“Ricerche sulle tecniche di scrittura delle «Istituzioni» di Gaio” di Pierfrancesco Arces

Prof. Pierfrancesco Arces, Lei è autore del libro Ricerche sulle tecniche di scrittura delle «Istituzioni» di Gaio edito da LED Edizioni Universitarie: innanzitutto, cosa sappiamo del giurista Gaio?
Ricerche sulle tecniche di scrittura delle «Istituzioni» di Gaio, Pierfrancesco ArcesDi Gaio sappiamo pochissimo. La sua biografia è circondata dal mistero. Lo stesso nome del giurista, che è una delle poche informazioni sicure in nostro possesso, non cessa di suscitare discussioni. Un autore nostro contemporaneo, in apertura di un recente saggio dedicato proprio a tale questione, condensa le poche certezze sull’identità di Gaio nell’ironica osservazione per cui, avendo operato grosso modo in età antonina – e cioè nella seconda metà del II secolo d.C. – egli deve essere sia nato che morto.

Tante, forse troppe, sono state le ipotesi formulate sull’identità di Gaio. Almeno a far data dal 1816 – e ancor di più tra la metà del XIX e del XX secolo – gli studiosi, divisi tra l’attribuire a Gaio origini romane o provinciali (e conseguenti viaggi, rispettivamente, in provincia o a Roma), hanno di volta in volta ipotizzato che egli fosse uno schiavo imperiale di origini siriane, giudaiche o egizie, talora sospettando che si trattasse di una donna, o proponendo di identificarlo con Lelio Felice (giurista suo contemporaneo, del quale sappiamo pochissimo) o con Pomponio (altro importante giurista dell’età antonina, sul quale pure si hanno notizie incerte). Dai suoi scritti lascia intendere di avere la cittadinanza romana. Studia diritto chiamando «suoi maestri» Masurio Sabino e Gaio Cassio Longino, giuristi della scuola cassiana, poi detta anche sabiniana, una delle due sectae «rivali» in cui si divisero i prudentes – l’altra era quella proculiana – sin dagli inizi del Principato. Sabino e Cassio, tuttavia, vissero quasi un secolo prima di Gaio: è quindi evidente che la sua formazione sia avvenuta presso altri maestri di diritto nell’àmbito della tradizione di quella scuola, nella quale fu a sua volta maestro di diritto.

I suoi contemporanei sembrano ignorarlo: i riferimenti ad un Gaius presenti nel Digesto di Giustiniano sono generalmente riferiti a Gaio Cassio Longino, e l’unico, labile, asserito riferimento al Gaio giurista del II secolo in un frammento superstite di un’opera di Pomponio, suscita sempre più dubbi tra gli studiosi: anche in questo caso, il riferimento sembrerebbe al giurista del I secolo.

Va anche detto che studi relativamente recenti tendono a sfumare il convincimento della pressoché totale ignoranza di Gaio tra i suoi contemporanei e nell’età immediatamente successiva, ipotizzando un consapevole «uso tacito» dei suoi scritti nelle opere dei giuristi del III secolo, a partire da Giulio Paolo e Domizio Ulpiano.

Gaio gode, tuttavia, di una clamorosa fortuna postuma, già nella tarda antichità, anche grazie alle sue Istituzioni.

Quali questioni pongono la genesi, la forma e la modalità di realizzazione delle Istituzioni?
Si tratta di aspetti molto dibattuti. Gaio non ha avuto l’accortezza di fornire indicazioni espresse in proposito, a differenza di altri autori antichi. Un dato è comunque certo: le Istituzioni hanno una evidente destinazione scolastica. Sulla base di questo presupposto, almeno a far data dal 1869, un indirizzo di studi – riconducibile alle analisi e alle intuizioni di Heinrich Dernburg, un importante giurista tedesco – negava all’opera del giurista antonino dignità letteraria, ritenendola piuttosto la collazione dei brogliacci delle lezioni tenute da Gaio; brogliacci stesi dal giurista prima dello svolgimento di queste ultime, ed eventualmente integrati da trascrizioni degli ascoltatori. Questo, secondo il Dernburg, sarebbe stato «il naturale ordine delle cose» nella prassi dell’insegnamento del diritto in età imperiale. Egli sosteneva, insomma, la genesi eminentemente orale del testo gaiano, riconducendolo a quell’ambiente scolastico del quale è evidente espressione: venivano così giustificate e lette come intenzionali l’incompletezza della trattazione, l’esposizione dei medesimi argomenti in luoghi diversi, il differente livello di approfondimento nell’illustrazione degli istituti e il tono colloquiale dell’esposizione. Il Dernburg riconosceva comunque, nel testo gaiano, il tratto dell’«autorialità»: della riconducibilità, cioè, al progetto coerente e definito di un unico autore. Proprio in questa prospettiva, egli escludeva, per le Istituzioni, la natura di «dispense» derivanti dalla circolazione degli appunti presi in maniera incompleta dagli studenti, o di una pubblicazione postuma, realizzata sulle carte superstiti e in assenza della volontà dell’autore. Le Istituzioni, dunque, sarebbero state pubblicate a cura del medesimo Gaio, il quale avrebbe innovato più con la decisione di diffondere per iscritto il proprio insegnamento – così da raggiungere una platea più vasta di quella degli studenti frequentanti le lezioni – che con i contenuti dell’insegnamento medesimo: contenuti che venivano ricondotti alla menzionata tradizione di scuola, a cui anche Gaio apparteneva, esercitando in essa la sua routine di insegnamento.

L’«innovatività» del manuale è un altro tema importante e discusso. Per quanto ci risulta, le Istituzioni di Gaio sono il primo esempio di questo genere letterario giurisprudenziale: lo afferma, tra gli altri, Tony Honoré, nel suo Gaius. A Biography, del 1962, dopo aver riconosciuto che si tratta di un lavoro scritto nella piena maturità del giurista. Va tuttavia tenuta presente la piena consapevolezza della verosimile derivazione parziale delle Istituzioni da un nucleo anteriore, riconducibile alla circolazione di testi ad evidente destinazione didattica all’interno della più volte menzionata tradizione di scuola.

Le linee tracciate da Heinrich Dernburg, dunque, continuano a mantenere una persistente funzione di indirizzo, pur nell’estrema varietà e natura degli studi successivi. Da questo punto di vista, non credo di aver esagerato sostenendo, nel mio libro, che vi era in esse qualcosa di profetico.

Dicevo che alle Istituzioni non veniva riconosciuta dignità letteraria. Da più di sessant’anni, tuttavia, è in corso una profonda rivalutazione delle trattazioni tecnico-specialistiche dell’antichità, e del più ristretto insieme delle opere didattico-didascaliche destinate ad allievi di scuola o a neofiti della materia. Le Istituzioni di Gaio rientrano a pieno titolo in questa categoria, e si caratterizzano per l’emersione di evidenti indici strutturali riconducibili al genere di appartenenza, intrecciati ad ampie sezioni testuali in cui il giurista lascia spazio ad un’autonoma elaborazione della scrittura: all’antico riconoscimento dell’autorialità del testo, pertanto, si aggiunge il riconoscimento della sua dignità letteraria. In questa prospettiva, recentissimi orientamenti di studio affermano la necessità di separare il contesto scolastico in senso letterale dall’organizzazione della materia nella sua trasposizione per iscritto. Si tratta di un evidente superamento – che ritengo sotto certi aspetti discutibile – delle idee del Dernburg sulla natura e sulla modalità di realizzazione delle Istituzioni.

A quale ambiente erano destinate le Istituzioni?
Come dicevo, le Istituzioni di Gaio erano evidentemente destinate ad un ambiente scolastico, di avvio agli studi giuridici, ed ebbero una clamorosa fortuna postuma: basti pensare che il codice palinsesto contenente la versione pressoché integrale dell’opera, rinvenuto nel 1816 dal diplomatico e studioso tedesco Barthold Georg Niebhur nella Biblioteca Capitolare di Verona risale al V o VI secolo. Si tratta, dunque, di un manoscritto più vicino all’età di Giustiniano (se non proprio coincidente con essa) che a quella di Gaio.

Gli stessi commissari giustinianei, peraltro, comporranno il nuovo manuale istituzionale, da destinare agli studenti del primo anno di studi giuridici, avendo come particolare riferimento le Istituzioni di Gaio e le Res Cottidianae, un’altra opera del giurista antonino.

Cosa rivela la lettura del manuale gaiano circa le tecniche di composizione del testo?
Due capitoli del mio libro sono dedicati alla lettura di sezioni molto note, e di diversa ampiezza, del manuale gaiano: si tratta, rispettivamente, della sequenza espositiva dedicata all’illustrazione, anche in una prospettiva storica, del rapporto tra domini e servi, e dell’intera trattazione dei quattro generi di legato. Come è ben noto a qualunque studente del primo anno di giurisprudenza, il legato è – nell’antica Roma così come ancora oggi – una disposizione testamentaria con cui si dispongono lasciti aventi ad oggetto singoli beni o diritti. Si tratta di un importantissimo strumento di articolazione della volontà del testatore.

La lettura delle menzionate sequenze testuali mi ha portato ad individuare alcune delle tecniche di scrittura e delle «strategie comunicative» concretamente usate da Gaio: ho rinvenuto annotazioni esprimenti propositi – poi non mantenuti – di ulteriore scrittura, curiosi inserti testuali di aggiornamento realizzati mediante una singolare tecnica di «interpolazione aggiuntiva» della disciplina di volta in volta illustrata, calati nel bel mezzo di un discorso coerente ed unitario, che viene per così dire «smembrato», o inseriti anche a discapito dell’efficacia stessa della comunicazione (emblematica, in questo senso, l’illustrazione delle innovazioni introdotte dal senatoconsulto Neroniano – un provvedimento normativo del senato, della seconda metà del I secolo d.C., che introduceva un primo temperamento al rigore formale sino ad allora previsto per la disposizione dei legati – e delle pregresse e conseguenti dispute giurisprudenziali). Si tratta di una serie di testi che suggeriscono l’idea di una mancata revisione finale del testo pubblicato (l’idea era già ripetuta da Heinrich Dernburg, che sul punto richiamava letteratura precedente), e alimentano il convincimento – sostenuto, tra gli altri, da Fritz Schulz – di una stesura tutt’altro che definitiva delle Institutiones alla morte di Gaio.

Seguendo un’altra illuminante osservazione del Dernburg, ho inoltre individuato passi organizzati secondo uno schema espositivo «di antitesi», che ritorna con una certa frequenza nella prosa gaiana, non solo delle Istituzioni. Ho peraltro rilevato che questa modalità espositiva non è estranea alla scrittura di Ulpiano. Più precisamente, lo schema espositivo antitetico ricorre nel commento ulpianeo a Sabino: e ciò mi porta ad ipotizzare la riferibilità di questa peculiare organizzazione del testo ad una tradizione di ascendenza sabiniana, chiaramente usata anche da Gaio per amplificare l’efficacia didattica della sua esposizione. A mio avviso sempre in questa prospettiva, diverse sequenze testuali delle Istituzioni seguono un andamento ispirato ad una serrata giustapposizione di determinati aspetti degli istituti presi in esame.

La trattazione di ciascun genere di legato, inoltre, esordisce con la puntuale esposizione del relativo formulario, con un’attenzione che persiste anche in un’altra sezione del manuale istituzionale, dedicata alle differenze tra legati e fedecommessi (il fedecommesso è, come noto, un altro importante istituto del diritto ereditario: diversissimo dai legati in quanto ad origini, forma ed effetti, verrà a questi ultimi equiparato sotto ogni profilo da Giustiniano, all’esito di un lunghissimo sviluppo storico). La reiterata attenzione di Gaio alla correttezza delle formule di disposizione dei legati mi sembra il calco residuo di un’organizzazione della corrispondente parte della didattica impostata a partire da formulari «professionali», ampiamente usati nell’antichità.

In conclusione, credo che la lettura dei passi delle Istituzioni prima ricordati permetta di tenere conto della rivalutazione della letteratura didattico-didascalica dell’antichità (in atto, come dicevo, ormai da più di sessant’anni). Ritengo, tuttavia, che consenta anche di proporre un recupero di intuizioni e linee di ricerca meno recenti, liberate dall’oltranzismo metodologico che ne ha pesantemente compromesso la considerazione negli ultimi decenni. In questo senso, ulteriori prospettive di ricerca dovrebbero mirare al raggiungimento di un equilibrio tra questi due opposti poli. La destinazione alle esigenze dell’insegnamento, infatti, rimane un’importante chiave per la comprensione della forma e della modalità di realizzazione delle Istituzioni. La concreta pratica didattica e la scuola, nella cui tradizione Gaio si riconosce, rappresentano un contesto inscindibile nel quale collocare l’opera: lo ammette persino chi invoca la menzionata separazione tra il contesto scolastico in senso letterale e l’organizzazione della materia nella sua trasposizione per iscritto.

La stessa tradizione di scuola, che è stata chiamata «esoterica», è meritevole di approfondimenti: a partire dall’indagine sulla materialità dei supporti scrittori sui quali i testi venivano vergati e poi annotati, emendati ed aggiornati, e che circolavano normalmente tra gli insegnanti, i quali avevano così – come ha avuto modo di osservare uno studioso contemporaneo – il modo più facile ed economico per procurarsi i materiali per le lezioni. È in questo ambito, infatti, che Gaio manifesta la sua «autorialità» sviluppando contenuti propri, e non avendo comunque particolari scrupoli nell’appropriarsi di brani o concetti di suoi predecessori, anche senza citarli, rielaborandoli in piena autonomia, ed uniformandosi così ad una prassi di scrittura ben nota nell’antichità.

Pierfrancesco Arces, professore associato di Diritto Romano e Diritti dell’Antichità presso il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università del Piemonte Orientale. Oltre che delle Ricerche sulle tecniche di scrittura delle «Istituzioni» di Gaio (Milano, 2020) è autore degli Studi sul disporre mortis causa. Dall’età decemvirale al diritto classico (Milano, 2013) e di diversi contributi sul diritto privato romano e sulle tecniche di scrittura della giurisprudenza classica.

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