
Queste fonti di ispirazione hanno dei ricaschi, come è normale, sulla produzione di Rembrandt. Basterà citare il caso della grande tela del 1638 raffigurante le Nozze di Sansone (Dresda, Gemäldegalerie). Quando stava cercando le soluzioni compositive più adatte per quest’opera, Rembrandt studiò un’incisione dal grande dipinto murale che Leonardo lasciò a Milano, l’Ultima cena. Esistono infatti tre disegni che ci permettono di capire come l’artista stesse affrontando il problema, squisitamente pittorico, di disporre i personaggi sulla scena, di ‘legare’ un gruppo di personaggi seduti a un tavolo. Il risultato è uno dei dipinti più alti e straordinari del pittore, nato da un’assidua e profonda rimeditazione del prototipo leonardesco al quale si aggiungono poi altri elementi. Fu solamente a partire dalla seconda metà del Seicento e, poi, in modo sempre più marcato nel secolo successivo, che Rembrandt divenne per antonomasia l’equivalente nordico di Caravaggio. E cioè un artista fedele solamente al dato naturale e incurante delle regole che dovrebbero governare una buona composizione.
Come condusse la propria giovinezza a Leida?
Rembrandt nacque in una famiglia che, oggi, potremmo definire benestante. Il padre era non solo un mugnaio, che possedeva il famoso mulino sul quale si sono versati fiumi d’inchiostro, ma era anche un uomo in grado di acquistare una serie di immobili sparsi nella nuova zona abitativa che coinvolse Leida a partire dal 1611. La madre proveniva da una famiglia di origini non modeste, che aveva poi accresciuto il proprio status grazie agli affari: erano infatti panettieri. Il pittore aveva una famiglia numerosa. Grazie a una dichiarazione delle tasse sappiamo che nel 1622 nella casa di famiglia, nel quartiere del Weddesteeg, Rembrandt risiedeva con i genitori e altri cinque fratelli, tre maschi e due femmine. Il fratello maggiore Adriæn aveva già lasciato la casa paterna dopo essersi sposato. Quindi una famiglia, diciamo così, borghese, in grado di offrire ai loro figli un tenore di vita più che dignitoso. Ecco come mai non deve stupire che Rembrandt abbia frequentato la Scuola Latina, cioè l’istituzione che preparava i giovani ad affrontare gli studi universitari. Leida aveva la più antica – e a lungo unica – Università delle Province Unite (fu fondata nel 1575). E fu lì che Rembrandt si immatricolò nel 1620 e fino al 1622, come ha dimostrato la scoperta del suo nome nei registri delle iscrizioni per quell’anno. Ovviamente non sapremo mai se il ventenne Rembrandt fosse uno studente modello, ma è chiaro che questi dati sono sufficienti per corroborare le notizie tramandate da alcune fonti. Notizie che, senza questi ritrovamenti documentari, a lungo sono state solidamente interpretate come semplici topoi di ascendenza classica. Ecco, forzando un po’ si potrebbe dire che l’idea che oggi abbiamo del giovane pittore si potrebbe avvicinare a quella di un rampollo di una famiglia borghese.
Poi la svolta verso la pittura. Come tramanda Jan Orlers nella sua biografia del pittore (1641), i genitori si convinsero a mettere il figlio a bottega da un artista locale, Jacob van Swanenburgh. Il nome di van Swanenburgh oggi è noto solo agli specialisti, ma all’epoca non fu una scelta casuale. Era un pittore che aveva trascorso lunghi anni in Italia, e inoltre era molto ben inserito nell’élite cittadina. Inserire il figlio presso la sua bottega – e di conseguenza pagare il maestro per gli insegnamenti che avrebbe elargito al giovane – voleva dire offrirgli la possibilità di entrare in contatto con uno dei migliori artisti del momento. Dopo questo che fu un apprendistato durato qualche anno (all’incirca dal 1622 al 1625), Rembrandt andò ad Amsterdam, dove rimase sei mesi nella bottega di Pieter Lastman, cioè il più famoso pittore di storia del momento. Anche Lastman aveva alle spalle un lungo soggiorno italiano, e per tutta la propria carriera Rembrandt non smise di tornare a meditare sui quadri e sulle composizioni del maestro. Dopo questo periodo ad Amsterdam Rembrandt tornò a Leida, e iniziò a svolgere un’attività in proprio, facilitato anche dal fatto che la città non aveva una gilda per gli artisti, e quindi era molto semplice avviare uno studio. Ben presto accolse anche i primi allievi, come Isaac de Jouderville o Gerrit Dou.
Quali vicende segnarono gli anni ad Amsterdam?
Possiamo dedurre dai documenti superstiti che Rembrandt viveva in pianta stabile ad Amsterdam per lo meno all’altezza del 1632. È probabile che per qualche tempo si spostasse tra Leida e Amsterdam, sino al definitivo trasferimento in città. Amsterdam in quegli anni era una delle città più popolose e ricche d’Europa, dove il mercato artistico era in pieno fermento e la domanda di opere d’arte era altissima. Era naturale che un giovane ambizioso e sicuro dei propri mezzi quale Rembrandt fu guardasse ad Amsterdam come luogo d’elezione dove esercitare la propria arte. Lì viveva e lavorava presso Hendrick van Uylenburgh, un mercante che procacciava le commissioni a Rembrandt. Dobbiamo immaginare una struttura simile a un moderno atelier: i clienti, giunti attraverso Uylenburgh, commissionavano un quadro, solitamente un ritratto, che Rembrandt eseguiva. Fu una ditta molto rodata e prolifica. Basti pensare che solo tra il 1631 e il 1634 Rembrandt produsse un numero altissimo di ritratti (circa 65). La fama di Rembrandt crebbe enormemente proprio grazie al genere pittorico del ritratto, che declinò in vari modi e del quale ci ha lasciato esempi sommi come la Lezione di anatomia del Dottor Tulp (1632). La recente mostra al museo Thyssen-Bornemisza di Madrid (Rembrandt y el retrato en Ámsterdam, 1590-1670, curata da Norbert Middelkoop) ha mostrato in maniera ineccepibile come Rembrandt fosse riuscito a intercettare l’ampia richiesta di ritratti, a fronte di una situazione in cui, tutto sommato, i bravi ritrattisti erano pochi – i nomi ‘di punta’ sono quelli di Thomas de Keyser e Nicolæs Pickenoy.
Riuscire ad affermarsi sulla scena artistica di Amsterdam non era affatto cosa facile, per lo meno sino al 1633 circa. Quello è l’anno in cui morì Lastman, ma può valere come data indicativa per l’ideale passaggio di testimone tra la vecchia generazione (quella di Lastman, appunto) e quella di Rembrandt. Non è un caso, ad esempio, che dei pittori di maggior successo (sia per la pittura di storia che per il ritratto) della nuova generazione nessuno fosse nato ad Amsterdam: Rembrandt arrivò da Leida, Sandrart era di Norimberga – ma con alle spalle un lungo soggiorno romano – Govert Flinck e Jacob Backer provenivano da Leuuwarden, in Frisia. Riuscendo a conquistare una committenza assai esigente e un mercato estremamente competitivo, Rembrandt divenne il più ricercato pittore cittadino in nemmeno un lustro. Arnold Houbraken, che riservò una lunga biografia all’artista nel suo trattato pubblicato ad Amsterdam tra 1718 e 1721, scriveva infatti che «bisogna pagarlo e, in più, anche pregarlo».
Come avvenne l’approdo al grande formato?
L’obiettivo di Rembrandt era di diventare un pittore ‘di storia’, cioè di praticare il genere considerato più alto e nobile per gli artisti. Oltre al valore intrinseco dei soggetti raffigurati (ad esempio storie bibliche, o tratte dall’Antichità classica), i quadri di storia offrivano la possibilità di dimostrare la bravura dell’artista poiché lo costringevano a essere egualmente versato nella raffigurazione delle figure, del paesaggio, degli elementi che definiscono una precisa collocazione temporale e così via. In breve: tutti quegli elementi che i pittori ‘specializzati’ in singoli generi (ritratto, natura morta, paesaggio ecc…) faticano a governare del tutto e tutti insieme. Il pittore di storia, invece, deve sapere come raffigurare un’ambientazione storica, o come disporre i panneggi delle figure a seconda dell’azione che si compie. Ecco, Rembrandt da giovane ambiva a divenire un pittore di storia. E questo lo indica anche il suo alunnato presso Lastman, cioè, come già ricordato, il più importante pittore di storia dei primi decenni del XVII secolo in Olanda. Rembrandt sino alla metà degli anni Trenta eseguì quadri di storia di piccolo formato oltre ai ritratti. Era una scelta pratica: realizzare dipinti di svariati metri quadri senza avere la certezza di poterli vendere sarebbe stato troppo rischioso. Qui è necessario introdurre una minima digressione. Dobbiamo pensare che, a differenza di altri contesti (e basti pensare quello italiano), nell’Olanda del Seicento era venuta a mancare uno dei committenti più solleciti, cioè la Chiesa cattolica. Gli artisti si trovavano, il più delle volte, a produrre opere per il libero mercato. Le commissioni giungevano dalla corte dell’Aia o dai privati. Grandi quadri storici furono commissionati, ad esempio, per il nuovo Municipio costruito da Jacob van Campen o per l’Oranjezaal del palazzo di Huis ten Bosch. Ma si trattò più di eccezioni che di regole. Anche i ritratti cosiddetti di gruppo (come ad esempio la già ricordata Lezione di anatomia del Dottor Tulp) erano pagati e commissionati dai singoli componenti delle gilde. Rembrandt iniziò dunque a produrre grandi quadri di soggetto storico solo nel momento in cui stabilì una sua propria bottega, e quando il suo nome era ormai ben noto. Quadri di storia come il bellissimo Accecamento di Sansone di Francoforte (1636) o il Festino di Baldassarre di Londra (1635/36) sarebbero stati impensabili qualche anno prima perché il pittore non sarebbe stato in grado nemmeno di riuscire a ripagare i materiali necessari per la loro realizzazione!
Che rapporto ebbe il pittore con la committenza?
Nella sua lunga carriera Rembrandt ebbe diversi committenti, con i quali i rapporti furono sempre (o quasi) abbastanza burrascosi. Di certo il committente più prestigioso col quale ebbe a che fare fu Federico Enrico d’Orange, cioè lo statolder delle Province Unite, per il quale realizzò la cosiddetta serie della Passione di Cristo, cioè le tavolette oggi conservate alla Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. Dal rapporto con questo come con altri committenti si comprende come Rembrandt considerasse la propria arte come una vera e propria arte liberale. È il principio per cui a un’opera di grande valore corrisponde un alto compenso pecuniario. E questo si lega chiaramente alla fama dell’autore. Quindi, in sostanza, Rembrandt così facendo da un lato dichiarava un alto valore per le sue opere – sia simbolico che pecuniario – e dall’altro auto-dichiarava la propria eccellenza a quel gruppo di intenditori e appassionati che guardava con interesse alle sue opere. Questo è un dato importante da sottolineare. Sin dalla sua giovinezza, infatti, il pittore aveva attorno una serie di appassionati, i cosiddetti “amatori” (il vocabolo tecnico olandese è liefhebbers), che nutrivano grandi aspettative. Non si trattò di un rapporto committente-artista, per lo meno non negli anni di Leida. Poi, ad Amsterdam, sempre di più le cose iniziarono a cambiare, ma sempre entro una dinamica di questo tipo. È tenendo presente quest’orizzonte di attesa che possiamo situare al meglio anche alcune testimonianze sull’artista, come le menzioni nel trattato di Philips Angel, Lof der Schilder-konst (In lode dell’arte della pittura) del 1642, o le lodi che negli anni Sessanta gli tributarono poeti come Jeremias de Decker.
Di fronte a committenti recalcitranti a sborsare quanto Rembrandt riteneva gli fosse dovuto, il pittore ingaggio anche alcune aspre battaglie, come nel caso del ritratto di Andries de Graeff, cioè uno dei più ricchi magnati di Amsterdam, proveniente da una famiglia potente e influente, del 1639 (probabilmente da identificare col ritratto maschile oggi a Kassel), per la valutazione del quale fu istituita una commissione di esperti – tra cui anche Hendrick van Uylenburgh – che stabilì che de Graeff doveva corrispondere al pittor 500 fiorini: una cifra di tutto rispetto.
Rembrandt dedicò buona parte della sua attività artistica alle incisioni: quali opere ne scaturirono?
Quello di Rembrandt con l’incisione è un rapporto di grande passione. Dobbiamo prima fare una premessa, che riguarda l’altro grande pittore del Seicento: Rubens. Il fiammingo aveva istituito una serie di rapporti privilegiati con alcuni incisori (per esempio Lucas Vorsterman) che traducevano le sue opere con questo grande mezzo espressivo. Così facendo Rubens si era garantito la massima circolazione dei propri quadri. Al principio fu a questo tipo di incisione che Rembrandt guardò, cioè a un mezzo che trasponeva le invenzioni pittoriche attraverso il bulino e il rame. Poi iniziò a sperimentare sempre di più e l’incisione divenne da linguaggio, per così dire, ausiliario, a vera e propria forma espressiva autonoma e parallela alla pittura. Questo è un passaggio che si compie, sostanzialmente, attorno alla metà degli anni Trenta. Da quel momento in poi l’artista si spinse sempre oltre nelle sue sperimentazioni. Gli occhi fissi sugli esempi di Luca di Leida e Dürer, Marcantonio Raimondi e i Carracci, Rembrandt usò le incisioni come serbatoio di modelli ai quali attingere per i propri dipinti. Un esempio su tutti: l’Ascensione di Tiziano ai Frari che egli conobbe evidentemente attraverso un’incisione e che è il ‘modello’ per l’Ascensione di Cristo del 1636 (Monaco, Alte Pinakothek).
Se fino agli anni Trenta l’incisione, come detto, costituì una sorta di linguaggio che corre parallelo rispetto a quello pittorico, a partire dagli anni Quaranta essa divenne un vero e proprio mezzo espressivo autonomo e distinto, in cui Rembrandt smise di tentare di riprodurre il pittoricismo dei dipinti. Il continuo, incessante e defatigante lavoro sulle lastre lo condusse a padroneggiare in modo eccelso i segreti tecnici dell’incisione e a piegare la tecnica alle più diverse esigenze espressive. Il culmine di questo processo si ebbe, è assai noto, con la cosiddetta Stampa dei cento fiorini, che deve il nome a una leggenda circa il suo prezzo. Non entro nella complessa iconografia dell’opera, che raffigura tutto quanto il diciannovesimo capitolo del Vangelo di Matteo. Vorrei invece sottolineare i moltissimi effetti che Rembrandt ottenne con l’incisione, in una combinazione di acquaforte, bulino e tocchi a puntasecca.
Proprio quest’ultima tecnica (così chiamata perché si incide direttamente sulla lastra di rame, senza preparazioni) fu via via assai sfruttata dall’artista negli anni Cinquanta, dati i suoi effetti pittorici e sfumati. Una pietra miliare nella storia dell’incisione sono infatti i grandi fogli che raffigurano la Crocifissione del 1653 e Cristo presentato al popolo di due anni successivo: furono tirate da lastre completamente realizzate a puntasecca. E poiché questa è una tecnica che non consente grandi tirature, a differenza dell’acquaforte, quando le lastre cominciarono a rovinarsi, Rembrandt le rilavorò completamente, ottenendo due nuove composizioni da poter sfruttare.
Come maturò la cosiddetta bancarotta del 1656?
Il 1656 segnò uno spartiacque nella vita e nella carriera di Rembrandt. Nel luglio di quell’anno, infatti, avanzò ufficiale richiesta all’Alta Corte dell’Aia di avviare le pratiche per la «cessio bonorum». In pratica, il pittore cedeva i suoi beni alla Corte, che ne avrebbe disposto per ripagare i debitori. Simile alle moderne procedure di fallimento societario, la «cessio bonorum» garantiva a chi la richiedeva che, una volta passata la procedura in mano agli organi giudiziari, nulla fosse più richiesto a suo carico. Era la procedura più sicura per evitare il bando o l’incarcerazione. Gli eventi che portarono a questo atto si innescarono per lo meno tre anni prima. Dal 1653, infatti, il pittore iniziò ad avere una serie di importanti problemi legati alla casa acquistata nel 1639 sulla Breestraat (oggi il Museum het Rembrandthuis). Va detto che oggi, rispetto al passato, tendiamo a leggere questi eventi non solo come responsabilità di Rembrandt e della sua dissennata gestione delle proprie finanze. Il momento in cui si avviò il processo che avrebbe portato al 1656 non era certo dei migliori. Appena un anno prima, nel 1652, si era avviata la prima guerra con L’Inghilterra. Se ne sarebbero susseguite altre tre entro la fine del secolo. Per le Sette Province Unite fu un duro colpo: i commerci, cioè il cuore pulsante dell’economia olandese, furono drasticamente ridimensionati (basti considerare le difficoltà di raggiungere le Indie Orientali e Occidentali). Christoffel Thijs, cioè colui che aveva venduto la casa a Rembrandt nel 1639, non fece nulla di più né nulla di meno di quanto non fecero altre migliaia di cittadini: avviò le pratiche per recuperare i propri crediti. Anche Rembrandt a propria volta era creditore di alcuni debiti, e li richiese indietro; ma fu sfortunato. In una situazione come quella, di vera e propria corsa al recupero del credito, l’economia crollò, e a risentirne furono per primi i beni di lusso, cioè proprio il tipo di beni che produceva Rembrandt. Sono vicende molto complesse, che noi oggi non riusciamo a ricostruire nella loro totalità: molti documenti sono mancanti, e spesso ci gettano nel campo delle ipotesi, poiché dietro i passaggi formali non sappiamo veramente come andarono le cose. Non sappiamo per quale motivo, ad esempio, una volta che ebbe trovato il denaro necessario per ripagare Thijs, Rembrandt non versò la cifra completa, ma lasciò scoperta una fetta consistente di quel debito. Come impiegò quei 1.168 fiorini che doveva a Thijs è una specie di mistero. Ritessere queste vicende ha richiesto un lavoro e uno scavo archivistico paziente, in cui generazioni di studiosi hanno contribuito a definirne trama e ordito. Basti pensare che lo studio più accurato sulla bancarotta del 1656 è stato pubblicato da Paul Crenshaw solo nel 2006!
Come visse il pittore gli anni senili?
Dopo aver tentato di tutto per salvare la casa e non esserci riuscito (fu messa all’asta nel 1658) Rembrandt con il figlio Titus insieme alla compagna del pittore Hendrickje Stoffels e alla figlia avuta da Rembrandt, Cornelia, si trasferirono in una nuova casa, in quartiere meno alla moda della Breestraat, il Rozengracht. Lì aveva un piccolo gruppo di amici che gli erano vicini e che in alcune occasioni furono effigiati dall’artista in alcune incisioni, come per esempio lo speziale Abraham Francen. L’idea di un pittore abbandonato da tutti, solo e povero, tanto cara ai romantici, è in realtà del tutto fasulla. Certo, furono anni difficili da quanto possiamo capire dai documenti, e per quanto in effetti pare ci fu un certo ridimensionamento nei gusti dei committenti, Rembrandt rimaneva comunque un pittore in grado di accaparrarsi commissioni prestigiose come quella per la gilda dei drappieri, per cui realizzò il meraviglioso dipinto del 1662, i cosiddetti “Sindaci”.
E poi ricominciò a collezionare opere d’arte. Nell’inventario post mortem, infatti, sono ricordati alcuni elementi che fanno pensare proprio questo. Certo, nulla a che vedere con la caleidoscopica collezione ospitata sulla Breestraat (e che noi conosciamo grazie all’inventario stilato in occasione dalle pratiche legali del 1656), ma è un elemento che fa pensare che l’artista non aveva per nulla smesso di dipingere e, per quanto difficile e funestata dai lutti, la sua dovette tutto sommato essere una vecchiaia produttiva.
Marco M. Mascolo ha studiato all’Università di Siena, alla Scuola Normale di Pisa ed è stato borsista post-dottorale al Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max-Planck-Institut. È autore dei volumi «Un occhio finissimo». Wilhelm R. Valentiner (1880-1958) storico dell’arte tra Germania e Stati Uniti (Viella, 2017) e Roberto Longhi. Percorsi tra le due guerre (scritto con Francesco Torchiani, Officina Libraria, 2020), oltre che di saggi apparsi su riviste specialistiche come «The Burlington Magazine», «Visual Resources», «Prospettiva». Con Robert Brennan, C. Oliver O’Donnell e Alessandro Nova ha curato il volume Art History Before English: Negotiating a European Lingua Franca from Vasari to the Present (Officina Libraria, 2021).