
Allora, se gli uomini prevalgono sia nel ruolo di autori che in quello di vittime di violenza grave, possiamo concludere che quest’ultima sia una condotta tipica più del maschile che del femminile. Ultima domanda retorica: questo accade perché gli uomini sono cattivi, o perlomeno più cattivi delle donne? Naturalmente no. Accade perché quello tra maschilità e violenza, nella nostra cultura e società, è un legame strutturato in modo profondo, al punto che l’una definisce l’altro, e viceversa. L’appartenenza di genere – il nostro riconoscerci e essere riconosciuti come uomini, donne (o nessuno dei due) – regola il nostro rapporto con la violenza, che può essere tollerata, persino incoraggiata o al contrario sanzionata e repressa a seconda del nostro genere. Ben lo raccontano espressioni di senso comune. Ad esempio, può capitare di sentir giustificare un bambino aggressivo, anche fisicamente, con queste parole: “beh si è molto…”fisico”, si sa, i maschietti…”. Ma il bambino non è “fisico”, più semplicemente, è autorizzato ad esprimere la propria fisicità, anche nelle sue forme più antisociali, o perlomeno non viene limitato con la prontezza con cui limiteremmo invece una bambina: se troppo irruente e aggressiva, a lei diremmo “non fare il maschiaccio”.
Viceversa, l’esercizio della violenza, o il rifiutarsi di esercitarla, contribuisce a determinare la nostra appartenenza di genere, dice “sono maschio”, “sono femmina” e, dice anche quale tipo di maschilità e femminilità io incarni. Si pensi, di nuovo, alla tolleranza, alla sostanziale condiscendenza con cui famiglie e scuola accolgono le risse tra adolescenti. Liquidandole – se non sono troppo gravi – a “cose tra ragazzi”, una sorta di doveroso rito di passaggio, di prova di “virilità” imposta dall’età. Ma se è a ingaggiare una rissa sono ragazzine, le pene possono essere più severe (come accaduto in recenti fatti di cronaca in Italia) perché le si vogliono esemplari e capaci di comunicare il messaggio che per il loro genere quella condotta è inappropriata. Nei media questo legame tra genere e violenza è molto evidente. La violenza è parte integrante della costruzione del maschile: ai maschi proponiamo storie e giocattoli fondati sull’avventura, la conquista, l’adrenalina, il confronto fisico, spesso le armi; gli interessi coltivati nelle femmine sono più all’insegna della “pace”, per così dire: relazioni interpersonali e romanticismo, cura degli altri (bambolotti, cuccioli, ecc.) e sentimenti, moda e aspetto fisico. Questo processo di “socializzazione”, tale per cui fin dalla più tenera età si differenziano giochi e intrattenimenti (ma anche abbigliamento, maschere di carnevale, ecc.) proposti a maschie e femmine molto contribuisce a spiegare la maggiore propensione dei maschi alla violenza (anche nelle sue espressioni “ludiche”).
Quali sono i modelli causali impiegati per spiegare la violenza maschile contro le donne?
In sociologia c’è un vivace dibattito sulle motivazioni alla base del fenomeno della violenza di genere, dibattito che si polarizza in due grandi correnti di pensiero: la prima attribuisce il fenomeno all’insufficiente potere femminile, la seconda, di contro, collega la violenza di genere a un eccessivo potere delle donne. In altri termini, la violenza maschile è letta da un lato come necessaria per indirizzare i comportamenti femminili (lo ius corrigendi del pater familias) e per renderli funzionali all’ordine patriarcale, dall’altro come reazione alla libertà femminile raggiunta grazie al superamento dell’ordine patriarcale stesso. In questo secondo caso la violenza è interpretabile come espressione della paura nei confronti di un femminile che non risponde più alle aspettative patriarcali di inferiorità, come reazione di un uomo che sente minacciata la sua autorità, il suo potere, il suo controllo su una donna/compagna ritenuta “proprietà” personale. È importante, in ogni caso, ricordare la natura strutturale e pervasiva della violenza maschile contro le donne: femminicidi e reati sessuali gravi costituiscono solo la punta dell’iceberg, la manifestazione più eclatante e macroscopica, ma collocata in un rapporto di continuità – lo si definisce appunto il “continuum della violenza” – con una miriade di altre espressioni: dallo stalking alle molestie, dai ricatti sessuali allo stupro, che interessano ambiti diversi della vita privata e pubblica, attraversando contesti come la famiglia e le istituzioni, i luoghi di lavoro e la politica. In questa visione la violenza di un genere sull’altro è, sostanzialmente, un complemento ad altre forme di dominio, ad altre asimmetrie e disuguaglianze tra i sessi.
Il Suo libro tratta anche della violenza di genere femminile: da dove origina e come si esprime?
Ad occuparsi della violenza femminile sono state varie discipline (sociologia della devianza, criminologia, psicologia, psicanalisi). Nel libro noi abbiamo privilegiato le spiegazioni di matrice sociologica, perché siamo convinte che per spiegare i comportamenti umani sia fondamentale prendere in considerazione il ruolo della “socializzazione”, ovvero quel processo attraverso cui, fin da piccoli, apprendiamo le norme, i valori, i linguaggi, i modelli di comportamento proprio del contesto sociale e culturale in cui nasciamo. Ovviamente i modelli rilevanti per ciascun individuo variano in funzione di una serie di parametri, tra cui il genere. La socializzazione alla femminilità si traduce nell’interiorizzazione, da parte delle bambine, di norme e regole di condotta che prescrivono di censurare l’aggressività per non incorrere nella disapprovazione sociale, dal momento che l’ideale di femminilità più diffuso vuole ragazze e donne docili, mansuete, e avverse a comportamenti lesivi del prossimo. Anche se la socializzazione ha un ruolo fondamentale, non è in grado di spiegare tutto: alcune donne, infatti, non si conformino agli stereotipi culturali della «femminilità» nonostante vengano socializzate ad essi. È fondamentale, per spiegare tanto la violenza maschile quanto quella femminile, considerare anche l’intersecarsi del genere con altri assi di potere/disuguaglianza, come la razza, la classe, l’età, ecc.
Infine, quanto alle manifestazioni della violenza e aggressività femminile, bisogna ricordare che non esistono reati «tipici», ovvero commessi esclusivamente dalle donne (come detto, esse compaiono in tutte le fattispecie di reato rilevate per gli uomini). Tuttavia, sappiamo che la violenza interpersonale di tipo grave viene esercitata dalle donne soprattutto entro le relazioni familiari e intime: la violenza contro il partner (o ex tale), il figlicidio e l’infanticidio. In merito alla violenza contro il partner, bisogna specificare che l’incidenza rimane di gran lunga inferiore rispetto a quella degli uomini sulle (ex)partner, che costituisce la principale causa di morte per le donne (due terzi delle vittime femminili di omicidio doloso perdono la vita nell’ambito, appunto, di uomini cui sono legate da relazioni di prossimità). Soprattutto, appare chiaro che una larga parte di omicidi del/la partner perpetrati da donne – ma nessuno di quelli perpetrati da uomini – sono atti di autodifesa cui si ricorre dopo anni di angherie, quando è esaurita ogni altra risorsa e si teme per la propria vita. Viceversa, i moventi tipici degli uomini appartengono in minima parte, se non per niente, alle donne: ad esempio, la ritorsione per la separazione o per l’infedeltà, o i cosiddetti «mercy» killing, cioè gli omicidi «altruistici», che vedono un uomo uccidere la propria compagna e se stesso per porre fine a una situazione di protratta sofferenza (magari causata da indigenza economica, malattie invalidanti proprie o della moglie, ecc.). Questo femminicidi-suicidi costituiscono comunque abuso di potere, perché un uomo si erige a arbitro non solo della propria vita e della propria morte, ma anche di quella della moglie/compagna, e sceglie al posto suo (il contrario, a parità di condizioni e disperazione, non avviene mai: ancora una dimostrazione della maggiore accettabilità culturale dell’esercizio di violenza da parte degli uomini, e della loro maggiore propensione alla stessa).
Infine, un dato che mi ha colpito, e su cui credo sarebbe interessane indagare, è la maggiore diffusione tra le donne, rispetto a quanto non avvenga tra gli uomini, di condotte autolesioniste (dai disturbi alimentati all’infliggersi mutilazioni o altri danni fisici). Anche questa può e deve essere considerate una forma di violenza, benché autodiretta (diretta contro di sé) e non eterodiretta (diretta verso gli altri).
Il Suo libro esamina alcuni casi di studio relativi alla figura della donna armata nelle serie Tv: cosa emerge dalla Sua indagine?
Abbiamo deciso di includere nella nostra esplorazione anche questa tipologia di personaggi perché, anche se dell’ordine e della legge non sono nemiche (come le criminali) ma alleate e anzi tutrici, costituiscono comunque figure controverse, e con le criminali posseggono tratti in comune: esibiscono qualità tradizionalmente maschili, e in mondi tradizionalmente maschili si muovono; per di più spesso maneggiano un’arma, che le rende «falliche» e dunque minacciose. Negli ultimi anni, tanto negli USA quanto in Europa, Italia inclusa, sono andate aumentando le figure di donne detective e donne poliziotto, spesso protagoniste di serie di successo.
Sono personaggi positivi e innovativi: occupano ruoli di comando, sono sicure di sé e brillanti, dedite al lavoro e tenaci, e sanno farsi rispettare. E tuttavia, dalla nostra analisi (confermata anche dalla letteratura di settore) emerge la tendenza a “compensare” questi tratti assertivi: se biografie segnate da lutti e perdite non risparmiano neppure i personaggi maschili, e servono in tutti i casi a aumentare il pathos e lo spessore dei personaggi, nelle donne si registrano difficoltà caratteriali e emotive precise: sono spesso algide, introverse, incapaci di comunicare e di avere relazioni sentimentali appaganti. In particolare, ultimamente tra le protagoniste imperversano bipolarismo (Homeland-Caccia alla spia), amnesie (Marcella, Itv, 2016-oggi), ipertimesia (Carrie Wells di Unforgettable) e soprattutto la sindrome di Asperger: ne soffrono Lisbeth Salander di Uomini che odiano le donne, Temperance Brennan (Bones, Fox, 2005-oggi) e Saga Norén, detective di Bron/Broen, che mantiene questa caratteristica sia nel remake statunitense (The Bridge, FX, 2013-2014) che nell’adattamento franco-inglese (The Tunnel, Canal+/Sky Atlantic, 2013-2016). I disturbi collocati sullo spettro dell’autismo hanno l’effetto di compromettere proprio quelle capacità relazionali e di empatia che in una visione tradizionale costituiscono risorse specificamente femminili.
In altri termini, assistiamo da qualche anno all’allinearsi delle poliziotte contemporanee al prototipo, tipicamente maschile, del detective brillante ma socialmente disfunzionale alla Sherlock Holmes. La forte omologazione al modello del detective uomo caratterizza il rapporto con il lavoro (la maggioranza delle poliziotte si vota interamente al lavoro, cui sacrifica vita affettiva e familiare), caratterizza il loro stile investigativo e talvolta persino la sessualità, perché le “nostre” poliziotte ereditano spesso i tratti più meccanici e stereotipati della sessualità maschile (priva di relazione, compulsiva, strumentale) di cui la loro appare mero calco. Questa omologazione segnala che la presenza femminile nelle istituzioni di polizia della fiction è tutt’altro che naturalizzata. Il caso italiano è paradigmatico: la «maschilizzazione» della donna in ruolo di comando è opzione unica da almeno quindici anni nel poliziesco action targato Taodue, che di queste figure più è ricco (Giulia Corsi di Distretto di Polizia, di Lucia Brancato di Ris Roma, Claudia Mares di Squadra Antimafia).