgere ad una forma armoniosa e ricercata distaccandosi definitamente dall’idealismo crociano e privilegiando, anzi, sviluppando al massimo livello, e, col massimo risultato, l’arte dell’ ekphrasis; nello stesso anno scrisse, tra l’altro, l’importante saggio, subito recensito positivamente da Frederick Antal, su «San Tomaso» del Velázquez e le congiunture italo-spagnole tra Cinque e il Seicento. Questo è il momento di maggiore collaborazione con Emilio Cecchi col quale dirigerà la rivista “Vita artistica” e dove apparirà, a firma dei «Direttori» il famoso Introibo, ossia, la feroce stroncatura del libro di Lionello Venturi, Il gusto dei primitivi, Bologna, Zanichelli 1926, che, ovviamente, segnerà la rottura definitiva tra i due eminenti storici dell’arte. Sempre con Cecchi nel 1928 fonda il trimestrale “Pinacotheca”, ove, tra l’altro, vi pubblica il sostanziale Quesiti caravaggeschi. Non dimentichiamo che Longhi nel corso degli anni Venti, oltre a Cecchi, è in contatto con tutti i fondatori della rivista “La Ronda” tanto da essere definito da Gianfranco Contini: «un rondista onorario», pur non avendo mai scritto e pubblicato niente su la rivista, lo stesso Contini aveva ritenuto giusta (idealmente) la data del Piero non quella reale del ’27, ma quella del tempo de “La Ronda”. Nel 1933 in occasione della mostra della pittura ferrarese del Rinascimento Longhi prenderà lo spunto di sviluppare criticamente, nei confronti della mostra, alcune sue tesi che sfociarono, poi, nella pubblicazione Officina ferrarese (1934); tesi per altro già enunciate al tempo dell’ammissione alla scuola di specializzazione di Adolfo Venturi, come aveva ricordato egli stesso nelle Avvertenze: «[…] fui accolto dopo un ‘colloquio’ sul Tura, germe remoto della ‘Officina Ferrarese’». Il libro è da molti considerato il capolavoro della filologia longhiana e fu, proprio, grazie a questa pubblicazione che ottenne la cattedra di Storia dell’arte presso l’Università di Bologna; da questa data si stabilisce a Bologna e comincia i suoi, memorabili, corsi universitari, iniziati con la prolusione: Momenti della pittura bolognese,  nella quale terminava l’ excursus col famoso omaggio e riconoscimento a Morandi: «E finisco col non trovar non del tutto casuale che, ancor oggi, uno dei migliori pittori viventi d’Italia, Giorgio Morandi, pur navigando tra le secche più perigliose della pittura moderna, abbia, però saputo sempre orientare il suo viaggio con una lentezza meditata. Con un’affettuosa studiosità, da parer quelle di un nuovo “incamminato”». Molti furono gli allievi divenuti ‘famosi’ che si formarono o seguirono Longhi in questo periodo, da Francesco Arcangeli, Mina Gregori, Ezio Raimondi, Attilio Bertolucci, Giorgio Bassani, ma , fra tutti, fu Pier Paolo Pasolini a lasciarci uno dei ritratti più belli del ‘maestro’, laddove il poeta, scrittore, regista, intellettuale aveva scoperto in Longhi “la rivoluzione” nel “lessico” e “la completa novità”, insieme all’”ironia” che “non aveva precedenti”, e alla “sua curiosità” che “non aveva modelli”, con la “sua eloquenza” che “non aveva motivazioni”, infatti, per Pasolini le lezioni di Longhi si ponevano quale rimedio miracoloso «dal conformismo della società fascista», quale «cultura che il maestro rilevava e simboleggiava si poneva come alternativa all’intera realtà fino a quel momento conosciuta». Nel 1938 è con Ranuccio Bianchi Bandinelli e Carlo Ludovico Ragghianti direttore de “La critica d’arte”, ove, nel 1940 pubblicherà i Fatti di Masolino e di Masaccio che arditamente rivoluzioneranno il luogo comune del rapporto tra i due artisti laddove a un Masaccio ‘masolinesco’ si sostituisce un Masolino ‘masaccesco’, nel frattempo dal 1939 Longhi comincia ad abitare la villa “Il Tasso” a Firenze in via Benedetto Fortini che sarà la sua abitazione definitiva fino alla morte avvenuta la sera del 3 giugno 1970. Passano gli anni della guerra, non meno fruttuosi degli altri, che tra l’altro lo avevano visto rifiutare di prestare servizio sotto la Repubblica sociale italiana (per questo venne sospeso dall’insegnamento), ma anche scrivere il bellissimo testo nel 1945 per la mostra di Morandi alla galleria “Il Fiore” di Firenze. Dopo essere stato rifiutato dalla facoltà di lettere di Roma, su perfido consiglio di Lionello Venturi, che gli preferì Mario Salmi, venne chiamato dalla facoltà di lettere di Firenze, dove resterà fino ai limiti di età; anche in questa sede moltissimi saranno gli allievi che si formeranno da, Luciano Bellosi, Giovanni Previtali, Evelina Borea, Giuliano Briganti, Carlo Del Bravo, fino all’ultimo Antonio Paolucci, e tanti altri. Nel 1951 organizza a Milano, a Palazzo Reale, la mostra più spettacolare e sorprendente del secondo dopoguerra, ossia, quella su Caravaggio e i caravaggeschi, che fu visitata, considerando i tempi, da oltre quattrocento mila persone, che si rivelò, da subito, una mostra epocale che non mancò di influenzare moltissimi artisti contemporanei, in primis Renato Guttuso, ma anche gli artisti non figurativi come ad esempio il caso del grande Alberto Burri, le cui vicende sono ampiamente analizzate e vagliate nel mio libro in particolare nei capitoli V, Burri, Caravaggio e altri temi dell’arte e della critica negli anni Cinquanta, e VI, Gli anni Cinquanta (e oltre) di Renato Guttuso, tra Berenson e Longhi. Nel 1950 Longhi fonda la rivista “Paragone”, mensile che pubblica alternativamente fascicoli sull’arte (numeri dispari) di colore arancio e sulla letteratura (numeri pari) di colore verde. La rivista rivestirà un ruolo fondamentale per gli studi di storia dell’arte che ancora si pubblica nello stesso formato ideato da Longhi.

A cinquant’anni dalla morte del grande maestro degli studi di storia dell’arte, qual è l’eredità di Roberto Longhi?
L’eredità di Longhi a tutt’oggi, a cinquant’anni dalla sua morte, è grandissima e stiamo assistendo ad un vero e proprio interesse ‘longhiano’ da parte dei giovani studiosi delle discipline storico artistiche. Le più belle parole e riflessioni, tra le molte di rilievo da quelle di Contini, Baldacci, Raimondi, Cecchi tanto per citare i primi e più famosi, si devono, almeno credo, all’estro di Alberto Arbasino che di Longhi fu, possiamo dirlo, un fedele seguace e sostenitore: «Longhi rimane un monumento talmente unico perché l’occhio e la lingua sono parimenti eccelsi; e perché dietro lo spasimo strenuo della sua ricerca ‘espressionistica’ vive una cognizione non del dolore ma del buonumore. Alla ricognizione visiva corrisponde, non meno appassionata e sofisticata, l’investigazione lessicale; la sorpresa (questa sì, anche continiana) del vocabolo inaspettato che esibito dal ‘mago’ risulterà il più pertinente; il virtuosismo della torsione e della scorciatoia nella composizione del fraseggio, con una proposta inesausta di «correlativi obbiettivi» alla Pittura in un ‘discorso’ che la sfida a competizione. Finalmente, dopo che il tono ‘alto’ ha finito con ironia di incappare in tentazioni meno illustri, ogni piega e panneggio si dispone con effetto elegantissimo». Migliori parole di queste di Arbasino, credo, non ci siano per mettere in luce il contributo rinnovatore di Longhi sul piano delle ricerche specialistiche di storia dell’arte, ma anche a riprendere con qualche utilità alcuni dei temi più validi nell’attuale dibattito metodologico sulla natura e sui fini delle discipline umanistiche. Ritengo, infine, che una conoscenza profonda del metodo critico di Longhi, quel suo particolare e unico modo di atteggiarsi criticamente, di partecipare e reagire alle tendenze letterarie, artistiche e critiche del ‘secolo breve’ (dal fervore del futurismo, alla critica della “pura visibilità” ai momenti degli anni venti e trenta, alla scuola romana fino a quelli della ricostruzione post-bellica col neorealismo e il neoastrattismo) può realmente e concretamente contribuire al difficile e complesso riesame del recente passato in cui la migliore cultura italiana è impegnata.

Mauro Pratesi dal 1992 è docente titolare, vincitore di concorso, della cattedra di Fenomenologia delle Arti Contemporanee presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Ha insegnato Storia dell’Arte Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze. Tra le sue pubblicazioni: L’arte del disegno nel Novecento italiano, (in collaborazione con Enrico Crispolti, Laterza, 1990); L’arte italiana del Novecento. La Toscana (in collaborazione con Giovanna Uzzani, Marsilio, 1991); Gio Ponti. Vita e percorso artistico di un protagonista del XX secolo (Pisa University Press, 2016); Roberto Longhi. Nel vivo dell’arte del ‘900 (Pisa University Press, 2020)

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