
Quale Italia lascia Napoleone?
«Non siamo più quelli di vent’anni fa», il conte milanese Federico Confalonieri vorrebbe dire a Lord Castlereagh, nel 1814-15 tra gli arbitri delle sorti della penisola al Congresso di Vienna. Confalonieri parla di «nazione» a proposito dei lombardi che temono il ritorno sotto la dominazione dell’Austria. Ma quanto dice potrebbe applicarsi a molte altre parti d’Italia. Negli anni del Consolato e dell’Impero, inserita nel sistema di Stati satelliti che fa capo a Parigi, la penisola è stata un laboratorio politico riconosciuto tanto dagli ammiratori e dai fedeli a Napoleone quanto, loro malgrado, da coloro che gli sono stati ostili: come il conte milanese, esponente di un’aristocrazia emarginata rispetto alla nuova nobiltà di servizio e ai notabili che hanno scalato i gradini della società grazie al merito sui campi di battaglia, nella scienza, nella pubblica amministrazione. Incubatore in progress di saperi in vari settori e di cultura politica – questa la metafora usata nel libro – l’Italia napoleonica offre un po’ a tutte le latitudini della sua nuova geografia compatta e omogenea per leggi e istituti (restano fuori solo le due isole, Sicilia e Sardegna, che ospitano rispettivamente i sovrani Borboni e Savoia in esilio) le opportunità e gli strumenti per modernizzarsi ed entrare nella contemporaneità. Indietro non si torna, e di questo sono più e meno consapevoli gli stessi sovrani che recuperano i troni italiani. L’abolizione dei vincoli feudali che bloccavano la mobilità della proprietà terriera, l’introduzione di una codificazione unitaria, la razionalizzazione dell’amministrazione e la promozione dell’istruzione superiore sono solo alcuni dei lasciti capaci, in un periodo breve ma intenso, di incidere nella mentalità di gruppi sociali che mal si adatteranno ai governi restaurati. In realtà, è questa una delle proposte interpretative del libro, più che di Restaurazione nel caso italiano sembra infatti opportuno parlare di età post-napoleonica, tanto incisivi sono stati gli anni napoleonici, pur con i loro errori e le resistenze incontrate (come le insorgenze antifrancesi, il contrabbando, la diserzione). Offrendo occasioni di ascesa e protagonismo sociale, coltivando e amalgamando competenze, abolendo confini e dogane interne, per la nascente e dinamica borghesia italiana il sistema ha offerto opportunità ora difficilmente rinunciabili. Insieme alle migliaia di ufficiali che hanno sperimentato la vita militare nei corpi italiani della Grande Armée napoleonica, essa andrà a nutrire nel mondo underground delle società segrete l’opposizione clandestina ai governi della penisola.
Napoleone, in breve, lascia un’Italia più consapevole delle proprie aspirazioni politiche, e più capace di valutare gli ambiti di manovra esistenti per realizzarle.
Chi sono i protagonisti di questo viaggio, visionari, cospiratori, vecchi e giovani con le loro donne, bambini e famiglie?
La parte terza del libro è fatta di capitoli tematici nei quali ho cercato di restituire la voce di chi c’era, di chi il Risorgimento lo ha vissuto sulla propria pelle, in presa diretta. Per questo nella scrittura ho optato per il presente storico, adatto a rendere il ritmo incalzante degli eventi e delle scelte di vita, a volte meditate ma spesso azzardate, che cambiano il corso di destini dei singoli e delle loro reti di familiari e di amici. Un esperimento che, grazie a fonti come lettere e diari, avevo già tentato nel volume del 2010 I piccoli cospiratori, dedicato ai primi mazziniani e, in un certo senso, al percorso d’ingresso nel Risorgimento in azione. Nelle categorie che ho tipizzato abbiamo i principali attori di una storia corale animata da avanguardie visionarie disponibili a tutto pur di cambiare il sistema, da cauti riformatori, da coloro che non vogliono cambiare nulla e inorridiscono al solo sentire la parola costituzione, dagli indifferenti, perché no, alla politica. Ci sono sempre stati. Tra i visionari, il posto principale spetta a Giuseppe Mazzini, dotato di un’incredibile sensibilità geopolitica da rivoluzionario e di un fortissimo carisma a distanza sui suoi seguaci, autore di un salto qualitativo nelle ragioni e nei modi per cospirare. Ma poiché ovviamente dietro a ogni protagonista maggiore o minore, persino ‘oscuro’, di questa storia c’è una rete degli affetti – della famiglia di origine e della famiglia che si è creata, degli amici – l’universo umano si allarga alle figure femminili nei loro diversi ruoli, su cui la storiografia recente ha molto lavorato, e alle famiglie, sulla cui vita le scelte politiche degli attivisti – a rischio di carcere e patibolo – impattano più pesantemente. Grazie a recenti ricerche, ad alcune delle quali ho preso direttamente parte, ho cercato di evidenziare anche i costi materiali, oltre a quelli emotivi, delle vicende dei patrioti. E ho voluto accennare al tema trascurato della condizione dei bambini, inconsapevoli, nelle cui vite le scelte dei padri ma a volte anche delle madri producono importanti ricadute. Il comune denominatore delle storie di impegno politico che attraversano il libro, tornando in diversi capitoli, è la condizione di esule, inteso come un profugo politico i cui traumi e le cui svolte identitarie restano di intensa attualità. Infine, il Risorgimento in azione ci offre intensi scontri generazionali tra la vecchia guardia della lotta politica e i giovani nati all’inizio dell’Ottocento, i ‘figli del secolo’ (Mazzini tra loro), che vogliono percorrere la propria strada senza interferenze, sbagliando da soli se necessario.
Quali le tappe più significative del viaggio verso l’Italia unita?
Nello scrivere di storia la cronologia è importante. Il libro, strumento per i giovani e i non addetti ai lavori, propone una precisa scansione delle tappe di avvicinamento all’obiettivo dell’unità e dell’indipendenza per la penisola. Sicuramente l’irruzione della politica collegata alla Rivoluzione francese e agli esiti della Campagna d’Italia, insieme agli anni napoleonici, rappresentano l’inizio del viaggio politico. Già in questa fase del percorso, illusioni e speranze si mescolano negli ambienti patriottici con amare delusioni e rancori, ma resta una tappa formativa destinata a incidere a lungo negli orizzonti mentali di molti. Il biennio 1820-21, inteso come stagione di rivoluzioni nel Mediterraneo che investe con effetto domino anche porzioni particolarmente sensibili della penisola italiana, contribuisce poi a internazionalizzare fortemente il viaggio, che conosce il flusso di partenze e arrivi scanditi dalle ondate di emigrazione politica e dalle occupazioni militari, a loro volta fattori di maturazione per gli ambienti liberali. Il contraccolpo nella penisola della rivoluzione parigina del 1830 produce un ulteriore salto di qualità, sul quale si innesta l’innovativo progetto mazziniano della Giovine Italia per un’Italia una e indipendente, in forma repubblicana. La prima metà degli anni Quaranta vede il coagularsi del “controprogetto” moderato, che pone le basi per una visione alternativa dell’obiettivo unitario in forma federale o confederale e con la conservazione della forma monarchica. Il lungo 1848 italiano (articolato in realtà su tre anni, dal 1847 al 1849) è la tappa dell’esplosione del Risorgimento di massa, nelle piazze e sulle barricate: al ritorno dei sovrani deposti, le esperienze repubblicane a Venezia e a Roma e, in particolare, il Piemonte costituzionale e la sua guerra perduta contro l’Austria sono le eredità più significative, insieme alle nuove esperienze di esilio che condizionano il proseguimento del viaggio. Una svolta importante nel percorso la imprime sicuramente a metà anni Cinquanta la guerra di Crimea, che muta sensibilmente l’assetto dello scacchiere europeo e dimostra la strategicità del Mediterraneo orientale. Come fattore umano, l’influenza dell’azione di Cavour ministro e presidente del Consiglio è fondamentale per intercettare e cavalcare le opportunità che si verificano sulla scena internazionale, così come quella di Garibaldi nel dare consistenza militare e numerica a una spedizione al Sud più volte accarezzata e fallita. Fondamentali infine il “triennio in cui accade (quasi) tutto”, il 1859-61 – cui dedico il penultimo capitolo, sottolineando i fattori di successo della proposta politica dei moderati filopiemontesi e la loro strategica capacità di network nella penisola – e le due ultime fermate, Venezia e Roma, che entrano rispettivamente nel 1866 e nel 1870 nel corpo dello Stato unitario grazie soprattutto a congiunture internazionali.
Quali diversi progetti e velleità si scontrano nel comune patrimonio di idealismo e volontarismo?
Un Risorgimento estremamente mobile e transnazionale, come quello che ho raccontato, è nutrito da tante idee, visioni, modelli, proposte, tutte a loro modo legittime ma non tutte realistiche o capaci di mobilitare energie. Il progetto di Mazzini è quello che intercetta soprattutto al Nord e al Centro della penisola la disponibilità dei giovani istruiti nati all’inizio dell’Ottocento, insofferenti per la mancanza di prospettive di crescita economico-sociale e imbevuti di letture romantiche: grazie alla parola di Mazzini essi scoprono la politica e il progetto per l’Italia, si mettono in gioco rischiando la vita. Non ci sono però solo le cospirazioni. Anche il richiamo delle armi esercita una forte attrattiva su giovani e meno giovani, come dimostra il fenomeno del volontariato nazionale e internazionale, più conosciuto nel caso delle spedizioni di Garibaldi ma notevole anche nel 1848. Contrari alla lotta clandestina, i moderati negli anni Quaranta propongono invece una via graduale di riforme nei diversi Stati della penisola capace di creare un’opinione pubblica nazionale promotrice di cambiamento incruento alla luce del sole, mentre altri si attendono dall’estero (ossia dalla Francia o da congiunture internazionali che estendano i domini dell’Austria nei Balcani meridionali, alleggerendone la pressione sulle sue province italiane) l’aiuto necessario per sbloccare lo stallo nella questione italiana. L’esperienza del 1848 dimostra invece che il confronto militare per espellere l’Austria dal Nord Italia è un passaggio ineludibile. Così negli anni Cinquanta, mentre entra in crisi il modello cospirativo e insurrezionale dei democratici, e il fallimento della spedizione di Pisacane conferma la difficoltà di un’azione insurrezionale nel Meridione, il piccolo Piemonte costituzionale, dotato di un esercito, sembrerà a molti l’unico attore in grado di traghettare l’Italia verso un regno unificato (la cui estensione è oggetto di diverse proposte). Intreccio di fattori esterni e interni, il destino della penisola sarà alla fine diverso da quello immaginato dai due maggiori visionari, Mazzini e Cavour: un’Italia monarchica a regìa moderata completata per aggregazioni successive di territori attraverso i plebisciti. Un’Italia sulla quale gli osservatori internazionali, nessuno disinteressato, non sono disposti a scommettere. Un’Italia che deve normalizzarsi e costruire la propria legittimazione in Europa.
Quali delusioni e rimpianti sopravvivono all’Unità realizzata?
Questa è la storia di quello che ho chiamato «il giorno dopo», ossia la sfida di smobilitare materialmente e mentalmente per uscire dal Risorgimento. Protagonista di un mio volume del 2015 dedicato all’anno 1869, il post-Risorgimento è l’epilogo del libro, nel quale accenno alle tensioni irrisolte e alle criticità interne alla società italiana nella prima fase di costruzione dello Stato. Le delusioni di chi aveva sperato in un esito diverso – magari repubblicano -, l’emarginazione di chi si è molto speso – come i garibaldini -, rivalità irrisolte tra componenti regionali del Paese e la violenza che chiama violenza nel Mezzogiorno sono tra le principali cause di divisioni che facilitano la retorica dell’emergenza e della stabilizzazione. Patrioti che hanno sperimentato il carcere e l’esilio faticano ora a trovare il proprio posto nella società e a riconoscersi in questa Italia. Altri si adeguano convinti al sistema e servono con impegno e lucidità, ma non senza contrasti interni, la politica dai banchi governativi della Destra storica o da quelli in cui si fa apprendistato all’opposizione, a Sinistra. La transizione non è indolore, come testimonia la vicenda stessa di Garibaldi e dei suoi nel 1862 ad Aspromonte e nel 1867 a Mentana. E, tuttavia, la scelta di fondo è stata compiuta tempo prima, con la svolta costituzionale e la ricerca di una modernizzazione all’insegna dell’ordine. Un viaggio dunque che andava fatto, e che mi auguro di avere restituito ai lettori nella sua dimensione privata e pubblica, nei molteplici punti di vista di chi, per compierlo o per ostacolarlo, vi ha speso energie, affetti, risorse materiali.
Arianna Arisi Rota è professore ordinario di Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Pavia. Si occupa di storia della diplomazia e di mobilitazione politica nell’Europa dell’Ottocento, in particolare di cospirazione e volontariato in armi, e di memoria e cultura materiale del Risorgimento. Tra i suoi libri, Il processo alla Giovine Italia in Lombardia, 1833-1835 (Milano 2003), I piccoli cospiratori. Politica ed emozioni nei primi mazziniani (Bologna 2010), 1869: il Risorgimento alla deriva. Affari e politica nel caso Lobbia (Bologna 2015).