
In un bellissimo libro del 2002, intitolato La retorica d’oggi, Ezio Raimondi ha visto nella retorica una moderna teoria del dialogo, un’arte della convivenza e dell’interlocuzione democratica, che entra in gioco quando mettiamo a confronto tesi che non sono di per sé autoevidenti o dimostrabili mediante il metodo logico-formale, e prendiamo posizione a favore di una di esse. L’argomentazione richiede un preventivo riconoscimento dell’avversario e della legittimità delle sue posizioni, implica l’accettazione di una serie di premesse comuni, senza le quali risulterebbe impossibile ogni forma di interlocuzione, e infine la ricerca di consenso mediante argomenti che tengano conto del punto di vista altrui e che per questa ragione risultino accettabili. Più che lo strumento di una razionalità imperfetta, com’è stata considerata in un passato ancora recente, la retorica è espressione di una razionalità inclusiva e consensuale, che si sforza di comprendere le ragioni e i diritti dell’altro, e ci consente di negoziare le regole che rendono possibile la quotidiana convivenza tra gli uomini. In un’epoca come la nostra, in cui sembrano prevalere invece gli «animal spirits», i pregiudizi e le paure, la retorica mi sembra non solo una disciplina attualissima, ma perfino necessaria.
L’aggettivo retorico ha assunto nel sentire comune un’accezione negativa, come mai?
Anche in questo caso occorrerà fare riferimento a un passato più o meno remoto. L’uso odierno dell’aggettivo “retorico” e del sostantivo “retorica”, applicati a discorsi altisonanti, al limite insinceri, e comunque caratterizzati da un vacuo formalismo, è stato legittimato sia dall’evoluzione storica della disciplina, che ha comportato una parcellizzazione dell’antica ars rhetorica e uno sviluppo degli elementi formali del discorso a scapito di quelli argomentativi, sia dagli ideali estetici nati dal Romanticismo e dai suoi miti: parola spontanea, originalità, libertà nell’arte.
Un ideale punto di svolta nella progressiva riduzione dell’eloquenza alle sole norme stilistiche della prosa d’arte è la Dialettica (1555) di Pietro Ramo, nella quale la teoria dell’argomentazione è nettamente separata dalla retorica e ascritta appunto alla dialettica: da una parte dunque una ‘retorica ristretta’ che doveva occuparsi dei soli aspetti stilistici e formali del discorso, dall’altra una sorta di logica euristica, che riguardava invece i contenuti e le argomentazioni. Può sembrare un paradosso che un momento decisivo nell’affermarsi di una retorica ridotta a pura forma dell’espressione possa essere rintracciato proprio in quella che è stata definita l’«età dell’eloquenza» o l’«aetas ciceroniana», quando proliferano i commenti e le traduzioni della Retorica aristotelica, ed è fortissimo e programmatico l’interesse culturale per l’eloquenza e per i suoi metodi d’indagine. E d’altra parte, quello di Pietro Ramo non era affatto un caso isolato. Ormai quasi alla fine del Cinquecento, il filosofo Francesco Patrizi, ispirandosi esplicitamente agli insegnamenti di Platone, distingue i «dottori» dagli «oratori» e osserva che i discorsi persuasivi, le argomentazioni probabili, gli appelli al consenso e alle passioni hanno ragion d’essere quando l’ordine politico è ancora in divenire e le decisioni devono adeguarsi a situazioni e a norme mutevoli. Ma, quando gli ordinamenti statali, le istituzioni e le leggi sono stabili e definiti, i processi decisionali non possono che rispondere a procedimenti rigorosamente deduttivi e gli oratori devono cedere il passo ai dottori. Rovesciando la scala di valori di Patrizi e parafrasando un’osservazione di Eugenio Garin, si potrebbe dire che si riconosce efficacia alla retorica e ai suoi metodi di indagine solo quando si riconoscono le libere possibilità degli uomini e, soprattutto, quando li si colloca fuori da un ordine rigido e integralmente definito.
Quali sono le figure retoriche più efficaci a Suo avviso?
Non ci sono figure retoriche più efficaci di altre in assoluto. L’efficacia di ciascuna di esse è commensurata al contesto generale della comunicazione (e in particolare al pubblico che dovrà interpretarla) e all’intenzione argomentativa che essa presuppone e che può realizzare in maniera più o meno incisiva. Se ad esempio l’oratore intende sottolineare la propria affinità culturale rispetto all’ascoltatore, la propria appartenenza a uno stesso gruppo, può ricorrere a una figura di pensiero come l’allusione, che consiste nel fare riferimento a un immaginario, a una storia, a un linguaggio condivisi in una data cultura. Guai però ad attribuire all’uditorio competenze culturali diverse da quelle che ha veramente: non soltanto l’allusione non sarebbe compresa e cadrebbe nel vuoto, ma susciterebbe nel pubblico un vero e proprio senso di straniamento, un effetto lontanissimo dunque da quello di «comunione» con il proprio uditorio, immaginato dall’oratore. E ancora: l’ironia è efficace quando vogliamo confutare una tesi che non condividiamo affatto, ma nello stesso tempo è una figura ambigua, potenzialmente difficile da decodificare, e l’uditorio potrebbe non coglierla affatto, specie in mancanza di segnali prossemici. Viceversa, figure come i metaplasmi (delle alterazioni dell’aspetto fonico o grafico di singole parole) possono presentarsi come veri e propri errori di grammatica e perciò sono evitati nelle forme di comunicazione più sorvegliata, ma si rivelano particolarmente utili se si vuole ottenere un effetto comico oppure evocativo, e infatti entrano in gioco nei motti di spirito, nei giochi di parole, nelle onomatopee…
Ma, se non ci sono in assoluto figure più o meno efficaci, è vero che ci sono figure più studiate di altre ed evidentemente più interessanti sul piano teorico. Si pensi per esempio alla fortuna della metafora, oggetto di indagine da parte dei teorici della lingua e della letteratura di epoche diverse, da Aristotele a Tesauro a Lakoff. Negli ultimi decenni, inoltre, la metafora è entrata nell’orizzonte teorico di scienziati ed epistemologi, che ne mettono in luce la capacità di suggerire nuove linee di ricerca e parlano di metafore «costruttrici di teoria». È il caso, solo per fare un esempio noto a tutti, della metafora di ‘codice genetico’ che definisce l’interazione delle catene del DNA e che in origine è servita a orientare la ricerca scientifica in questo campo.
Esiste una retorica moderna?
La retorica ha avuto uno straordinario momento di rinascita durante la seconda metà del Novecento. Da ambiti disciplinari diversi si è guardato agli strumenti messi a punto dall’ars oratoria per individuare una metodologia euristica adatta alla filosofia, alla politica, all’etica o al diritto, in altre parole a tutti quei campi per i quali il metodo logico-formale risulta inadeguato. Oppure si sono ricavati dalla retorica strumenti di analisi del testo letterario che consentissero non solo di comprenderlo meglio, ma anche di fondare il giudizio di valore su basi più solide e oggettive, senza confinarlo nel campo incerto del soggettivismo.
Nonostante questa straordinaria rinascita, la retorica risente ancora oggi della parcellizzazione alla quale si accennava. I due approcci – quello filosofico-argomentativo e quello linguistico-letterario – entrano raramente in dialogo, perpetuando nella sostanza quella separazione di inventio ed elocutio, cose e parole che nei secoli ha determinato la ‘cattiva stampa’ della quale gode ancora adesso la disciplina.
Il suo libro si articola nelle quattro fasi dell’arte oratoria: inventio, dispositio, elocutio ed actio. In cosa consistono e qual è l’importanza di ciascuna?
Si tratta di una partizione classica, che mostra come la retorica antica codificasse tutti i diversi aspetti del discorso oratorio: dalla ricerca degli argomenti di prova alla sua esecuzione orale. Dato un tema, la quaestio, il retore poteva ricorrere alla inventio per trovare le argomentazioni più efficaci a dimostrare la propria tesi davanti a un determinato uditorio, alla elocutio per ricercare la veste verbale più appropriata ai propri argomenti, scegliendo ad esempio le parole e i giri di frase più chiari o più suggestivi o più adatti a suscitare le passioni del suo pubblico. La dispositio poi insegnava a mettere in ordine sia i contenuti sia le parole, in modo che il discorso risultasse perspicuo e incisivo, ma nello stesso tempo non annoiasse l’ascoltatore e ne tenesse viva l’attenzione in ogni fase dell’orazione.
Oggi l’ambito di pertinenza di ognuna di queste partizioni è oggetto di studio di discipline differenti. La logica e la teoria dell’argomentazione, per esempio, hanno campi di indagine non troppo diversi da quelli un tempo esplorati dall’inventio e, in parte, dalla dispositio. Ma anche la storia delle idee o le ricerche sull’immaginario letterario traggono talvolta i propri materiali di analisi da alcune forme della inventio classica e medioevale. Infine, la linguistica, la teoria della letteratura, la critica letteraria si occupano di aspetti della comunicazione affini a quelli trattati in sede di elocutio e ancora di dispositio. Mantenere la partizione antica mi ha dato la possibilità di suggerire al lettore un’idea, per quanto parziale, di cosa la retorica classica sia diventata oggi.
Un discorso a parte vale invece per l’actio e per l’ultima delle fasi di elaborazione del discorso previste dagli antichi maestri di retorica, vale a dire la memoria. La prima suggeriva le strategie per recitare il discorso in pubblico, il modo di modulare la voce e le sue tonalità, la gestualità che doveva accompagnare le diverse parti dell’orazione. Oggi è materia di studio nelle accademie di arte drammatica e, in quanto tale, esula dalle mie competenze. Di essa, infatti, il mio libro si limita a esporre quegli aspetti che ho ritenuto più funzionali a far comprendere il complesso rapporto tra discorso e ricezione che la retorica, a partire da quella classica, presuppone. La seconda, la memoria, prescriveva le tecniche per memorizzare i contenuti dell’orazione e quelle, infinitamente più complesse, per ricordarne le singole parole. L’arte della memoria associava concetti e parole a immagini mentali suggestive e stranianti, dotate di un fortissimo contenuto emotivo. Già a partire dalla modernità, la riproducibilità in serie prima della scrittura e poi della voce hanno reso queste tecniche desuete e per questa ragione il mio libro non se ne occupa, se non nella forma cursoria riservata anche all’actio. Ma la mnemotecnica è ancora oggi un campo di ricerca ricco e aperto per chi vuole studiare il potere di suggestione delle immagini, la loro interazione con la parola, scritta e orale, al limite la loro capacità di rispondere ad aspirazioni enciclopediche, promettendo di sintetizzare e rendere disponibile a tutti un sapere universale.