
Quale raffronto permette l’analisi su Francia, Italia, Germania e Austria?
Il raffronto tra due Paesi germanofoni e due neo-latini, in questi ultimi due peraltro le élites tradizionali ebbero uno spazio maggiore, permette di osservare che nonostante forti similitudini nelle persecuzioni, se nell’ambito della sfera lavorativa il comportamento dei governi fascisti sembrò ovunque radicale, in quello della sottrazione dei beni in Francia e in Italia si conobbero in linea generale sia tempi più dilatati, sia una azione depredatoria meno verticale rispetto a quella esercitata parallelamente nell’Ostmark e in Germania. Dal paragone affiora che in questi ultimi due Paesi contò moltissimo la percezione dello spazio germanofono da parte dei nazisti quale “ariano”, ciò che portò a risolvere con maggiore immediatezza e verticalità alcune delle questioni comuni a tutte le entità statuali prese in considerazione. In particolare, la vicenda delle più ridotte deportazioni di omosessuali nei campi di concentramento nazisti (Konzentrationslager, KL), avvenute in Francia, e la nulla (?) deportazione di omosessuali dall’Italia se raffrontata agli esempi tedesco e austriaco rende la questione in tutta la sua complessità. E lo stesso ragionamento vale se ad essere presi in considerazione sono i cosiddetti «zingari». Se da tutti e quattro i Paesi presi in considerazione costoro vennero deportati nei KL, nei VL (Vernichtungslager, ovvero campi di sterminio nazisti), a quanto se ne sa, finirono soprattutto persone provenienti dai territori germanofoni; pochi originavano dalla Francia e nulla allo stato dell’arte sembra essere l’afflusso di zingari italiani nei VL:
«Dei circa 21.000 zingari deportati, di cui 10.849 erano donne e 10.094 uomini, la gran parte, 13.108, e cioè oltre il 60%, erano tedeschi e austriaci: questi ultimi, nel numero di 2900, costituivano il 13,8%. Il 21% (4380) provenivano dalla Boemia e dalla Moravia e il 6%, cioè 1273, dalla Polonia. Il 5% erano apolidi, mentre il 3% era originariamente dislocato in altri Paesi: 145 erano i francesi, 139 gli olandesi, 121 i belgi e 126 gli jugoslavi di ceppo croato o sloveno. Poi c’erano 34 ungheresi, 27 russi, 22 lituani, 20 norvegesi, 2 spagnoli ed almeno 2 rumeni. Solo la nazionalità di 532 deportati non appare ad oggi nota» (Giovanna D’Amico, Riparare i danni. I perseguitati dai fascismi in Austria, Francia, Germania, Italia, Le Monnier, Firenze, 2023, p. 142).
E il riferimento è agli zingari deportati ad Auschwitz-Birkenau. Dal raffronto emerge altresì l’urgenza di approfondire l’analisi attorno al comportamento delle élites tradizionali e il loro ruolo nel temperare o contribuire alla approvazione dei provvedimenti persecutori messi in atto dai regimi fascisti.
In che modo i 4 Paesi analizzati riabilitarono i perseguitati?
Possiamo assumere come paradigmatica dell’azione condotta dai governanti d’Italia e di Francia nel Secondo dopoguerra nei confronti dei perseguitati dai fascismi l’analisi a suo tempo svolta da Claire Andrieu secondo la quale in un primo tempo nel territorio francese si puntò a restituire materialmente il lavoro e i beni alle vittime dei fascismi, mentre in un secondo tempo e, segnatamente, dagli anni Ottanta in avanti l’impegno fu maggiormente quello di versare gli indennizzi ai diretti interessati, oppure – se non più in vita – agli eredi. Infatti, Anne Grynberg si è chiesta recentemente se non possa risultare dannoso “inchiodare” gli ex perseguitati nello status perenne di «vittime» e se non sia quindi il caso di tracciare una linea più recisa tra il passato, il presente e il futuro. Ovviamente, reintegrazioni materiali e indennizzi intercorsero da subito, intrecciandosi, in entrambi i Paesi, ma il massiccio ritorno di ebrei e perseguitati politici in Italia e Francia dai luoghi di emigrazione o di esilio dalla fine del Secondo conflitto mondiale, e il minor numero di deportazioni di ebrei nei VL in rapporto a quelle incorse negli esempi tedesco e austriaco, rendono con immediatezza i termini del problema. Come ha già correttamente osservato Claire Andrieu, esserci fisicamente permetteva anche di poter usufruire a tutto tondo della “materialità” delle restituzioni. Diversamente, come è stato sottolineato dalla storiografia internazionale, dall’Austria e dalla Germania il numero degli ebrei rientrati fu del tutto residuale. Le comunità ebraiche internazionali, secondo la ricostruzione di Michael Brenner, avevano fatto pressioni sugli emigrati per incitarli a non tornare nella terra in cui Hitler era nato e aveva piantato le proprie radici e dove la Shoah aveva conosciuto le proprie origini e epicentro.
È per questo che al di là delle intenzioni e dei provvedimenti normativi emanati dai due Paesi germanofoni, dove, parimenti – come detto – l’ottica fu reintegrativa, in Austria e in BRD si finì da subito con l’indennizzare piuttosto che col restituire materialmente i beni e il lavoro. Ciò venne fatto nella misura del possibile, ma spesso furono gli stessi ex perseguitati a preferire i risarcimenti alle restituzioni. In Austria, a complicare la questione sussisteva però il problema di non potere percepire gli indennizzi se non si aveva la cittadinanza austriaca, questione che venne risolta solo da una legge del 1993, che permetteva di conservare anche quella nel frattempo acquisita nella diaspora. Da allora si sarebbe potuta avere, infatti, la doppia cittadinanza.
A partire dagli anni Ottanta emerse all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni la questione delle «vittime dimenticate»: come si articolò, nei loro confronti, il processo di riabilitazione?
Nei confronti delle «vittime dimenticate» mancò a lungo il riconoscimento che si trattasse di «vittime del nazismo», come nel caso degli omosessuali, verso i quali la sensibilità si accrebbe solamente a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Si trattava in questo caso di un retaggio culturale, che affondava le sue radici nella convinzione che le persecuzioni cui erano stati assoggettati non fossero dovute anche alla specificità di alcuni comportamenti adottati dai fascismi d’Europa, ma a punizioni dovute alla loro situazione, nell’ambito legislativo esistente, e che prescindevano perciò dalle contingenze specifiche in cui si erano prodotte. In altri casi, come, ad esempio, nel comportamento adottato verso gli «zingari» già nell’immediato post-guerra e per iniziativa degli Alleati essi vennero riconosciuti quali «vittime del nazismo», ma si tardò invece a connotare come razziste le loro persecuzioni che venivano per lo più fatte risalire alle loro attitudini di vita e, più in generale, alla presunta «asocialità» che le caratterizzava. La qualità razzista delle persecuzioni subite veniva riconosciuta solamente a partire dalla loro tarda deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Unicamente a partire dagli anni Sessanta si iniziò a concettualizzare quanto fosse profondo il nesso tra le persecuzioni loro inflitte per motivi razziali e quelle irrogate per comportamenti non in linea con la Weltanschauung della società in cui vivevano. Altro fu il problema relativo a categorie quali i lavoratori civili reclutati «coattamente» per il Terzo Reich, categorizzati, come i militari dei Paesi nemici colà imprigionati, quali «vittime di guerra» e non del «nazismo». In tal caso, solo assai di recente si riconobbero a favore di alcune di queste categorie risarcimenti forfettari, che la Germania accettò però di retribuire in larga parte unicamente agli ex perseguitati razziali, ai deportati in KL e ai lavoratori civili dell’Est dell’Europa. Queste sarebbero state infatti le categorie di persone, il cui lavoro a suo tempo prestato non sarebbe stato retribuito congruamente e il cui lavoro non si era svolto sulla base di una libera decisione, ma di un reclutamento coercitivo, come peraltro anche la storiografia negli anni Ottanta aveva cominciato a certificare.
Giovanna D’Amico è Professore Associato di Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Messina. Tra le sue pubblicazioni, I siciliani deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti 1943-1945 (Sellerio, 2006), Quando l’eccezione diventa norma. La reintegrazione degli ebrei nell’Italia post-fascista (Bollati, 2006) e Sulla strada per il Reich. Fossoli, marzo-luglio 1944 (Mursia, 2015)