
Il ministero ecclesiastico, le sue forme istituzionali, necessitano di una profonda riforma. Papa vescovi, parroci, presbiteri, diaconi non sono estranei al popolo di Dio. Ne fanno parte e sono a suo servizio. Il che vuol dire l’abbandono dell’idea bislacca di una distinzione ontologica tra i battezzati, discriminando laici e laiche. Vuol dire dismettere il clericalismo e tutto ciò che gli si accompagna, la presunzione d’essere diversi, ontologicamente diversi e perciò alla fine capi e non servi, padroni e non pastori…. Il che purtroppo porta anche al delirio d’onnipotenza, al sostituirsi a Dio sino a far violenza agli altri, quasi si fosse al di sopra di ogni legge.
Si aggiunga a ciò il fatto che l’istituzione ha metabolizzato nel tempo le forme radicali a lei antagoniste. Penso al monachesimo nelle sue prime forme, alle fraternità nel medioevo, alle congregazioni d’età moderna. Ne consegue, ad esempio, un clero celibatario per l’interiorizzazione del modello monastico o del modello legato alla vita religiosa. In seminario, a tutt’oggi, si fa vita comune: studio, pasti, preghiera, con ritmi che non sono secolari e che, usciti da quel guscio, i presbiteri faranno fatica a mantenere. In dichiarato contrasto, invece, la riproposizione del cursus honorum, ossia la concezione del ministero come acquisizione di “gradi” sempre maggiori. L’immagine di Chiesa diventa insomma quella della piramide, alla cui vetta ambire; tanto più che la mistica dell’uno, in progresso, restringe a chi sta al vertice – vescovo o papa – la pienezza del potere, per giunta inteso come potere sacro. Da qui l’impegno a far carriera sino ad arrivare il più in alto possibile. Un cancro questo che divora oggi la Chiesa e le impedisce d’essere “sacramento di salvezza, segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (“Lumen Gentium”, n. 1). Eppure l’antidoto alla gerarcologia, come la chiamava quel grandissimo ecclesiologo che è stato Congar, è la “sinodalità”, ossia la consapevolezza del dover, come popolo di Dio, camminare insieme così da realizzare nella storia quel regno nel quale servire è regnare (cfr. “Lumen Gentium”, n. 36).
Come si inserisce il ministero delle donne nella più generale istanza di riforma della Chiesa?
Ho già richiamato lo scimmiottamento della radicalità monastica. Alla radice del celibato c’è anche l’interesse dell’istituzione a mantenere i propri beni, senza che vengano intaccati da un eventuale asse ereditario. In tutte e due le prospettive le donne sono state demonizzate, anche qui interiorizzando la misoginia culturale dell’Occidente e la mistica dell’”uno”. La donna è “seconda”. Proprio per questo infligge una ferita alla pienezza dell’”uno”. Ha cittadinanza (nella Chiesa) solo facendosi maschio, ossia rinunciando all’esercizio della sua sessualità.
Ho scritto, ma lo provano saggi molto più tecnici dei miei, che non c’è continuità tra il lessico ministeriale del Nuovo Testamento e il cursus honorum successivo. Di più, termini che vengono assimilati, dando loro una valenza tecnica (sacramentale) sono tali solo al maschile, eppure li troviamo usati anche per le donne, valga per tutti il termine diakonos. La nostra cultura, almeno tendenzialmente, cerca di abbandonare i pregiudizi androcentrici e patriarcali. Almeno in teoria, uomini e donne hanno gli stessi doveri e gli stessi diritti. Non è così invece nella Chiesa. Già in età patristica la donna è stata iscritta nell’ambiguità del binomio “uguaglianza-subordinazione”. Uguaglianza nell’ordine della grazia; diseguaglianza nell’ordine della creazione (e dell’istituzione). E’ così che le donne sono state sì battezzate; magari hanno avuto ruoli autorevoli; sempre hanno esercitato la profezia, ma, fatta eccezione per i circoli ereticali, la grande Chiesa ha loro negato l’accesso al ministero vuoi a ragione dell’imbecillitas sexus, vuoi ratio servitutis e le due cose coincidono. Infatti l’incapacità della donna deriva dalla sua minorità. La donna è subordinata all’uomo; è sotto la sua tutela. Alla maniera degli schiavi non ha diritti civili. E più in generale è debole, appunto imbecille, incapace di autogestirsi sia a livello religioso che morale e giuridico.
Sfatare il pregiudizio, accettare la sfida della differenza, riconoscere le donne pienamente come soggetto cambierebbe la Chiesa nel senso che, quanto meno, la metterebbe alla pari con la cultura che, ripeto, almeno tendenzialmente, le donne le ha accolte o tende ad accoglierle a tutti i livelli. Una delle obiezioni che viene mossa è che la Chiesa non può allontanarsi dalla tradizione, ossia da ciò che ha sempre fatto su indicazione del suo fondatore. In realtà Gesù di Nazaret ha avuto rapporti significati con le donne e la prima comunità cristiana non le ha ghettizzate o escluse. Oltre che infondata, l’idea della traditio perpetuo serbata suggerisce un immobilismo che è estraneo al concetto stesso di tradizione. Infatti, come ci insegna “Dei Verbum” al n. 8, la tradizione cresce, si sviluppa. Credo sinceramente che l’esclusione delle donne dal ministero sia solo una estrema e residua difesa di un patriarcato che ha nella Chiesa cattolica l’ultimo baluardo. Dico, ovviamente, in Occidente…
La riforma della Chiesa ha bisogno delle donne e le donne, la presenza delle donne ( e dei laici) a tutti i livelli, è garanzia di quella sinodalità che dismessa l’ipoteca potente, come già affermavo, coglie la Chiesa come comunità in cammino, come comunità peregrinante, sotto il segno della storia e del limite, bisognosa essa stessa di perdono e misericordia.
Quale statuto e quali forme potrebbe assumere il ministero femminile nella Chiesa?
Sinceramente non saprei cosa dire, perché se dovessimo scimmiottare il delirio di onnipotenza maschile, se dovessimo far sue le forme deprecate di clericalismo, avremmo ottenuto ben poco. Penso che il ministero tutto debba essere ripensato e che si debba dare più valore ai battezzati e alle battezzate e non appropriarsi dei loro carismi o ignorarli, ma, al contrario, riconoscerli, promuoverli, valorizzarli. Insomma, penso comunità a misura di uomini e di donne, affidate a persone capaci, indipendentemente dal fatto che siano maschi o femmine, celibi o sposati. Naturalmente la questione è quella di disegnare diversamente le comunità. Oggi abbiamo da una parte parrocchie asfittiche e dall’altra rigogliosi movimenti. Questi ultimi, però, malgrado lo sviluppo planetario, non danno garanzie di continuità e spesso diventano ghetti, perdono cioè il connotato essenziale delle parrocchie che, invece, accolgono tutti indistintamente, non selezionando per scelte di vita, professione, carismi o quant’altro. E, d’altra parte, le parrocchie costituiscono le diocesi, e anch’esse sono profondamente in crisi. Abbiamo vescovi manager più che pastori; ovvero brave persone ma prive dell’episcopé, ossia di quel carisma di governo che garantisce l’unità e l’armonia dei soggetti ecclesiali. A fare la differenza è la profezia, ossia la capacità progettuale di discernere i segni dei tempi e orientare di conseguenza le comunità.
Là dove le donne hanno diretto parrocchie o hanno assunto ruoli di responsabilità diocesana pare che le cose siano andate meglio. Ma sinceramente, spesso, vedo solo voglia d’occupare spazi. Se vogliamo, è quello che è successo in politica. Non è che le donne abbiano cambiato qualcosa quando hanno raggiunto il potere. Sin quando il ministero sarà concepito come “potestas sacra” nulla cambierà, lo esercitino gli uomini o vi accedano le donne…
Ritiene che Papa Francesco possa farsi interprete di tale storica riforma?
Non so se papa Francesco voglia o possa mettere in atto questi cambiamenti. Se, ad es., voglia chiudere i seminari; rompere la trafila attuale della nomina dei vescovi; liberare la curia romana e le curie in genere da quello che il suo predecessore – che non ne ha fatto niente – chiamava lo “spreco sacramentale”. Non so se voglia davvero promuovere l’autonomia delle Chiese da Roma, istituire nuovi e permanenti strumenti che lo affianchino nell’esercizio del suo ministero. Non so se voglia sopprimere il collegio cardinalizio e lasciare che siano i presidenti pro tempore delle conferenze episcopali a costituire il collegio elettivo del successore di Pietro… Però indubbiamente ha incrinato il modello. Le sue azioni sono controcorrente così come i suoi appelli al perdono, alla misericordia, all’accoglienza, al dialogo. Si vede che gli sta stretta la concezione monarchica del papato. Non perde occasione per dire che lui non è un principe rinascimentale… So che corre sub secreto un progetto di riforma della curia romana. Però, se la riforma si ferma lì, cambia ben poco, perché sarà facile tornare indietro. Se invece la riforma veramente disegna una Chiesa sinodale, nella quale i soggetti ecclesiali, ai diversi livelli, vengono posti nelle condizioni di discernere e operare insieme, allora il discorso cambia.
Personalmente, vorrei tanto che prestasse ascolto alle donne e ne accettasse la riflessione, senza dire, come qualche volta ha detto, che bisogna ancora studiare. Certo, non si finisce mai d’approfondire, ma sono ormai più di cinquant’anni che le donne producono teologia e di soluzioni ne hanno elaborate tante, anche sul fronte delicato della ricostruzione biblica-storico-liturgica-dogmatica del ministero. Peccato che tanto patrimonio sia stato ignorato a proposito del dibattito sul ripristino del diaconato femminile!
Se mi si consente, direi che papa Francesco deve aprire il cantiere “ministero”. Se lo farà, tutto sarà conseguenziale: dalla messa in discussione del celibato all’ammissione delle donne al ministero. Ma se non si scioglie il nodo della potestas, se non ci si confronta, ma davvero, sull’unico ministero che il NT conosce, la diakonia, e di come, nell’arco di duemila anni di cristianesimo, lo si sia snaturato per aderire alle forme di potere sociologicamente e culturalmente dominanti, niente potrà cambiare.
E tuttavia mi apro alla speranza. In “Evangelii Gaudium”, al n. 236, papa Francesco ha opposto alla piramide e alla sfera, l’immagine del poliedro. Si riferiva alle Chiese, al rapporto delle Chiese tra loro. La metafora può disegnare, all’interno delle Chiese, anche il rapporto dei credenti tra loro. Il disegno riformatore punta cioè alla pluralità, alla diversità, alla multiculturalità, al decentramento. Le diverse realtà, come le facce del poliedro rifrangono ciascuna a suo modo la luce, rendendo visibile ciò che le rende uniche, belle, molteplici. Insomma, un disegno di Chiesa decentrata, multi-culturata, sinodale, solidale, veramente a servizio delle membra tutte e del mondo. Una Chiesa non presuntuosamente chiusa in se stessa, arroccata nella difesa della sua verità, ma in dialogo, aperta al mondo, capace di misericordia e di perdono, consapevole d’avanzare verso Cristo che torna, compartendo ogni attesa, ogni dolore, ogni gioia, ogni speranza. Basterà? Non so. Lo spero. Nel mio libro ho provato a smuovere le acque. Mi piacerebbe che la provocazione venisse raccolta, tanto più che a porre il problema del ministero, del ripensare il ministero come necessità e sfida per la Chiesa, non sono davvero la sola.
Cettina Militello Ph.D., ST.D., laica, ha insegnato teologia sin dal 1975. Dirige l’Istituto Costanza Scelfo per i problemi dei laici e delle donne nella Chiesa (Dipartimento della SIRT) e la Cattedra “Donna e Cristianesimo” (Facoltà Teologica Marianum). Tra i suoi interessi: l’ecclesiologia, la mariologia, la questione femminile. Ha curato, con S. Noceti, Le donne e la riforma della Chiesa, EDB, Bologna 2017. Ha pubblicato per la San Paolo: Vi è stato detto, ma io vi dico. Una rilettura dei 10 comandamenti (2018); Maria con occhi di donna. Nuovi Saggi (2019).