“Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano” di Michelangelo Vasta

Prof. Michelangelo Vasta, Lei è autore del libro Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano edito dal Mulino: a cosa si devono rallentamento e declino della nostra economia?
Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano, Michelangelo VastaInnanzitutto ci tengo a precisare che il libro è stato concepito e scritto insieme a una nuova generazione di storici economici italiani che, in gran parte, hanno avuto esperienze all’estero in prestigiose istituzioni. Si tratta di Paolo Di Martino (Università di Birmingham), che cura il volume insieme a me, Gabriele Cappelli (Università Autonoma di Barcellona), Andrea Colli (Università Bocconi), Emanuele Felice (Università di Pescara), Alessandro Nuvolari (Scuola Sant’Anna di Pisa) e Alberto Rinaldi (Università di Modena). Il lavoro è il frutto di una ampia mole di ricerche pubblicate a livello internazionale negli ultimi anni da tutti questi studiosi. L’idea è però quella di far conoscere anche al pubblico italiano, con un volume agile, il nostro punto di vista sullo sviluppo economico italiano di lungo periodo. Il rallentamento e il declino dell’economia italiana, a nostro avviso, non sono un evento improvviso che si concretizza nel corso dell’ultimo decennio, ma il risultato di una debolezza strutturale del sistema economico italiano. Il titolo di questo volume, Ricchi per caso, mette in luce come, anche nei periodi di successo, l’Italia non abbia intrapreso percorsi lineari – sfruttando in pieno il suo potenziale o costruendo le basi per rendere il successo solido e duraturo – ma abbia spesso «vagato» prendendo strade tortuose, che, nel lungo periodo, ne hanno limitato la crescita. In questo senso, quindi, Ricchi per caso vuol dire che l’Italia, anche quando si è avvicinata al «centro» dell’economia mondiale, lo ha fatto più per una serie di eventi fortuiti e fortunati che per una reale capacità di intraprendere la strada «maestra». Riprendendo l’idea che le istituzioni (le “regole del gioco”) siano le determinanti fondamentali della crescita di lungo periodo come sostenuto, ad esempio, dal premio Nobel per l’economia Douglas C. North, da economisti di primo piano come Daron Acemoglu, o anche da scienziati sociali come Peter Hall e David Soskice, il volume identifica nell’assetto istituzionale il principale problema dell’economia italiana. Le regole del gioco, secondo me, hanno un impatto sulla capacità di un paese di adottando le tecnologie avanzate, promuovendo l’innovazione direttamente, attraverso investimenti nell’istruzione e nelle attività di ricerca e, indirettamente, supportando la crescita delle imprese e indirizzando le strategie e i comportamenti degli imprenditori.
In generale, in Italia, le istituzioni formali (leggi, norme, regolamentazioni) sono spesso nate già inadeguate ai reali bisogni dell’economia e hanno teso ad adattarsi solo molto lentamente. Ancora di più le istituzioni informali (norme sociali, attitudini culturali) hanno mostrato un alto livello di inerzia e resistenza al cambiamento. Nello specifico, si nota come il capitalismo italiano abbia sofferto dell’effetto di quelle istituzioni definite «estrattive», che hanno cioè mirato a procurare profitti per singoli individui o singole categorie senza favorire la crescita delle imprese e del paese nel suo insieme.

Il titolo del libro sembra presupporre che il miracolo economico che ci ha reso uno dei maggiori paesi industrializzati fosse immeritato.
L’ipotesi di fondo che emerge è che la performance economica dell’Italia, anche quando ampiamente positiva, sia stata, per molti versi, trainata da contingenze fortuite e limitata, come evidenzia il titolo del volume Ricchi per caso, piuttosto che aiutata, dall’ambito istituzionale, che ha invece contribuito a diminuire l’abilità del paese di consolidare i suoi processi di crescita. L’Italia ha avuto due picchi di crescita molto sostenuta (1900-1913 e 1950-1960), anche se di diversa intensità, nella cornice di una performance che rimane comunque, a nostro avviso, sub-ottimale. In termini relativi, l’Italia in centocinquant’anni ha fatto peggio di tutti i principali vicini europei; in aggiunta, ha oggi al suo interno un divario territoriale, fra il Sud e il Centro-Nord, quale nessun altro paese dell’Occidente. La visione di fondo che questo volume suggerisce è dunque quella di un paese che, nel corso della sua storia, non è mai riuscito ad esprimere in modo compiuto tutto il suo potenziale di crescita e la cui posizione tra le nazioni leader dell’economia mondiale, sfiorata o raggiunta in certe fasi, risulta adesso severamente a rischio.

Che nesso intercorre tra capitale umano e crescita economica?
Questo è a nostro avviso uno degli aspetti centrali che spiega la parabola dello sviluppo economico italiano. All’interno della teoria economica, vi è ormai una ampia condivisione nell’identificare la dotazione di capitale umano come uno dei più importanti driver della crescita economica. È quindi impressionante notare come l’Italia sia oggi il paese dell’Unione Europea che ha la quota più bassa di laureati sul totale della popolazione. Questo dato, che sintetizza tutte le criticità del sistema economico italiano, non sembra essere percepito come un problema né dagli analisti né, tantomeno, dalla politica italiana. Tuttavia, senza una solida dotazione di capitale umano, le imprese non innovano e il paese non cresce. Purtroppo, per molti anni, si è pensato che l’Italia potesse crescere basandosi sulle piccole imprese specializzate nei settori tradizionali e sul turismo. Se si attribuisce a questi settori, come si è fatto con la retorica “del piccolo è bello” e dei “distretti industriali” che ha imperversato per molti anni, il ruolo di guida dell’economia del paese, gli investimenti in istruzione non servono e innovare non è necessario. La performance disastrosa dell’economia italiana degli ultimi venti anni è tuttavia sotto gli occhi di tutti: siamo stati uno dei paesi del mondo che è cresciuto di meno. Noi riteniamo che gli scarsi investimenti in capitale umano (scuole e università) siano la ragione principale della mancata crescita dell’economia italiana.

Qual è stato il ruolo delle istituzioni e della politica nella nostra struttura industriale?
Come detto, le istituzioni mal congeniate spiegano, a nostro avviso, l’incapacità del nostro paese di sfruttare le sue potenzialità di crescita. In generale, si tende a pensare che i problemi economici dell’Italia derivino da un sistema di regole, sovrabbondante nel peso e restrittivo nella natura, che non offre al mercato la possibilità di esercitare la sua azione virtuosa. Questo problema porta due conseguenze negative. La prima, proposta da più parti, riguarda l’eccessivo costo del mantenimento delle strutture preposte al controllo di questo ponderoso sistema di regole. La seconda concerne una generale mancanza di competizione e la conseguente creazione di rendite di posizione. Aspetti come la difesa degli interessi degli insiders, la mancanza di effettiva competizione e l’attitudine «collusiva» dello stato sono infatti alla base di varie recenti visioni istituzionaliste. Una di queste identifica la causa principale del declino dell’economia italiana a partire dagli anni Novanta del XX secolo nella bassa efficienza del mercato del lavoro causata dall’attitudine conservatrice e immobilista dei sindacati. La recente approvazione delle riforme del mercato del lavoro, nota come Jobs Act, sembra aver dato un chiaro imprimatur politico a questa visione.

Quando, tuttavia, questi aspetti si affrontano con un’ottica di lungo periodo e l’osservazione si sposta dagli ultimi dieci-venti anni al secolo e mezzo di storia dell’Italia, la visione di una crisi maturata negli ultimi due decenni e motivata dallo scarso ruolo affidato al ‘mercato’, diventa limitata e insufficiente, se non del tutto erronea. In particolare, crediamo che i problemi istituzionali dell’economia italiana non si limitino (o si siano limitati) al malfunzionamento di alcuni mercati specifici (e neppure a una generale scarsa attitudine «verso il mercato»), piuttosto si estendano in maniera molto più ampia alla difficoltà nel regolamentare in maniera efficace l’interazione quotidiana fra gli agenti economici. Riteniamo anche che il «fallimento» delle istituzioni non sia indirizzato, necessariamente, a favorire gli interessi di poche lobbies facilmente individuabili, ma avvantaggi gli interessi di una minoranza «silenziosa» la cui composizione cambia nel tempo e al cui interno i vantaggi sono distribuiti in maniera ineguale. Basti pensare, ad esempio, alla larga diffusione dell’evasione fiscale che avvantaggia la sopravvivenza di molte imprese che, seguendo i meccanismi di mercato, non riuscirebbero ad essere competitive. Oppure, si pensi alla mancata applicazione delle norme di base nelle regioni meridionali controllate dalla criminalità organizzata e, in termini più ampi, dell’incapacità di colmare, o almeno di ridurre in modo sostanziale, il divario economico tra il Nord e il Sud del Paese. Come conclusione finale si può dunque sostenere che l’architettura istituzionale è stata inefficiente per il paese nel suo complesso, e lo è stata ancora di più nelle regioni meridionali, portando ad una crescita di lungo periodo complessivamente sub-ottimale e geograficamente molto sbilanciata.

Quale potrebbe essere un ruolo positivo delle istituzioni nell’innovazione e la performance economica italiana?
Credo che se si vuole davvero rilanciare la crescita siano necessari alcuni interventi strutturali di politica economica che mirino a innalzare la competitività delle nostre imprese. Si possono ipotizzare tre aree di intervento.
In primo luogo, occorre innalzare il livello di capitale umano del paese. Se gli effetti delle riforme per quanto riguarda la scuola primaria e secondaria, pur strategici, si vedranno soltanto tra alcuni anni, per quanto riguarda la formazione universitaria i risultati si potrebbero avere in un arco di tempo minore. La priorità è sicuramente quella di mettere a punto interventi che incrementino l’accesso dei giovani agli studi considerando l’enorme ritardo accumulato rispetto a tutti i paesi dell’OECD e non soltanto nei confronti delle economie più avanzate. In questo caso, è necessario pensare ad un sostanziale allargamento delle borse e di altre misure volte a garantire il diritto allo studio. È altresì essenziale considerare politiche che incoraggino l’accesso a corsi universitari di carattere scientifico e tecnico per incrementare il numero dei laureati così detti STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), coloro che, forse meglio di altri, possono garantire il trasferimento tecnologico e alimentare la capacità innovativa delle imprese. Un paese non può seguire, come indicano molti analisti, solamente la domanda delle imprese, ma deve essere in grado di ampliare l’offerta che poi sarà la garanzia di un innalzamento dei livelli di domanda. In altre parole, una maggiore presenza di laureati creerebbe nuove imprese che necessiteranno di laureati innescando un circolo virtuoso di crescita economica attraverso innovazioni e crescita dimensionale.

In secondo luogo, è necessario che le politiche per l’innovazione diventino davvero una priorità strategica per il paese. Occorre una serie di interventi relativa a politiche dedicate a scienza, tecnologia e innovazione, ambito nel quale l’Italia ha evidenziato una fragilità strutturale di lungo periodo. È quindi prioritaria la formulazione di piani a lungo termine che abbiano un approccio sistemico.
Il terzo filone di interventi è relativo all’elaborazione di una serie di azioni volte sia ad incoraggiare la crescita dimensionale delle imprese, sia a modificare la specializzazione settoriale troppo sbilanciata, ancora oggi, verso i settori «maturi» a bassa tecnologia. Il problema dimensionale che affligge l’industria manifatturiera italiana è particolarmente grave visto che la capacità innovativa, e la conquista di nuovi mercati emergenti, appaiono sempre di più intrinsecamente legati alla dimensione aziendale. Stando così le cose, è necessario adottare provvedimenti atti a favorire la crescita dimensionale delle imprese di successo, ad esempio attraverso fusioni e acquisizioni e, più in generale, forme di cooperazione anche attraverso la costituzione di reti d’imprese.

Infine, last but not least, serve una politica per il Mezzogiorno. Questo è il problema dei problemi: la larga presenza della malavita organizzata e l’enorme divario regionale Nord-Sud, non solo in termini di reddito, forse non dovuto interamente alla malavita ma certo a questa intimamente legato. In questo caso più che in altri, appare macroscopica la distanza fra la dimensione reale del problema (anche solo in termini economici) e l’attenzione che questo riceve; purtroppo è difficile non trovarsi d’accordo con Roberto Saviano quando afferma che «oggi la mafia non è invisibile, è solo che non viene più cercata». Un problema sostanzialmente ignorato oggi, così come lo era nell’Italia liberale o nel secondo dopoguerra. Lasciare un’area così vasta del paese in queste condizioni è ingiusto per i suoi cittadini, ma è anche un costo enorme per l’economia italiana nel suo complesso.

Quale futuro economico per il nostro Paese?
Non voglio nascondere il pessimismo che è presente nel nostro libro. Del resto, il nostro mestiere è quello di analizzare l’evoluzione dell’economia italiana nel lungo periodo e non quello di proporre narrazione ottimistiche, come quelle che ci siamo spesso sentiti ripetere dai nostri governi. Utilizzando la datata, ma sempre valida, lezione di Gerschenkron, che identifica l’arretratezza come un vantaggio nei processi di catching up, si potrebbe pensare che l’Italia, potrebbe intraprendere, questa volta per davvero, la strada giusta verso la crescita economica, soltanto attraverso la definizione di una nuova visione del proprio ruolo nell’economia internazionale, da cui fare seguire una profonda opera di modernizzazione del suo assetto istituzionale e delle sue politiche economiche. Alla fine restiamo convinti che l’Italia possa avere un potenziale inespresso di crescita.

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