
di Gianmarco Ottaviano
EGEA
«Siamo partiti da due domande sul futuro dell’economia globale. Che cosa ne sarà della globalizzazione? Ci sarà un riassetto delle relazioni internazionali che riuscirà a portare più benefici e meno costi per la popolazione mondiale rispetto alla globalizzazione multilaterale sviluppatasi a partire dalla Seconda guerra mondiale? Affrontando queste domande dal punto di vista dell’Occidente, le abbiamo ricondotte a un «dilemma faustiano»: è prudente che società democratiche, le cui economie sono fondate sul capitalismo di mercato, mantengano normali relazioni economiche con società autocratiche, le cui economie sono invece fondate sul capitalismo di Stato, quando queste società autocratiche diventano tanto più aggressive economicamente e politicamente quanto più si arricchiscono proprio grazie a quelle relazioni?
Dall’inizio del secolo l’economia globale è entrata in acque molto agitate: attentato alle Torri gemelle, guerre in Afghanistan e Iraq, crisi della finanza americana e del debito pubblico europeo, primavera araba e guerra in Siria, guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, conflitto militare tra Russia e Ucraina, cambiamento climatico, pressioni migratorie, emergenze alimentari, disuguaglianze, minacce nucleari e pandemie. Questi eventi e le reazioni da essi scatenate hanno messo in evidenza la diversità dei punti di vista nazionali e la difficoltà a convergere su iniziative comuni. Da un lato, la globalizzazione ha creato un grande mercato integrato in cui poter sfruttare al meglio i vantaggi comparati dei vari Paesi e le economie di scala dei processi produttivi. Dall’altro, ha unito i destini di nazioni con storie, culture, istituzioni, tradizioni e sensibilità in alcuni casi molto diversi tra loro.
Finché le acque sono state relativamente calme, i benefici economici della globalizzazione hanno contribuito a mettere in secondo piano le tensioni politiche dovute alle diverse preferenze nazionali. Da quando le acque si sono agitate, tali tensioni hanno cominciato ad affiorare con crescente prepotenza, sfogandosi in due direzioni principali. All’interno dei Paesi si sono affermate nuove tendenze nazionalistiche, nella convinzione che, quando le nazioni non riescono a concordare linee di azioni comuni, la soluzione è che ognuna vada per conto suo, rispondendo in primo luogo o soltanto alle istanze dei propri cittadini. Ci si è però resi conto rapidamente di come l’approccio nazionalistico non fosse in grado di gestire l’accumularsi di emergenze intrinsecamente globali come quelle sopra elencate. Ecco allora la seconda direzione di sfogo delle tensioni politiche, quella che abbiamo sotto gli occhi in questo momento: Paesi che, avendo capito di non potercela fare da soli, cercano di selezionare le proprie alleanze in base ad affinità elettive di natura economica e politica. Di fronte ai limiti del nazionalismo, cercano cioè una «riglobalizzazione selettiva»: globalizzazione sì, ma solo tra amici fidati.
L’idea sottostante è che un Paese possa garantirsi un futuro radioso solo se in pieno controllo della propria sicurezza nazionale anche sotto il profilo economico. […] Un limite di questa idea richiama quello del nazionalismo nella misura in cui non è chiaro come un gruppo di Paesi per quanto amici possa risolvere da solo problemi di natura globale. Inoltre, le affinità elettive che definiscono i confini dell’amicizia tra Paesi sono di difficile individuazione e spesso volubili. […]
Poniamo però che, per una qualche favorevole congiuntura astrale, la riglobalizzazione selettiva in corso possa essere sostenibile dal punto di vista delle affinità elettive e che le tendenze in atto trovino conferma, portando i Paesi a dividersi in due principali sfere di influenza, americana e cinese, in competizione tra loro per l’egemonia planetaria. Ci ritroveremmo un mondo più sicuro di quello in cui attualmente viviamo?
C’è da dubitarne. Da un punto di vista politico, si tratterebbe di una riedizione aggiornata della «matta» dottrina della «distruzione reciprocamente assicurata», in un’era però in cui la potenza devastatrice delle armi di distruzione di massa e il numero di Paesi che le possono usare sono cresciuti fortemente rispetto a quando Stati Uniti e Unione Sovietica si confrontavano nel secolo scorso. Nel momento in cui un Paese pensasse di essere in grado di annientare i propri avversari al primo colpo, la distruzione cesserebbe di essere reciprocamente assicurata e non potrebbe quindi offrire sicurezza a nessuno. Da un punto di vista economico, l’«angelo della discordia» ha diviso i fattori produttivi tra i Paesi in modo ineguale, concentrandoli in alcune zone del pianeta. Come si è discusso, questo vale, per esempio, non solo nel caso dei combustibili fossili, ma anche in quello dei minerali necessari alla transizione verde. Per i Paesi in cui tali minerali sono scarsi, la tentazione di sottrarli con la forza agli altri resta una minaccia costante alla sicurezza di tutti.
Solo l’approccio multilaterale nato dalle ceneri della Seconda guerra mondiale può cementare la sicurezza di tutti i Paesi nella fiducia e nel rispetto reciproci, riflettendone le esigenze in modo inclusivo.»
Gianmarco Ottaviano è Professore Ordinario di Economia Politica nell’Università Bocconi di Milano dopo esserlo stato presso la London School of Economics e l’Università di Bologna