di Guglielmo Cavallo
Le Monnier, 1967
Il perfezionamento del canone
«Intorno alla metà del secolo IV, ma tuttavia entro limiti piuttosto larghi (330-370 ca.), possono assegnarsi, con scarsa probabilità di errore, gli esempi di maiuscola biblica più armoniosamente e spontaneamente calligrafici. Va precisato che il perfezionamento del canone non è da porre in successione cronologica dopo i testimoni fin qui esaminati, in quanto l’affinarsi delle forme, conseguente a ragioni tecniche (uso della pergamena) e storiche (affermazione del cristianesimo con i suoi riflessi culturali) resta limitato solo a determinati manoscritti, sicché codici come il Vaticano e il Sinaitico certamente coesistevano accanto ad esemplari molto meno curati, anche se, è ovvio, quest’impulso calligrafico poteva riflettersi talvolta su manoscritti di autori classici e papiracei.
Prima di trattare singolarmente dei testimoni che documentano il canone in tutta la sua perfezione, mi sembra opportuno chiarire ulteriormente i motivi che fanno della maiuscola biblica la scrittura calligrafica greca per eccellenza, determinandone, in varia misura, la raffinata elaborazione, il più largo uso e la resistenza nel tempo.
Già Hans Gerstinger notava che l’affermarsi, all’inizio del IV secolo, della pergamena come materia scrittoria accanto al più fragile papiro non rimase senza influsso su tale tipo di scrittura proprio in questo periodo particolarmente vitale.
Non vi è dubbio che, mentre canonizzazioni come la «onciale bacchilidea» o l’«onciale romana» con la fine del II secolo decadono in conseguenza di nuovi fattori tecnici e di gusto intervenuti nella storia della scrittura, la maiuscola biblica, che li interpreta e li realizza, raggiunge proprio tra il III e il IV secolo l’acme del suo fiorire. Eseguita secondo un nuovo angolo di scrittura, che permette tratti contrastati secondo un gusto che diviene imperante nella scrittura calligrafica dei testi di lusso dal IV secolo in poi, essa trova nella pergamena un ulteriore elemento per il suo perfezionarsi. Questa materia scrittoria infatti, come nota ancora il Gerstinger, per la sua levigatezza e resistenza, stimolò non poco gli scribi ad una più raffinata elaborazione delle forme. Ma oltre i mutati fattori tecnici e il gusto dei calligrafi del tempo, non è dubbio che alla così larga diffusione di questa scrittura, come all’ulteriore ricercatezza della medesima, contribuì la nuova forza spirituale che si affermava definitivamente proprio nel IV secolo: la Chiesa. In questo periodo il cristianesimo, passando dalla fase del proselitismo e dell’occulta propaganda a quella dell’organizzazione, aveva bisogno di diffondere largamente i testi della nuova dottrina e in edizioni, per così dire, che potessero non solo competere con i manoscritti classici ma anche superarli nell’accuratezza dell’esecuzione e nella sontuosità della veste, soprattutto se destinati a particolari usi liturgici o a determinate solennità. E mentre la Chiesa latina, non potendosi servire della capitale, ormai relegata in poche scuole di indirizzo profano, accoglie e utilizza largamente, fin quasi a farla propria, una scrittura artificiosa quale l’onciale per soddisfare questa esigenza di monumentalità, la Chiesa greca trova ancora, tra il III e il IV secolo, largamente adoperata una canonizzazione quale la maiuscola biblica, le cui forme solenni, armoniosamente contrastate, ben si prestavano a diventare l’espressione grafica della nuova dottrina in manoscritti accurati e di lusso.
Una volta assunta dalla cultura cristiana, è chiaro che la maiuscola biblica non solo era destinata a diffondersi insieme con il culto ma, in conseguenza della forza conservatrice della Chiesa, a restare in vita ancora per alcuni secoli, anche se in forme sempre più artificiose ed esasperate.
Chiarita questa problematica di fondo, sono da esaminare finalmente i manoscritti che costituiscono l’espressione più alta del perfezionamento del canone: i codici Vaticano e Sinaitico, ambedue contenenti il Vecchio ed il Nuovo Testamento.
Il Vat. Gr. 1209, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana fin dal secolo XV, è scritto su tre colonne per foglio (due nei libri profetici del Vecchio Testamento); le pagine contenenti Gen. 1,1 – 46,28, Ps. 105,27 – 137,6 e la parte finale (il manoscritto si interrompe infatti alla p. 1518 con Hebr. 9, 14) recante la fine dell’Epistola agli Ebrei e l’Apocalissi, sono una restaurazione del sec. XV; mancano poi del tutto la lettera a Filemone e le lettere pastorali, forse presenti nel manoscritto originario. Il lavoro di trascrizione pare sia da attribuire a due mani, ma difficilmente il problema può trovare una sicura soluzione in quanto l’intero testo è stato ritoccato, in inchiostro più scuro, da una mano forse del X o XI secolo e solo lettere o parole rifiutate come interpolate o scorrette sono rimaste nello stato originario. Non mancano poi emendazioni e annotazioni di mani diverse che si sono succedute nel corso dei secoli.
Per quanto concerne la scrittura, il canone è osservato fin nei particolari, P e Y scendono decisamente al di sotto del rigo di base, armonioso risulta il chiaroscuro e costante l’inclinazione e lo spessore dei tratti obliqui discendenti. Se si eccettuano I, P, Y, Φ, Ψ, Ⲱ, le lettere risultano tutte inscrivibili in un modulo quadrato; le aste discendenti oltre il rigo di base di P, Y, Φ, Ψ mostrano un leggero ripiegamento terminale verso sinistra o un taglio obliquo da destra a sinistra: questo elemento, già allo stato di tendenza e sporadico nel P. Beatty IV, si trova più caratterizzato nel Vaticano e poi nel Sinaitico, segno probabile di datazione più avanzata, tanto più se si pensa che nel codice Sarraviano, certamente seriore, risulta più marcato e costante. L’attenta osservazione della scrittura rivela inoltre un elemento nuovo rispetto ai manoscritti precedentemente esaminati e che tanta fortuna incontrerà in seguito: la tendenza a riguadagnare in alcuni tratti quei coronamenti che il canone aveva escluso. La semplicità strutturale dei singoli segni viene infatti, dal IV secolo in poi, progressivamente abbandonata con l’accentuare le parti terminali delle linee tracciate orizzontalmente, le quali, rigorosamente filiformi secondo il canone, potevano facilmente sfuggire all’attenzione di chi leggeva quando non fossero poste in evidenza da altri elementi (come nel Π); dapprima quindi – come nel Vaticano — per eliminare errori e sviste, poi per artificiosa ricercatezza, si ispessiscono — sempre più col diminuire del rigore del canone – le estremità delle linee orizzontali. Questo ispessimento finirà con l’estendersi perfino alle terminazioni dei tratti obliqui ascendenti e delle curve di Ⲉ e C, ma nel Vaticano è limitato, leggerissimo, al Ⲅ al T e talvolta al tratto mediano di Ⲉ. L’esecuzione scrittoria è abbastanza rapida e disinvolta né ostenta la rigorosa disciplina del canone: la mano è talmente esercitata che riesce a realizzarlo con facilità. La lievissima inclinazione a destra delle lettere, anche se non di tutte, denota appunto tale scioltezza. La scrittura del Vaticano quindi, come del resto di tutti i manoscritti che documentano la fase della perfezione, nasce dall’armonioso equilibrio tra accuratezza e spontaneità nella realizzazione del canone.
Difficile proporre una data approssimativamente precisa. La cura con cui il codice è vergato conferisce alla scrittura una calligraficità particolare, sicché ipotesi desunte dall’esame paleografico — il quale va riferito alle caratteristiche del canone nel corso del suo svolgimento più che fondato sul confronto diretto con singoli pezzi eseguiti più liberamente – sono da proporre con una certa cautela. D’altra parte, anche il confronto con un manoscritto dello stesso livello grafico e databile con maggior approssimazione, il Sinaitico, si può fare sempre in maniera piuttosto generica, mancando non dico la certezza, ma almeno la buona probabilità di una provenienza dallo stesso ambiente scrittorio. Nei limiti enunciati, tuttavia, si può affermare che le forme del Vaticano sembrano un po’ più tarde di quelle esemplificate dal P. Lit. Lond. 33 o dal P. Beatty IV, mentre il tratteggio delicato e spontaneo indica una data difficilmente posteriore al 360 ca. L’antichità del manoscritto sembra confortata inoltre dall’assenza delle sezioni eusebiane, come di altre capitolazioni che di regola si ritrovano nei codici posteriori; manca poi, nella prima mano, un sistema perfezionato per segnare le divisioni tra le varie pericopi. Un altro elemento cronologico potrebbe essere fornito dalla scelta e dalla disposizione dei libri che sembrano in relazione con Atanasio, vescovo di Alessandria non prima del 328 e fino al 373. Se così è, il manoscritto, per quanto antico, non può essere anteriore al 328.
L’esame paleografico, la probabile relazione con la personalità di Atanasio e altre caratteristiche del codice, consigliano per il Vat. Gr. 1209 una data intorno al 350 ca.
Ancor più difficile avanzare qualche ipotesi sul luogo di provenienza del manoscritto. Le caratteristiche della scrittura non mi sembra possano avviare alla soluzione del problema, perché, se è vera l’affinità grafica con papiri provenienti dall’Egitto, resta pur sempre valida l’obiezione fondamentale che manca una documentazione altrettanto ricca ma di diversa provenienza. Né mi sembra orientativa la presenza del M cosiddetto «copto» e dell’Ⲱ ancorato, forme l’una e l’altra generalmente riferite all’Egitto e adoperate nel Vaticano, come nel Sinaitico, o in fin di rigo per ridurre al minimo lo sconfinamento nel margine (trattandosi di codici di lusso) o nelle iscrizioni e soscrizioni per creare una certa diversità di scrittura rispetto al testo. La forma detta « copta» del M infatti rappresenta nient’altro che la calligrafizzazione di una forma corsiva certo molto comune in tutti i territori ellenistico-romani e difficilmente caratteristica del solo Egitto; quanto all’Ⲱ ancorato manca, è da ripetere, una documentazione adeguata che permetta di localizzare con una certa sicurezza tale forma. Anzi il Milne e lo Skeat elencano una lunga serie di manoscritti in cui è reperibile il caratteristico Ⲱ e dei quali alcuni non sono di origine egiziana con certezza quasi assoluta.
La tesi, attualmente prevalente, dell’origine egiziana del codice rimane fondata, di conseguenza, su altri argomenti, in particolare il tipo testuale «affine a papiri egiziani, a testi bilingui greco-copti e alle versioni copte, e a quello usato da Padri che operarono in Egitto», la quasi sicura relazione con Atanasio vescovo di Alessandria e le caratteristiche della lingua. In ogni caso non è possibile andare oltre discrete probabilità, mancando indizi più sicuri.
Un altro grande rappresentante della maiuscola biblica è il codice Sinaitico, scoperto nel Monastero di S. Caterina del Sinai da Kostantin von Tischendorf (che ne curò anche l’edizione) nel corso delle sue visite del 1844 (43 fogli del Vecchio Testamento, pubblicati nel 1846), del 1853 (solo un frammento della Genesi, edito nel 1857) e del 1859 (199 fogli del Vecchio Testamento e tutto il Nuovo con l’Epistola di Barnaba e il Pastore d’Erma, quest’ultimo mutilo, pubblicati nel 1862): la parte superstite consta, in totale, di 393 fogli e di qualche frammento conservato a Leningrado, mentre in origine il manoscritto doveva comprendere approssimativamente 730 fogli ca. e forse anche più.
Herbert John M. Milne e Theodore Cressy Skeat hanno mostrato in maniera convincente che il codice è stato scritto da tre mani, A, B, D, e non da quattro (A, B, C, D) come per primo aveva ritenuto il Tischendorf; il lavoro quindi appare così ripartito:
Scriba A: Numeri (frammento); 1 Cronache; 2 Esdra; Esther; 1 Maccabei; 4 Maccabei 8,7 – fine; Salmi 97,3 – fine; Proverbi; Ecclesiastico; Cantico dei cantici; Sapienza; Sirach; Giobbe. Inoltre il Nuovo Testamento (eccetto la parte scritta da D) e l’Epistola di Barnaba.
Scriba B: libri profetici del Vecchio Testamento e il Pastore d’Erma.
Scriba D: Genesi (frammento); Tobia; Giuditta; 4 Maccabei 1,1 – 8,7; Salmi 1,1 – 97,3. Inoltre parte del Nuovo Testamento: Matteo 16,9 – 18,12; 24,36 – 26,6; Marco 14,54 – fine; Luca 1,1 – 56; 1 Tessalonicesi 2,14 – fine; Ebrei 4,16- 8,1; Apocalissi 1,1-5 (fino alla parola νεκρῶν inclusa).
Numerose sono poi le mani dei correttori.
Per quanto riguarda la cronologia, se si tiene conto dell’evoluzione del canone della maiuscola biblica, è certo che il Sinaitico, con le sue forme disinvolte eppur perfettamente canoniche, semplici e nel contempo studiate, è riferibile senz’altro al IV secolo (e di sicuro non agli ultimi decenni). Ai fini di una più precisa datazione è importante la presenza dell’apparatus di Eusebio di Cesarea ad opera di due scribi dei quali il secondo è certamente lo scriba D del codice, e il primo molto probabilmente A, sicché un approssimativo ma sicuro termine post quem è la data del 300-340 (anno della morte del Vescovo di Cesarea), ma poiché manca un termine ante quem, solo l’esame paleografico può fornire qualche ulteriore indizio cronologico.
Lo studio del tratteggio e l’accuratezza dell’esecuzione creano, in talune pagine, effetti chiaroscurali di raffinata e semplice eleganza; l’angolo di scrittura si mantiene rigorosamente costante, sì da rendere perfetta l’armonia delle forme; i tratti orizzontali, sottilissimi, richiedono, ancor più che nel Vaticano, discreti puntini alle estremità come segno di distinzione. Interessante il Φ il cui anello, schiacciato e di forma quasi romboidale, mostra un rigoroso alternarsi, per così dire, di lati più spessi e sottili: questo tipo di Φ è già pienamente caratterizzato fin dal III secolo, ma è nel Sinaitico che raggiunge il perfetto equilibrio dei contrasti. Nell’aspetto generale la scrittura mostra un tocco meno delicato che nel Vaticano e una cura più attenta.
Tali elementi paleografici portano senz’altro, nella progressiva linea di svolgimento del canone, al IV secolo avanzato e rendono altamente probabile, per questo famoso manoscritto, una data intorno al 360 ca. o solo di qualche anno più tarda, escludendo tuttavia, come già si è detto, gli ultimi decenni del secolo. […]
Istituire un rapporto cronologico preciso tra Vaticano e Sinaitico non è facile: ambedue i manoscritti infatti attestano una stessa fase nella linea evolutiva della maiuscola biblica; il Vaticano, certo, mostra più decisi caratteri di antichità , ma il Sinaitico, tuttavia, può essere più tardo solo di pochi anni (tale del resto è la mia opinione), ed è veramente strano che, dopo una serie di utili notazioni in questo senso dovute a Ezra Abbot, il Gardthausen sia ancora dell’assurda opinione che tra i due manoscritti intercorra uno spazio di tempo di circa cinquant’anni. […]
Per quanto riguarda il Sinaitico, purtroppo, i dati paleografici non offrono elementi per una probabile localizzazione, sicché si possono solo formulare proposte più che mai ipotetiche. L’origine egiziana avanzata da Kostantin von Tischendorf è stata ripresa da non pochi studiosi, tra i quali, in particolare, Kirsopp Lake, che crede di trovare nella occasionale presenza dell’Ⲱ ancorato ulteriore conforto. Come già si è detto, tale tipo di Ⲱ è stato riferito all’Egitto in quanto reperibile in papiri sicuramente provenienti da questa regione (il Lake cita in particolare, sulle tracce dell’editore, Arthur S. Hunt, il P. Ryl. 28, Περι παλμων, peraltro vergato in una scrittura che ripete solo in parte gli elementi tipologici della maiuscola biblica), ma in verità manca una documentazione coeva non egiziana (e altrettanto ricca) per una verifica in questo senso. In epoca più tarda, d’altra parte, il medesimo Ⲱ ancorato è reperibile anche in manoscritti come il Beratinus dei Vangeli e altri che quasi con certezza non sono in relazione con l’Egitto. Quanto al M «copto», anch’esso presente nel Sinaitico, è inutile ripetere che non può trattarsi di una forma particolare ed egiziana.
Il Milne e lo Skeat, che ben si rendono conto della fragilità di tali argomentazioni, si pronunziano per Cesarea: le ragioni addotte sono degne della massima considerazione e l’ipotesi palestinese appare senz’altro probabile.
Non è da dimenticare tuttavia che Kostantin von Tischendorf proponeva l’identità dello scriba B del Vaticano con lo scriba D del Sinaitico, e che gli stessi Milne e Skeat, pur dando giustamente scarsa importanza all’ipotesi alquanto fantasiosa del Tischendorf, notano stretta affinità, sempre dello scriba D, con la mano A del Vaticano. Questo dimostra che non si può escludere la provenienza dei due famosi manoscritti da un medesimo ambiente: l’affinità grafico-stilistica infatti è certo molto notevole. In tal caso bisognerebbe pensare ancora una volta ad una origine egiziana del Sinaitico, in quanto all’Egitto e non alla Palestina riportano molte caratteristiche del Vaticano. Ma non si può andare al di là di ipotesi più o meno plausibili.
Sebbene il perfezionamento del canone si riveli in modo speciale nel codice Sinaitico, che ne costituisce l’acme, tuttavia, come si è accennato, l’impulso calligrafico che la maiuscola biblica riceve intorno alla metà del IV secolo, conseguenza di concomitanti fenomeni tecnici (uso della pergamena) e storici (affermazione del cristianesimo), si estende sovente anche a testi di contenuto profano e talvolta vergati su papiro, materia scrittoria che certo si presta meno all’elaborazione grafica. Così il P. Vindob. G. 29816 b (Demostene, Contro Policle) e il P. Ryl. 5045 (frammento narrativo) mostrano un equilibrio e una finezza di chiaroscuro, pur nella spontaneità del tratteggio, che riportano al periodo di splendore del canone: la data più probabile per questi frammenti mi sembra il secondo venticinquennio del IV secolo.»