“Reddito e Costituzione. La cifra smarrita” di Camilla Buzzacchi

Prof.ssa Camilla Buzzacchi, Lei è autrice del libro Reddito e Costituzione. La cifra smarrita, edito da FrancoAngeli: quale rilevanza assume, nella Costituzione repubblicana, la ricchezza?
Reddito e Costituzione. La cifra smarrita, Camilla BuzzacchiIl mio studio sul ruolo che il fenomeno economico del «reddito» – ma si può dire, più in generale, della «ricchezza» privata – svolge nel quadro della nostra Costituzione parte dalla constatazione della significativa presenza di questa categoria in questo Testo fondamentale: il reddito ricorre con riferimento a molteplici e diversi interessi, ed in relazione a numerose situazioni giuridiche. Ciò mi è parso attestare una sua rilevanza specifica, e l’interrogativo affrontato è stato rispetto ad una connotazione di necessaria sintonia con i valori e le finalità riconosciuti e protetti nella Carta del 1948.

Tra l’altro questa «attenzione» costituzionale nei confronti dell’entità materiale del valore economico attrae ulteriormente, sul piano della riflessione scientifica, se si considera questa epoca di crescente rilevanza della dimensione finanziaria dei rapporti economici, con un’economia reale che risulta recessiva a confronto di quella finanziaria. A maggior ragione il fenomeno della produzione della ricchezza privata deve necessariamente sintonizzarsi – nello scenario attuale della c.d. «finanziarizzazione» – con la prospettiva del disegno costituzionale.

Se dunque diverse sono le manifestazioni di valore economico, alle quali la Costituzione attribuisce risalto, il loro riconoscimento non può essere casuale e procedere in maniera disordinata: esse vanno piuttosto collegate secondo una logica di insieme. La loro presenza all’interno delle norme di vertice deve potersi leggere in coerenza con l’assetto sociale, culturale, economico e politico che ci si aspetta che caratterizzi la comunità nazionale. Ciò è vero nel momento presente, come lo è stato in tutto lo sviluppo di vigenza e di applicazione della Costituzione.

È evidente, infatti, che le manifestazioni del ruolo della ricchezza economica avevano una loro specifica valenza al tempo della loro prima formulazione: l’epoca costituente e dei primi passi del nuovo ordinamento. Ma poi hanno sicuramente assunto nuove e differenti valenze nello svolgimento del cammino della Repubblica. Nel passaggio storico attuale, segnato da emergenze economiche, sanitarie e anche umanitarie, e contraddistinto da assetti ed aspettative complessi, e molto spesso fortemente conflittuali, la funzione assegnata dalla Costituzione al reddito – nelle sue più diverse forme – non può essere diversa da quella che, in origine le era stata assegnata: non si potrebbe infatti immaginare un’impronta di «volubilità» del progetto costituzionale. Al contrario, la convinzione è che le nuove valenze della ricchezza altro non siano se non espressioni esteriori di un nucleo valoriale che è stabile ed uniforme.

Si tratta del nucleo dei valori a fondamento del testo costituzionale, che mantengono inalterata validità da più di settant’anni e che hanno il pregio di potersi declinare diversamente nell’evolvere dei rapporti all’interno della comunità nazionale: dimostrandosi vigenti ed operanti anche in presenza di decisivi mutamenti sociali e culturali. La lettura costituzionale del fenomeno della produzione della ricchezza privata non può che essere effettuato alla luce di valori che mantengono perdurante legittimità, cosicché il variare dei modi di generazione e di impiego del reddito non può sottrarsi ad un quadro di principi che, nel tempo, conserva per intero la propria portata ed efficacia. Anche perché non è ammissibile che le regole in materia economica si ispirino ad una logica indipendente da quella che caratterizza l’intera Costituzione nel suo complesso: il presupposto da cui sono partita è che l’efficienza economica non sia, di per sé, un valore.

Di conseguenza la mia forte convinzione è che l’economia non trovi in sé stessa i criteri di valutazione del proprio funzionamento, ma debba essere giudicata in riferimento alla sua capacità di dispiegarsi in sintonia coi valori sociali fondamentali: ne consegue che il contesto economico, e il benessere che esso è in grado di produrre, non sono fine ma «mezzo». Il fine va allora ricercato, anche a fronte di modalità di produzione della ricchezza che mutano nel tempo, in scenari di progresso umano che non cessano di fondarsi sul punto di partenza: la mappa valoriale della Carta fondamentale, che indica la prospettiva della piena valorizzazione della dignità umana. Tali scenari di progresso devono necessariamente porsi l’orizzonte della «ripartizione» e della «distribuzione»: e dunque svilupparsi lungo percorsi che non possono ignorare la realtà delle tante diseguaglianze; e che sono chiamati ad incidere su di esse attraverso operazioni redistributive.

Che ruolo gioca la produzione del valore economico rispetto al disegno costituzionale?
La produzione del valore economico acquista rilievo rispetto a situazioni molto eterogenee nella Carta fondamentale: l’esistenza di un reddito o la sua assenza rappresentano circostanze che possono incidere sulle finalità proprie della Costituzione, la quale provvede allora a indicare interventi pubblici capaci di correggere distorsioni derivanti da redditi che esistono, o menomazioni di interessi prodotte da redditi che mancano.

Lo sforzo, in questo lavoro, è stato di ragionare sulla vigenza del quadro dei valori costituzionali rispetto a modalità di creazione di prodotto economico tipiche dell’assetto attuale della società e dell’economia. Tale assetto è quello dell’economia di mercato: l’obiettivo perseguito è stato di inquadrare questo sistema di produzione del valore a partire dalle logiche che discendono dal patto costituzionale.

L’impostazione adottata è stata quella di esaminare la tematica della ricchezza con un approccio più ampio di quanto avverrebbe applicando solo le categorie delle discipline economiche. La ricchezza, pur essendo una grandezza di natura finanziaria, può essere inquadrata in una prospettiva allargata, che tenga conto anche di fattori anzitutto istituzionali: perché se crescita e sviluppo economico – ovvero le condizioni della creazione della ricchezza – sono processi che trasformano l’economia e la società in tutte le dimensioni, essi coinvolgono le istituzioni e l’agire collettivo di molteplici soggetti, privati e pubblici. La loro comprensione deve essere quindi effettuata tenendo conto delle tante prospettive che su di essi influiscono; e che da essi sono determinate. Un’analisi costituzionale della ricchezza deve dunque basarsi sui meccanismi di misurazione che le scienze economiche mettono a disposizione, ma deve altresì verificare se il fenomeno della produzione e dell’impiego della stessa – nonché quello, più che mai di carattere “costituzionale”, della sua redistribuzione – rispondono al quadro di principi e regole che l’ordinamento costituzionale ha fissato.

Quali direttive offre la nostra Carta fondamentale su temi si rapportano col “reddito” come lavoro, sicurezza sociale, libertà economiche, tributi, risparmio e debito pubblico?
Gli ambiti richiamati nella domanda, e affrontati nel libro – lavoro, assistenza e previdenza sociale, libertà economiche, imposizione tributaria, risparmio e debito pubblico – rappresentano evidentemente un insieme assai eterogeneo, che ho trattato congiuntamente perché per ciascuno di essi la categoria della ricchezza ha forti implicazioni.

Il lavoro genera reddito, ovvero quel valore economico che dà il sostentamento a lavoratrici e lavoratori; le provvidenze monetarie dell’assistenza sociale sono costituzionalmente richieste come intervento pubblico qualora il reddito manchi; le erogazioni previdenziali sono altrettanto garantite per chi, col proprio lavoro, abbia provveduto a crearsi mezzi di sostentamento per l’età non più lavorativa; la proprietà privata e l’attività di impresa sono le libertà alla base del processo capitalistico di produzione di valore economico; l’imposizione tributaria crea riserve di risorse finanziarie a partire dal reddito dei lavoratori, affinché i pubblici poteri possano garantire beni pubblici, materiali come le infrastrutture o intangibili come l’istruzione; il risparmio è l’attività virtuosa di sottrarre al consumo risorse reddituali che possono essere destinate a investimenti con maggiori benefici; l’indebitamento dello Stato raccoglie il risparmio effettuato sui redditi ed è la leva di finanziamento che, nelle economie che recepiscono le ricette keynesiane del sostegno pubblico alla crescita economica, garantiscono politiche di sostegno ampio alla comunità.

Tutti questi ambiti hanno dunque stretta attinenza con la categoria del «reddito», e con essa si rapportano secondo criteri che la Costituzione instancabilmente provvede ad additare: criteri che – ridotti alla loro essenzialità – sempre si riconducono al valore della dignità della persona. E che implicano azioni di redistribuzione e di sostegno per situazioni di bisogno nella prospettiva indicata dall’osservazione di Federico Caffè che ho richiamato nelle conclusioni: “Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio”.

In che modo le distorsioni nell’utilizzo della ricchezza presenti nella nostra società rappresentano una cifra smarrita, un allontanamento dal modello costituzionale?
La formula della «cifra smarrita» vuole evocare le distorsioni nell’utilizzo della ricchezza che sono di tutta evidenza nella nostra società e nel nostro modello di sviluppo economico, ma anche civile: è difficile negare la realtà di impieghi del valore economico che risultano poco compatibili con le istanze fatte proprie dalla Costituzione repubblicana. Di conseguenza tante appaiono le torsioni inaccettabili rispetto ad un sistema di valori, che avrebbe tuttora immutata valenza, ma che – a quanto pare – si presenta inattuale e retrocesso a fronte del prevalere di opzioni ideologiche ispirate ad un forte individualismo ed all’abbandono di ideali di comunità.

Non va dimenticato che la funzione della ricchezza privata è anche quella di alimentare la ricchezza pubblica, ovvero prospettive di benessere collettivo e di progresso sociale: è un dato, invece, che tale funzione evolva da tempo lungo direttrici tali per cui il disegno costituzionale del 1948 appare pallido ed evanescente. Il riferimento è al disegno della rivoluzione promessa di una Costituzione che non è immobile e statica, ma piuttosto «apre le vie verso l’avvenire», secondo il pensiero di Piero Calamandrei. Il proposito di questa ricerca è stato anche quello di indagare – ed in qualche misura «denunciare» – quanto i valori costituzionali siano assenti dal contesto dei rapporti economici nel momento attuale.

Rimane aperto l’interrogativo se la loro latitanza sia da considerare la dimostrazione di una sfida troppo ambiziosa degli impegni affidati a istituzioni e società, per un eccesso di utopia che il disegno costituzionale delle origini aveva in sé. O se, al contrario, sia da attribuire ad un vero e proprio sviamento, le cui cause esulano dalla trattazione di questo libro: sviamento che però è oggettivo e conferma che quegli impegni sarebbero tuttora vincolanti e non avrebbero perso in alcun modo attualità; e che tuttavia sembrano non suonare più convincenti ed attrattivi all’opinione pubblica, al modello culturale dominante, al sistema economico e – per finire – alle istituzioni pubbliche e al decisore politico.

Camilla Buzzacchi insegna all’Università Milano Bicocca, nella Scuola di Economia e Statistica. Studia tematiche di diritto dell’economia, con particolare interesse per i rapporti tra potere pubblico e mercato, per la finanza pubblica e i diritti sociali; e con costante attenzione per l’intervento pubblico nella prospettiva della giustizia sociale. È autrice di diversi lavori monografici tra cui La solidarietà tributaria. Funzione fiscale e principi costituzionali (Giuffrè 2011) e Il lavoro. Da diritto a bene (FrancoAngeli 2019).

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