
di Alessandro D’Avenia
Mondadori
«A (rac)conti fatti, l’intera Odissea dura poco più di quaranta giorni (i primi sei dedicati a Telemaco, quelli dal settimo al quarantesimo a Ulisse, con il ritorno di Telemaco al trentanovesimo). Quarantuno giorni se consideriamo la mattina dei patti di pace. Sono narrati in 12.110 versi, che chiamiamo esametri per il loro ritmo musicale a sei battute per verso, di fronte a cui impallidisce qualsiasi beat contemporaneo, e suddivisi in 24 sezioni (i nostri capitoli), definite canti proprio perché la recita dei versi (simile al parlato nell’opera musicale) era accompagnata da uno strumento a corde. Li si può ulteriormente suddividere in 6 gruppi da 4 canti ciascuno, tetradi lunghe circa 2800 versi, la probabile misura del canto di un poeta dopo il banchetto. Il quarantesimo giorno, quello della vendetta, non a caso è un giorno di novilunio, sacro ad Apollo. Ci vogliono quaranta giorni per fare narrativamente un’Odissea: un numero che, al pari dei vent’anni di guerra e mare, indica completezza, compimento di destino; come i quaranta giorni di digiuno di Cristo nel deserto per preparare la sua missione, giorni durante i quali viene tentato da chi vuole impedirgli di essere quello che è, di incarnare il suo destino. Quaranta sono i giorni per fare un’odissea, e cioè: tutto il tempo che ci vuole a morire, non un giorno di più non uno di meno; il quarantunesimo è il primo giorno nuovo, quindi l’inizio di tutto il tempo che ci vorrà a nascere del tutto incarnando sempre più il proprio originale destino. Anche per questo possiamo parlare dell’Odissea come della struttura narrativa della vita, perché, a differenza dell’Iliade che narra le vicende in modo lineare, il poema su Ulisse consacra l’intreccio alla narrazione di una ricerca attraverso delle avventure (viaggio). E si tratta della struttura costante dei riti di passaggio, che altro non sono che nascite, esercizi di destino: separazione (dall’ambiente di appartenenza), iniziazione vera e propria (le prove), ritorno (al mondo originario). Tre momenti che corrispondono ai tre atti di questo libro e di ogni odissea: partire, viaggiare, tornare. Si tratta in qualche modo della struttura universale di ogni racconto e di ogni vita, perché un rito di passaggio contiene in sé tutta la vita, e il passaggio è sempre una morte che si rivela una nascita. […]
Ulisse è l’eroe che nasce e continua a farlo fino all’ultimo, l’eroe che cresce nella ricerca; ma non di mondi ignoti di cui è curioso: quello è il marchio dell’Ulisse moderno, inaugurato da Dante. Ulisse è l’eroe della nascita, della verità che deve venire definitivamente alla luce dopo essere passata dalla morte, che diventa gestazione, respiro, lotta, slancio creativo, progetto eroico, erotico, sociale, politico, cosmico. Per la prima volta compare un personaggio che ha una profondità sconosciuta ai personaggi monolitici e risolti in un’unica azione dell’Iliade. Ulisse è la scoperta della grandezza dell’uomo mortale, polỳtropos, chiamato a creare e incarnare, per tutta la vita, un destino diverso dal morire: nascere. Un uomo che è straordinario proprio perché porta a compimento tutto ciò che è umano nell’uomo […].
La storia di Ulisse finisce quando è stato detto tutto su come si vive felici e contenti, cioè su come si nasce pur morendo. La sabbia delle clessidre dovrebbe cadere verso l’alto: per ricordarci che l’ultimo respiro è solo la pienezza raggiunta dal primo, e che il nostro destino dà senso a questo inevitabile e continuo morire. E tutta la sabbia di una vita fa un’isola: Itaca. Itaca è tutto ciò che possiamo diventare se smettiamo di schivare la vita, se ci apriamo al suo doloroso miracolo, se non tradiamo il nostro destino.
Il mare è sconosciuto ai felici abitanti del luogo in cui Ulisse troverà la morte. Non può che essere così: dove il mare finisce, finisce anche l’epica del destino. L’eroe si è compiuto, tutto è stato fatto, tutto è stato perso e conquistato, tutto è stato sofferto e amato: tutto è nato e narrato. Oltre l’ultima piega sappiamo solo che non c’è più il mare: finisce il tempo del pianto, del dolore, della nostalgia, dell’inquietudine. C’è Itaca, per sempre: amore, pace, gioia.
Questa Odissea, questa nostra odissea, ci racconta meglio di ogni altra storia mai inventata dagli uomini come “vivere felici e contenti”, come essere all’altezza del nostro irripetibile “c’ero e ci sarò solo una volta”.
Gli eroi dell’arte di essere mortali sono “imperfetti” che, per amore e per amare, diventano “perfetti”. Invece di fuggire tornano. Invece di morire nascono.
A loro è data la grazia di essere vivi, solo a loro.»