
Una vulgata diffusa attribuisce alla rivoluzione un significato esclusivamente positivo e di sinistra. In realtà la rivoluzione può essere anche di destra (cfr. Zeev Sternhell, La destra rivoluzionaria) e può avere esiti disastrosi, sfociare in una dittatura, come è accaduto con la rivoluzione giacobina di Robespierre (che ha portato al “terrore”), con la rivoluzione bolscevica del 1917, che ha partorito lo stalinismo, ma anche col fascismo e col nazismo, rivoluzioni anch’esse, in quanto hanno cambiato la forma di Stato, hanno trasformato la democrazia liberale in una dittatura, sicuramente totalitaria quella tedesca, meno totalitaria (per qualcuno autoritaria) quella italiana.
Quando i promotori di una rivoluzione partono da un’analisi apocalittica del presente, che giudicano assolutamente negativo e non riformabile e attribuiscono a se stessi una funzione salvifica; quando si autoproclamano come unici, autentici rappresentanti del popolo contro i partiti, le élites, l’establishment; quando disprezzano la democrazia rappresentativa come “formale” e “ingannevole” e ad essa contrappongono demagogicamente la “democrazia diretta”; quando promettono una palingenesi da cui nascerà un mondo nuovo e perfetto: quando accade tutto questo, essi dimostrano di avere una visione delle politica religiosa, astratta, totalitaria, fondata, come rilevò Nicola Matteucci a proposito del Sessantotto, su “idee semplici” e “passioni elementari”. Una visione la quale, per realizzarsi, per spianare le gobbe della storia, ha bisogno di violenza e dittatura, giustificate in quanto mezzi ritenuti necessari per raggiungere il grandioso inedito obiettivo costituito dalla realizzazione del paradiso su questa terra. Un paradiso che si risolve, come il ‘900 tragicamente insegna, in un inferno totalitario, in cui ogni libertà è soppressa, ogni diritto umano calpestato, in cui gli avversari diventano nemici da isolare e annientare negli universi concentrazionari.
Questa idea-mito della rivoluzione come palingenesi, in Italia è stata particolarmente vitale, potente, longeva, capace di sedurre intellettuali e masse, destra e sinistra. Non si è realizzata: infatti il socialismo massimalista del 1919-20 non è riuscito a “fare come in Russia” (dove il bolscevismo ha vinto grazie al genio di Lenin e al “partito armato”), ma è riuscito a gettare il paese nella paura e nel caos, a delegittimare e “picconare” lo Stato liberale e quindi a favorire l’avvento del fascismo, all’interno del quale la componente rivoluzionaria, animata anch’essa dal mito della rivoluzione palingenetica, non ha prevalso, ma ha avuto una forza molto rilevante sul piano ideologico, culturale, del consenso. Tanto che, crollato il regime, il mito della rivoluzione, dai gagliardetti è trasmigrato alle bandiere rosse del Pci, abilmente imbrigliato e blandito da Togliatti, e poi ai cortei del Sessantotto e al terrorismo brigatista.
Il sogno della rivoluzione come “assalto al cielo” non è diventato realtà (e questo ci ha risparmiato l’incubo del totalitarismo nazista o staliniano: Mussolini, che pure è andato al potere, non è arrivato a tanto), ma ha condizionato in senso patologico la nostra storia (e, a mio avviso, continua a condizionarla tutt’oggi nella forma del populismo antisistema), impedendo e, forse, continuando ad impedire, una seria, necessaria, incisiva e moderna politica delle riforme. Insomma, nella foga di cambiare tutto, non si cambia nulla e si rimane impantanati.
Detto questo, in realtà, una rivoluzione in Italia c’è stata, certo assai diversa da quella sopra descritta: è stata il Risorgimento, che ha trasformato una “espressione geografica” in uno Stato unitario, in una nazione, capace, in cinquant’anni (come ebbe ad osservare Benedetto Croce) di compiere grandi progressi e di inserirsi a pieno titolo nel consesso europeo. Una rivoluzione, quella risorgimentale, non estremistica, non radicale, non religiosa, compatibile con le condizioni del tempo, pilotata da un grande statista, il conte di Cavour, intenzionato a costruire una “nazione di cittadini” fondata sulla libertà e il pluralismo, alternativa alla “nazione di credenti” caldeggiata da Giuseppe Mazzini, il quale rifiutò quell’esito proprio sulla base dell’idea giacobina di rivoluzione palingenetica. Un’idea che, in quanto sconfitta, lo portò a concepire il mito del Risorgimento come “rivoluzione tradita”, da cui nascerà il radicalismo estremo che ho cercato di descrivere, certo potenziato dal marxismo e dalle filosofie irrazionalistiche e antipositivistiche del primo Novecento.
E la Resistenza, definita secondo Risorgimento, è stata una rivoluzione? Per comunisti e socialisti, dopo la loro estromissione dal governo nel 1947, è stata una “rivoluzione tradita”, perché non ha consentito di realizzare il socialismo. Tradita dalla borghesia incarnata dalla Dc degasperiana, da quella stessa borghesia che nel XIX secolo, allora rappresentata da Cavour e dalla monarchia sabauda, aveva “tradito” il Risorgimento.
Se per rivoluzione si intende una palingenesi, certamente la Resistenza non lo è stata, come non lo è stato il Risorgimento. Si tratta di due fenomeni di grande rilievo e dalle conseguenze certamente positive, proprio perché hanno evitato quella deriva estremista che porta dritto al totalitarismo.
Nel Suo libro Lei tratta anche di terrorismo e Brigate Rosse: su quale terreno ha affondato le radici il terrorismo da noi così virulento?
Il terrorismo rosso, ma anche, in parte, quello nero, affonda le radici nel mito della rivoluzione palingenetica, di matrice giacobina e populista, in questa visione astratta, religiosa e totalitaria della politica, con le sue “idee semplici” e “passioni elementari”.
Da cosa origina il mito rivoluzionario nel nostro paese?
Il mito rivoluzionario nasce dal mito mazziniano del Risorgimento come rivoluzione “tradita” e “incompiuta”. Un mito, il quale, da critica alla classe dirigente liberale, a cavallo tra ‘800 e ‘900, si trasforma in critica e delegittimazione dello Stato liberale e delle sue istituzioni, a partire dal parlamento. A questa metamorfosi offrono un contributo importante Alfredo Oriani (colui che declina il pensiero di Mazzini secondo le condizioni dell’Italia post-unitaria) e i suoi eredi radical-nazionali: nazionalisti, futuristi, sindacalisti rivoluzionari, vociani; ma anche i socialisti massimalisti compreso Benito Mussolini. Tutti questi soggetti, acerrimi nemici di Giolitti e inneggianti allo “Stato nuovo”, preparano il terreno sul quale, col contributo determinante del trauma provocato dalla Grande Guerra, nascerà il fascismo.
Si può affermare che l’era delle rivoluzioni è definitivamente tramontata?
No, non penso che l’era delle rivoluzioni sia tramontata, anche perché, come ho cercato di dimostrare, il termine rivoluzione è da intendere in una accezione assai vasta. Se non se ne specificano i caratteri e i contesti non significa nulla. Oggi assistiamo ad un’ondata di populismo (una forma di rivoluzione), a mio avviso assai preoccupante, in quanto mi pare contenga molti dei caratteri negativi che ho provato a descrivere. Anche oggi, in Italia, in Europa e negli Usa di Trump esistono forze politiche che pretendono l’esclusiva rappresentanza del popolo, come se il popolo fosse un monolite e non un’articolazione plurale di soggetti diversi per idee, gusti, cultura, interessi ecc. Forze che concepiscono il popolo alla maniera rousseauiana e giacobina (è un caso che la piattaforma grillina si chiami Rousseau?), rilanciano la “democrazia diretta” in salsa digitale e tutto questo contrappongono ai partiti, alle élites, ai “poteri forti”, all’establishment: tutti soggetti i quali pure, sia chiaro, non sono esenti da colpe anche gravi, cause di quel disagio sociale che alimenta il populismo e i più dissennati estremismi. Ma per curare una malattia dobbiamo trovare la terapia giusta: le idee populiste sono la medicina sbagliata, quella che ci precipiterebbe dalla padella nella brace.