Riassunto capitolo 1 de “I Promessi Sposi”

I promessi sposi, Capitolo 1: trama riassunto

“Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien quasi a un tratto, tra un promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte”: questo il celebre inizio del primo capitolo de I promessi sposi, il romanzo di Alessandro Manzoni.

E subito dopo i paesaggi lombardi – il fiume Adda, i cocuzzoli del Resegone e la città di Lecco –entra in scena uno dei personaggi principali del romanzo, Don Abbondio, curato di campagna che viene immortalato mentre se ne “tornava bel bello dalla passeggiata verso casa”, recitando le sue preghiere con un dito infilato nel breviario, per tenere il segno, e lo sguardo di tanto in tanto perso a contemplare il paesaggio circostante.

La tranquilla passeggiata del curato è però presto interrotta da “una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. All’incrocio tra due viottoli lo aspettano infatti due loschi figuri, armati di pistole e coltellaccio. Si tratta dei cosiddetti “bravi” la cui genesi storica il Manzoni descrive con una di quelle digressioni che punteggiano il romanzo. Si tratta in sostanza di vagabondi violenti che mettono la loro spada al soldo di cavalieri o mercanti locali. nonostante ufficialmente fuori legge, nessun provvedimento preso dal governo è mai stato efficace per eliminarne la presenza.

È indubbio che i due bravi in cui Don Abbondio si è imbattuto stanno aspettando proprio lui, “perché, al suo apparire, costoro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due d’un tratto avevano detto: è lui.” Don Abbondio è tutt’altro che un uomo coraggioso: abitudinario, amante del quieto vivere, “non era certo nato con un cuor di leone”. Tuttavia, rendendosi conto di non poterli in alcun modo evitare, il curato va loro incontro, anzi affetta il passo cercando di abbreviare il più possibile quella spiacevole situazione.

I due, che si scopre essere al soldo di Don Rodrigo, signorotto locale, intimano al prete di non celebrare il matrimonio tra Lucia Mondella e Renzo Tramaglino, previsto per il giorno successivo: “Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai.” Dopo di che, “cantando una canzonaccia”, i due si dileguano, lasciando il pover curato stordito e spaventato, a mettere “innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate”.

Terrorizzato dal solo sentir pronunciare il nome di Don Rodrigo, Don Abbondio non pensa in alcun modo di opporsi ai due, ma anzi li tratta con deferenza, ben consapevole che nessuno, tantomeno la legge, potrebbe proteggere un pover’uomo come lui “animale senza artigli e senza zanne che pure non sentisse inclinazione d’esser divorato” dalla violenza che i due bravi minacciavano. “Come un vaso di terra cotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”, il curato aveva elaborato la sua personale strategia di sopravvivenza, che consisteva essenzialmente nel cercare di scansare ogni tipo di contrasto e, se la cosa non era proprio possibile, di cedere sempre quando si trovava di fronte a chi era chiaramente più forte di lui. Altra sua regola di vita era quella di cercare di non immischiarsi in questioni che non lo riguardavano, biasimando coloro che invece non si comportavano come lui, come “quei suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan e parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. questo chiamava un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddrizzar le gambe ai cani”.

Certo, questo continuo sottomettersi poteva essere difficile da sopportare, e per questo anche lui si concedeva qualche sfogo, prendendosela con chi sapeva essere più debole di lui.

Dirigendosi verso casa dopo l’incontro con i bravi, Don Abbondio si interroga su come cavarsi da quell’impiccio.  Non conosceva Don Rodrigo di persona, “né aveva mai avuto a che fare con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l’aveva incontrato per la strada”, ma metter in dubbio i suoi ordini era fuori discussione. Dirige quindi la sua ira verso Renzo e Lucia, “ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano”, colpevoli di averlo coinvolto, suo malgrado, in questo pasticcio, e che con tutta probabilità non si lasceranno nemmeno convincere facilmente ad annullare le nozze senza richiedere spiegazioni.

Giunto a casa, trova ad attenderlo Perpetua, la sua “serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione”. Intenta ad apparecchiare la tavola per la cena, la donna, che conosce il prete alla perfezione, comprende subito che c’è qualcosa che non va. Del resto l’uomo ha uno sguardo così adombrato e uno sguardo così stravolto che non è difficile indovinare che qualcosa stia turbando la sua serenità. In un primo momento Don Abbondio sembra non volerle raccontare nulla ma, dopo vari tentennamenti, finisce per confidarsi con lei: “aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo.”

La donna gli suggerisce di rivolgersi all’arcivescovo, “un uomo di polso, che non ha paura di nessuno”, ma il curato è troppo spaventato all’idea di opporsi a Don Rodrigo. Il capitolo si conclude con Don Abbondio, ancora in preda all’ansia, che si ritira a dormire raccomandando a Perpetua di non far parola con nessuno della faccenda.

Silvia Maina

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