“Renderli simili o inoffensivi. L’ordine liberale, gli Stati Uniti e il dilemma della democrazia” di Gabriele Natalizia

Prof. Gabriele Natalizia, Lei è autore del libro Renderli simili o inoffensivi. L’ordine liberale, gli Stati Uniti e il dilemma della democrazia edito da Carocci: qual è il rapporto tra la crisi dell’ordine liberale e l’arretramento della democrazia nel mondo?
Renderli simili o inoffensivi. L'ordine liberale, gli Stati Uniti e il dilemma della democrazia, Gabriele NataliziaDal 2006 Freedom House segnala che ogni anno è maggiore il numero dei Paesi in cui cala il punteggio sulla libertà (composto dagli indicatori “libertà civili” e “diritti politici”) rispetto a quello dove – al contrario – cresce. Si ricordi come l’ordine liberale pur essendo – come tutti gli ordini internazionali – un ordine gerarchico in quanto edificato da qualcuno – gli Stati Uniti – per soddisfare anzitutto i propri interessi in termini di sicurezza, ha sempre avuto l’ambizione di essere diverso da quelli che lo avevano preceduto (si noti comunque, che tutti gli ordini internazionali sono stati presentati come la migliore delle soluzioni possibili da chi li aveva fatti sorgere). Tale diversità stava, per l’appunto, nelle sue qualità liberali, che possono essere sommariamente riassunte in “consenso”, “uguaglianza” e “libertà” e che sarebbero state raggiunte attraverso la partecipazione alle organizzazioni internazionali, all’interdipendenza economica e, infine, all’allargamento democratico.

La diffusione di un medesimo ordine politico tra le unità di un sistema internazionale, storicamente, è stata considerata come un vettore di stabilità perché indurrebbe queste ultime ad accettare più facilmente i vincoli alla loro azione posti dalle istituzioni internazionali – in quanto espressione dei loro stessi principi fondativi – rendendo, quindi, meno importante il differenziale di potere che intercorre tra la potenza dominante e gli Stati secondari come strumento di stabilizzazione dell’ordine. L’arretramento della democrazia, inoltre, contribuisce a indebolire l’ordine liberale perché ne delegittima il garante, ovvero gli Stati Uniti, indicando un aumento del gradimento per regimi alternativi al suo. Quando poi questo gradimento si rivolge ai modelli avanzati da potenze revisioniste, la crisi dell’ordine – prima legata principalmente a cattive performance in campo militare (Afghanistan, Iraq) ed economico (gestione della crisi economico-finanziaria 2007-2013) – assume anche una connotazione di tipo ideologico.

Quale influenza hanno gli ordini esterni su quelli interni degli Stati?
Enorme, mi verrebbe da dire. E questo indipendentemente dal tipo di ordine che prende forma. Solitamente si tende a considerare gli ordini fondati sulla concentrazione del potere – come quelli imperiali ed egemonici – come maggiormente invasivi della sfera interna degli Stati, mentre quelli fondati su una maggiore diffusione del potere come capaci di preservare l’autonomia interna degli Stati. Nel libro cerco di spiegare, anzitutto, che questa rappresentazione idealizzata degli ordini dell’equilibrio è contraddetta dalla storia. Si pensi, anzitutto, a come essi hanno richiesto l’adozione di un assetto politico piuttosto che un altro. L’ordine vestfaliano si fondava sostanzialmente sull’adozione da parte delle unità che lo componevano dell’organizzazione politica statuale, o a come quello del Concerto europeo si fondava sul ripristino della monarchia assoluta laddove era preesistente prima che la marea rivoluzionaria investisse il continente europeo. In secondo luogo, provo a sfatare il mito secondo cui gli ordini egemonici – a differenza di quelli imperiali – sarebbero interessati al solo controllo delle scelte strategiche degli Stati secondari in tema di politica estera. Rifacendomi alla teoria della transizione del potere, sostengo che – proprio per le ragioni espresse nella risposta precedente – le potenze egemoni quando raggiungono il culmine del proprio successo tendono ad ampliare il raggio dei loro impegni, espandendo contestualmente il loro concetto di sicurezza. In questa prospettiva va letto l’approccio strategico degli Stati Uniti che, soprattutto nel post-Guerra fredda, ha integrato a tal punto l’obiettivo dell’allargamento democratico da attribuirgli una funzione di perno.

Quali diverse politiche perseguono la preservazione dello status quo internazionale?
Su questo Robert Gilpin ha dato un contributo fondamentale. Anzitutto occorre distinguere tra soluzioni “interne” ed “esterne”. Le prime possono prendere quattro direzioni diverse. La prima è quella di mettere in moto un rinnovamento interno a livello di istituzioni politiche, militari ed economiche tale da interrompere il ciclo negativo ed aprire una nuova fase di espansione. La seconda è quella di ottimizzare le risorse a disposizione per arrestare le spinte al cambiamento. Entrambe le vie, tuttavia, appaiono difficilmente percorribili da una potenza in declino. La terza e la quarta, invece, hanno natura “estrattiva” e consistono nell’aumento della tassazione che grava sui cittadini della potenza egemone o nella richiesta di maggiori contributi per la preservazione dell’ordine ai Paesi alleati, partner e vassalli. Il pericolo che comportano nel medio termine– ovvero una rivolta interna o esterna causata dal drenaggio di risorse – rischia di essere tuttavia peggiore di quello che contribuiscono a sventare. La soluzione esterna per arrestare il declino, invece, è quella di riportare in equilibrio costi e risorse attraverso la riduzione di questi ultimi. In tal caso sono tre le strade che possono essere imboccate. La prima è l’eliminazione della fonte del problema, ovvero il ricorso a una guerra preventiva da parte della potenza declinante contro quella in ascesa. Questa opzione, tuttavia, trova la sua principale criticità nell’imprevedibilità degli esiti della guerra. La seconda opzione è quella per cui l’egemone deve rafforzare la propria posizione attraverso nuove espansioni, attestandosi su una linea difensiva meno costosa. Tale scelta, tuttavia, nel medio termine può comportare nuovi e insostenibili costi di gestione. Infine, la terza soluzione è quella della dei costi di esercizio dell’egemonia (retrenchment).

Quali sono le ragioni che inducono una potenza egemone a oscillare tra le due politiche – renderli simili o inoffensivi?
La risposta si trova proprio in quanto detto poc’anzi. Uno dei modi per ridurre i costi dell’egemonia è l’abbandono unilaterale degli impegni in territori, dimensioni o funzioni non considerati vitali per la preservazione dell’ordine internazionale. Questo tipo di disimpegno risulta funzionale a concentrare le risorse per preservare l’elemento costitutivo di ogni ordine, ossia la distribuzione di potere su cui esso è fondato. Pertanto, quando l’ordine è stabile la potenza egemonica allarga il concetto di sicurezza integrando al suo interno anche la promozione di un certo modello politico. Si impegna, in altre parole, a rendere gli Stati secondari “simili” a sé stessa. Quando l’ordine risulta sfidato, invece, circoscrive il concetto di sicurezza ai suoi elementi essenziali, preferendo rendere “inoffensivi” – ovvero allineati sulle sole questioni strategiche – gli altri Stati. Naturalmente anche questa scelta non è priva di insidie. Potrebbe essere percepita, sia dagli alleati che dai rivali, come un segno di debolezza, incentivando al contempo tanto il disallineamento quanto la sfida.

Cosa rivela l’analisi comparata della risposta che gli Stati Uniti hanno offerto al “dilemma della democrazia” dal 1945 ad oggi?
Credo che l’elemento più interessante che emerge – spesso è trascurato nella narrazione dei media sempre attenta ad enfatizzare gli elementi di novità – è che la politica estera degli Stati Uniti risulta segnata più dalla “continuità” che dalla “discontinuità” al mutare degli inquilini alla Casa Bianca. Ciò che causa i cambiamenti maggiori non è il colore politico o le preferenze e il vissuto personali dei singoli presidenti, ma il contesto politico-strategico con cui si confrontano (anzitutto, la presenza o meno di sfide “maggiori” all’ordine a guida americana). E così troviamo due presidenti come Clinton e Bush jr., l’uno democratico e l’altro repubblicano, tanto convinti della necessità – nonché della possibilità – di diffondere il modello politico americano da essere disposti a esportarlo anche “in punta di baionette”. E due presidenti come Obama e Trump, così diversi non solo per appartenenza politica ma anche per quanto riguarda stile e personalità, le cui amministrazioni hanno similmente realizzato una contrazione dell’impegno nella promozione della democrazia per far fronte ad altri – e più impellenti – minacce.

Gabriele Natalizia insegna International Relations presso Sapienza Università di Roma. Collabora con il Centro Alti Studi della Difesa (CASD) e con il Centro di Ricerca Cooperazione con l’Eurasia, il Mediterraneo e l’Africa subsahariana (CEMAS-Sapienza). Coordina il Centro studi Geopolitica.info

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