
L’interpretazione tradizionale di responsabilità la identifica con il dare conto, rendere ragione (accountability) di ciò che un soggetto, autonomo e libero, produce o pone in essere. Tale nozione di responsabilità, postula dunque la capacità di un agente di essere causa dei suoi atti e in quanto tale di essere tenuto a “pagare” per le conseguenze negative che ne derivano. Nel modello tradizionale, dunque, la responsabilità riposa tutta sul legame tra un soggetto e la sua azione. L’importante è stabilire quali azioni mi appartengono e perciò di quali azioni devo rispondere. Questa, ancora prevalente, concezione della responsabilità lascia però in ombra il cosa significhi essere responsabili. Rispondere, come spesso si sente dire, che significa dare conto del proprio agire sarebbe mera tautologia. È questa una situazione, a dir poco, paradossale: ci si appella sempre più alla responsabilità senza sapere quale ne sia il contenuto, la sua ragion d’essere.
Quali diverse forme di responsabilità esistono?
Da un cinquantennio a questa parte, ha iniziato a prendere forma un’accezione di responsabilità che la colloca al di là del principio del libero arbitrio e della sola sfera della soggettività, per porla in funzione della vita, per fondare un impegno che vincoli nel mondo. Ciò sta avvenendo sull’onda della presa d’atto che la responsabilità ha sempre più a che fare con il tempo. La rapidità del cambiamento costringe a prendere decisioni di cui non siamo mai in grado di calcolare tutte le conseguenze, in tempo reale. Da una parte, la responsabilità richiede, oggi, di porsi il problema dei vincoli cui le decisioni che assumiamo saranno esposte nel tempo per continuare ad essere efficaci. Dall’altra, occorre sviluppare capacità che facilitino l’uso delle risorse disponibili. La capacità di risposta non può essere perciò solo riferita all’immediatezza delle circostanze presenti, ma deve includere quelle dimensioni temporali che assicurano una qualche continuità della risposta stessa. Ecco perché l’esperienza della responsabilità non può esaurirsi nella semplice accountability. È rimasta giustamente celebre l’affermazione di M.L. King secondo cui “può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”.
Di chi è la responsabilità degli esiti di mercato?
Un aspetto inquietante – ma non è il solo – della globalizzazione è l’anonimato dei suoi protagonisti e gli effetti a lunga gittata delle loro operazioni. La decisione presa in un certo luogo o in una certa piazza d’affari tende ad avere ripercussioni molto lontane. Le cause sono molto distanti dai loro effetti. Non solo, ma troppo spesso questi effetti sono generati da una pluralità di micro-azioni che si sommano in modo tale che non è possibile imputare al singolo partecipante all’azione comune la totalità degli effetti prodotti. È questo ciò che accade nei casi di “tirannia delle piccole decisioni”. La tirannia si verifica tutte le volte in cui un numero di decisioni, singolarmente razionali e giuridicamente lecite, di modesta dimensione e di corto respiro, cumulativamente prese risultano in un esito sub-ottimale e moralmente inaccettabile perché reca ad “innocenti” conseguenze cattive.
Va da sé che in casi del genere la mano invisibile finisce con il funzionare in modo perverso, perché la serie di decisioni individualmente razionali cambia in senso negativo il contesto in cui verranno operate le scelte successive, fino al punto in cui le alternative che si sarebbero desiderate risultano irreversibilmente distrutte. In queste condizioni, il modello tradizionale individualistico della responsabilità fondato sulla colpa non è più applicabile, come si è scritto nel capitolo precedente, tanto che c’è chi vorrebbe farne a meno del tutto. Ma ciò sarebbe un potente “non sequitur” logico, per la semplice ragione che anche se gli attori reali dei macro-processi sono spesso sconosciuti o invisibili, ciò non implica che non esistano. Proprio perché ci ha resi più interdipendenti, meglio informati, più capaci di realizzare forme di mutuo aiuto, la globalizzazione esige forme nuove e più robuste di responsabilità da parte degli attori. La responsabilità tende a trasformarsi in corresponsabilità, che non va intesa come sommatoria delle responsabilità individuali, ma richiede che gli agenti economici siano considerati come membri di una comunità di cooperazione di estensione planetaria.
Siamo oggi di fronte ad uno dei tanti paradossi della globalizzazione, che mentre espande l’area della responsabilità personale, al tempo stesso facilita la mutua deresponsabilizzazione. Ciò avviene perché la globalizzazione ha reso le catene causali assai più lunghe di prima e così i partecipanti al mercato globale si rifiutano di assumersi una responsabilità personale per i risultati collettivi, scegliendo di nascondersi dietro l’anonimato di gruppo.
Cosa significa per un’impresa essere civilmente responsabile?
È noto che tante sono le varietà di capitalismo possibili e storicamente realizzate e tali varietà dipendono in buona parte dalle diverse forme istituzionali d’impresa, in particolare dalle forme di governo delle stesse. Ebbene, l’impresa che opta per la responsabilità civile è quella che si adopera per intervenire sul fine stesso dell’agentività economica mirando alla democratizzazione del mercato. Si osservi: mentre per la responsabilità sociale d’impresa basta (e avanza) fare appello alla responsabilità come imputabilità, per la responsabilità civile dell’impresa occorre riferirsi alla nozione forte di responsabilità, quella del prendersi cura. Laddove l’impresa socialmente responsabile – che voglia essere tale non solo a parole – punta a rendere democratica la propria governance, attuando il cosiddetto stakeholder management nel quale è il capo d’impresa a cercare di comporre gli interessi delle diverse classi di stakeholder, l’impresa civilmente responsabile si assegna l’obiettivo ulteriore di contribuire, assieme ad altri enti, a rendere più democratico l’ordine di mercato: la stakeholder democracy. È questo un modello di governance in cui sono gli stessi portatori di interesse che, in quanto partners dell’impresa, condividono diritti e doveri, tenendo conto delle specificità dell’organizzazione d’impresa. Si badi che la partecipazione di tipo democratico al processo decisionale è qualcosa di molto diverso sia dalla consultazione di tipo concertativo sia dalla mera trasparenza delle informazioni. Individuare le forme organizzative in cui questo può avvenire è, in questo tempo, la grande sfida che l’impresa civile deve saper raccogliere.
Un’interessante novità in questa direzione è la proposta – che va guadagnando consensi – del modello organizzativo olacratico in sostituzione dell’ormai obsoleto modello tayloristico. In un’opera fortemente anticipatrice degli sviluppi successivi S. Ghosal e C. Bartlett avevano suggerito di inserire nelle discipline organizzative la categoria di individualizzazione, secondo cui l’identità personale non è un dato, qualcosa di acquisito una volta per tutte o ereditato, ma un compito: il soggetto si carica della responsabilità non solo della realizzazione di certe performance, ma anche delle loro conseguenze indirette e degli effetti collaterali. Coniato da Brian Robertson della Harvard Business School, il termine olacrazia traduce a livello operativo la nozione di individualizzazione, segnando il superamento del modello gerarchico di governance che F. Taylor aveva codificato nel suo celebre libro del 1911.
Oggi, fenomeni di portata epocale come la globalizzazione e la rivoluzione delle tecnologie convergenti stanno generando crescenti asimmetrie di potere, mettendo a repentaglio l’orizzontalità dei rapporti intersoggettivi – presupposto essenziale per il funzionamento stesso del mercato. La parola monopolio raramente viene usata, oggi. Eppure, mai come in questa epoca la concentrazione di potere monopolistico ha raggiunto livelli preoccupanti di guardia.
È possibile una finanza responsabile?
È certamente possibile, ma non facile. E ciò per la ragione che è ancora diffusa e tacitamente accolta la tesi della doppia moralità. Nel 1968, l’economista americano Albert Carr pubblica sulla prestigiosa Harvard Business Review un saggio destinato a fare scuola, diventando, di fatto, una sorta di guida obbligata per chi si dedica alla finanza. Il titolo stesso è rivelatore: “Is business bluffing ethical?”. Vi si legge che l’uomo d’affari che ambisce al successo deve lasciarsi guidare da “un diverso insieme di standard etici” dal momento che “l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa”. Assimilando la finanza al gioco del poker – gioco nel quale ciascun giocatore deve cercar di barare al suo rivale, facendogli credere di avere carte che in realtà non ha – Carr conclude che “gli unici vincoli cui deve sottostare chi fa business sono la legalità e il profitto. Se qualcosa non è illegale in senso stretto ed è profittevole allora è eticamente obbligatorio che l’uomo d’affari lo realizzi”. (Corsivo aggiunto). Il punto di arrivo dell’argomento è quello di rovesciare la ben nota Regola Aurea, un rovesciamento che suonerebbe all’incirca così: “Fai agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te”. Scrive, infatti, il nostro: “La regola aurea, per quanto abbia meriti come ideale per la società, non va bene come guida per gli affari. Per buona parte del suo tempo, l’uomo d’affari cerca di fare agli altri quello che egli spera gli altri non faranno mai a lui”. (sic!)
Una posizione questa che viene rafforzata da J. Ladd (“Morality and the idea of rationality in formal organizations”, The Monist, 1970) quando descrive le organizzazioni formali (tra cui le imprese) come istituzioni in cui “gli interessi e i bisogni degli individui [in esse operanti] devono venire presi in considerazione solo nella misura in cui pongono condizioni operative limitanti. La razionalità organizzativa impone che questi interessi e bisogni non debbano essere considerati come un diritto o sulla base del merito. Se pensiamo ad un’organizzazione come ad una macchina, è agevole capire perché non possiamo ragionevolmente aspettarci che essa abbia una qualche obbligazione morale nei confronti delle persone o che queste ne abbiano nei suoi confronti” (p. 507). Poco più avanti nel testo, in convinto appoggio alla tesi di Carr, si legge: “Per ragioni logiche è improprio aspettarsi che la condotta organizzativa si conformi ai principi ordinari della moralità. Non possiamo e non dobbiamo aspettarci che le organizzazioni formali e i loro rappresentanti quando agiscono nella loro veste ufficiale, siano onesti, coraggiosi o che possiedano integrità morale…Azioni che sono errate in base agli standard morali classici non lo sono per le organizzazioni…se quelle azioni servono gli obiettivi dell’organizzazione” (p. 507).
Cosa accadrà nella società del futuro in cui le smart machine potranno «pensare» e decidere?
È certamente il fenomeno della quarta rivoluzione industriale a costituire, in questo nostro tempo, una delle più urgenti occasioni per ripensare e mettere all’opera il principio di responsabilità. È noto che la rapida diffusione delle c.d. tecnologie convergenti – quelle risultanti dalla combinazione sinergica delle Nanotecnologie, Biotecnologie, Information Technologies, Cognitive sciences; in acronimo NBIC – sta radicalmente modificando non solamente il modo di produzione ereditato dalla società industriale, ma anche le relazioni sociali e la stessa matrice culturale della società. Non sappiamo ancora come le nuove tecnologie del digitale e la cultura che le governa modificheranno l’essenza del capitalismo del prossimo futuro. Sappiamo però che è in atto una seconda “grande trasformazione” di tipo polanyiano con conseguenze di vasta portata sul senso stesso del lavoro umano, oltre che sulla distruzione e creazione di posti di lavoro; sulla separazione tra mercato e democrazia, quale si è andata consumando nel corso dell’ultimo trentennio sull’onda dell’esaltazione dell’idea che fosse possibile espandere l’area del mercato prescindendo dal contemporaneo rafforzamento del principio democratico; sull’impatto dell’intelligenza artificiale (IA) ai fini del successo del progetto transumanista – termine coniato alcuni decenni fa da Julien Huxley. (La prima grande trasformazione è quella stupendamente narrata da Karl Polanyi, nel suo La grande trasformazione del 1944, riferita alle prime due rivoluzioni industriali di fine Settecento e fine Ottocento, rispettivamente).
La promessa di un potenziamento, sia dell’uomo sia della società, che viene dalle tecnologie convergenti del gruppo NBIC dà conto della straordinaria attenzione che la tecnoscienza va ricevendo in una pluralità di ambiti, da quello etico a quello scientifico, da quello economico a quello politico. Quanto è in gioco non è solo il potenziamento delle abilità cognitive dell’uomo o il miglioramento dei modi di controllo delle informazioni e del loro uso a fini produttivi, ma anche l’artificializzazione dell’uomo e, al tempo stesso, l’antropomorfizzazione della macchina. Si può così comprendere perché, di fronte a scenari del genere, la nozione di responsabilità come imputabilità non sia sufficiente a guidare l’azione dei decisori, pubblici e privati. Piuttosto, occorre applicarsi per tradurre in pratica la nozione di responsabilità come prendersi cura.
Quale futuro per l’economia?
Vi sono due modi errati di porsi di fronte alle problematiche connesse al principio responsabilità.
Da un lato, quello di chi cede alla tentazione di restare al di sopra della realtà con l’utopia; dall’altro, quello di chi si colloca al di sotto della realtà con la distopia, con la rassegnazione. Non possiamo cadere in trappole del genere. Non possiamo vagare tra l’ottimismo spensierato di chi vede il processo storico come una marcia trionfale dell’umanità verso la sua completa realizzazione e il cinismo disperante di chi pensa, con Kafka, che “esiste un punto di arrivo, ma nessuna via”.
Invero, solo la combinazione di senso della realtà e senso della possibilità può dare ali al progetto di arrivare, in fretta, ad un nuovo modello di sviluppo economico. Essere responsabili significa, oggi, questo: non considerarsi né come il mero risultato di processi che cadono fuori del nostro controllo, né come una realtà autosufficiente senza bisogno di rapporti con l’altro. Significa, in altri termini, pensare che ciò che ci aspetta non è mai del tutto determinato da quanto ci precede. Se si vuole che l’ordine sociale che chiamiamo capitalismo possa rispettare pienamente il diritto di ciascun individuo a decidere da sé come dare valore alla propria vita e, al tempo stesso, possa dimostrare uguale considerazione per il destino di ciascuna persona, non c’è altra via che quella di renderlo più responsabile. Prendere atto che il capitalismo rischia oggi la paralisi, o, peggio, il collasso, perché sta diventando più capitalistico di quanto gli sia utile – perché nega nei fatti il libero mercato –, è il primo passo per avviare un progetto credibile di trasformazione dell’esistente ordine sociale.
Concretamente, ciò significa che la scelta del modello di mercato è questione altrettanto, e forse più, importante e nobile per la scienza economica di quanto lo sia la ricerca delle condizioni di efficienza di un determinato modello di mercato ereditato dal passato, a sua volta espressione di una data cultura. I mercati, infatti, non sono tutti uguali. C’è un mercato che riduce la disuguaglianza sociale e uno che invece la fa lievitare. Il primo si dice civile, perché dilata gli spazi della civitas – la città delle anime secondo l’efficace definizione di Cicerone – mirando ad includere tendenzialmente tutti, il secondo è invece il mercato incivile che tende ad escludere e a conservare nel tempo le “periferie esistenziali” di cui parla papa Francesco. Nel modello odierno di capitalismo finanziario è dominante il secondo tipo di mercato e le conseguenze sono quelle di cui tutti siamo oggi spettatori. È quando ci si confronta con una realtà del genere e si desidera uscirne che il richiamo alla responsabilità come prendersi cura diviene pertinente e soprattutto urgente.