
La parola “razza” è diventata un tabù in Italia, ma le parole etnia e cultura vengono troppo spesso usate per costruire discorsivamente l’inferiorità degli “altri” e delle “altre”, la loro “non-assimilabilità” a una nazione immaginata ancora attraverso la fantasia “bianca” della superiorità razziale. Ciò è legato a processi di gerarchizzazione razziale che avvengono in molteplici ambiti e nel libro offro alcuni esempi relativi (dalla scuola al mondo del lavoro, passando per la riproduzione delle gerarchie razziali nei media, a livello urbano e attraverso la violenza).
Da un punto di vista sociologico, nominare la “razza” (rigorosamente al singolare, come dispositivo di razzializzazione) ha senso per svelare pratiche di dominio che paiono appartenere al passato, ma che, pur subendo delle metamorfosi, continuano a incidere considerevolmente sia nelle vite degli attori sociali considerati “bianchi” (quelli che immaginano di essere la norma neutrale, hanno il potere di classificare in modo gerarchico gli “altri” e traggono vantaggi simbolici e materiali dai processi di razzializzazione) sia nelle vite degli attori sociali “razzializzati”/“non-bianchi” (coloro che vengono discriminati in quanto considerati meno umani/non-umani, meno civili/incivili, meno intelligenti/stupidi, meno belli/brutti ecc. per le caratteristiche negative – considerate immutabili – attribuite al loro gruppo di appartenenza).
Chi sono stati i pionieri della sociologia del razzismo?
Tra quelli citati nel libro vorrei menzionare W.E.B. Du Bois e Anna Julia Cooper.
La sociologia, infatti, è stata troppo a lungo una disciplina per uomini, “bianchi”, generalmente di estrazione borghese. Ciò ha comportato l’invisibilizzazione del fondamentale contributo di Du Bois e di A.J. Cooper.
Du Bois era uno studioso “nero” in una società razzista e fu capace di coniugare l’impegno verso una conoscenza scientifica empiricamente fondata con la passione civile contro l’ingiustizia razziale. La sua teoria sociale aveva profondità storica e intrecciava l’analisi della classe con quella della “razza”. Du Bois elaborò idee chiave per la sociologia del razzismo (basti pensare al concetto di “doppia coscienza”) e fu un innovatore nella ricerca sociale (visuale). Fu un pioniere anche negli studi sulla “bianchezza”, si pensi alla sua idea di un “privilegio bianco” (white privilege) come “salario pubblico e psicologico” per i bianchi più poveri. In Black Reconstruction in America (1935), Du Bois ha scritto che, alla fine del xix secolo e all’inizio del xx secolo, la “bianchezza” aveva dato ai lavoratori bianchi poveri del sud degli Stati Uniti un salario simbolico e uno status sociale vantaggioso dovuto dal solo fatto di venire classificati come “non-neri”. La “bianchezza” dunque dava a questi lavoratori dei benefici impliciti ed espliciti che influenzavano le loro condizioni di vita e di lavoro, in un contesto caratterizzato dalla loro proletarizzazione e alienazione.
Esplicitare che cosa implichi essere visto/a come la norma “bianca” e mappare la miriade dei piccoli e ordinari privilegi quotidiani in un determinato contesto sociopolitico è un lavoro culturale importante anche oggi e sempre più attivisti/e si sono impegnati/e anche in Italia ad accrescere un’autoconsapevolezza critica utile per tessere alleanze trasversali antirazziste.
Anna Julia Cooper è stata un’anticipatrice di una prospettiva sociologica oggi particolarmente importante nella sociologia del razzismo: lo studio intersezionale della “razza” in relazione al genere e alla classe. Ha infatti dedicato la sua lunga vita all’analisi del razzismo e del sessismo.
La sociologa Gurminder Bhambra ricorda questa pioniera come un’afroamericana nata sotto la schiavitù del sud degli Stati Uniti, che instancabilmente studiava e lottava contro l’ingiustizia sociale.
All’età di 67 anni Anna Julia Cooper divenne dottoressa di ricerca a Parigi (alla prestigiosa Sorbonne), con uno studio intitolato L’attitude de la France à l’égarde de l’esclavage pendant la revolution. La sua tesi affermava che se i rivoluzionari “bianchi” francesi avessero preso sul serio la questione della schiavitù e della sua abolizione, e avessero rinunciato all’impero, avrebbero dato vita a una rivoluzione davvero impegnata con i valori dell’uguaglianza e della libertà.
Come si articola la riflessione sociologica contemporanea riguardo ai processi di razzializzazione?
Studiare i razzismi dal punto di vista processuale ci permette di spostare l’attenzione dalle caratteristiche e dalle azioni di coloro che vengono definiti razzialmente verso le motivazioni e azioni dei gruppi sociali più potenti, cioè sui “razzializzatori”, coloro che sono all’origine dei processi di razzializzazione. Inoltre, possiamo in questo modo domandarci quali siano le specifiche condizioni sociali e storiche che producono gruppi razzializzati. Infine, possiamo interrogarci su quali siano le circostanze che facilitano processi di contro-razzializzazione, riconoscendo così la capacità di agire degli attori sociali e il fatto che le relazioni sociali sono aperte al cambiamento.
Da neomarxista, Robert Miles ha ancorato la sua concezione della razzializzazione in un contesto di relazioni materiali, di conflitti tra capitale e lavoro e ha messo al centro l’economia politica per studiare il razzismo. La differenziazione razziale va dunque sempre collocata nel contesto della differenziazione di classe.
Federico Oliveri ha analizzato le lotte dei migranti nell’Italia neoliberista della crisi in quanto processi di contro-razzializzazione. Ha preso in considerazione diverse forme di lotta: per la libertà di movimento e per il diritto alla vita; per l’eguaglianza sul luogo di lavoro e per il diritto alla casa. Ciò che queste lotte hanno in comune è la messa in questione dell’idea che la competizione etnica sia una conseguenza fatale dell’austerità; inoltre, sono accumunate dallo sforzo di riunire “quelli che stanno sotto” contro “quelli che stanno sopra” attraversando la linea del colore, cioè contrastando attivamente il processo divisivo di razzializzazione. Da queste lotte, in cui vengono praticate forme di solidarietà inter-etnica/razziale, emergono dunque dei contro-discorsi su quali siano le reali cause e le responsabilità della crisi e quali siano le alternative all’austerità. Per quanto riguarda la libertà di movimento e per il diritto alla vita, dalle lotte dei migranti è emersa una forte critica al fatto che oggi il diritto di migrare sia un privilegio delle persone che vivono nel Nord globale. Muoversi, sconfinare è vitale per emanciparsi. Inoltre, le famiglie dei migranti rifiutano la retorica delle morti accidentali in mare e chiamano in causa le responsabilità politiche delle istituzioni degli Stati europei. Rispetto all’eguaglianza nei luoghi di lavoro, i processi di contro-razzializzazione hanno riguardato la rivendicazione di «un permesso di soggiorno per tutti/e», slegato dal contratto di lavoro e la rottura con le regolarizzazioni una tantum e selettive calate dall’alto; inoltre, hanno chiesto migliori condizioni di lavoro per tutti/e ed eguali diritti per tutti/e i lavoratori e le lavoratrici, di diverse origini e status giuridici. Infine, relativamente alla lotta per il diritto alla casa, Olivieri ricostruisce come le lotte dei migranti siano iniziate in Italia verso la fine degli anni Ottanta e abbiano avuto un “revival” ai tempi dell’austerità. Le mobilitazioni dei migranti hanno contestato il razzismo istituzionale, creato solidarietà tra cittadini – con diversi status giuridici e di diverse origini nazionali, inclusi italiani – che si trovano a dover affrontare uno sfratto; soprattutto, hanno messo in luce come ci sia un problema strutturale, frutto di un fallimento del sistema del welfare abitativo.
Qual è l’importanza della cultura come luogo di lotta?
Stuart Hall è stato uno dei più influenti studiosi-attivisti britannici e uno dei fondatori degli studi culturali a Birmingham. La “razza” è per Hall un significante relativamente fluttuante, chiama in causa i processi di significazione umana in precisi contesti storico-politici; non può essere confinata ai processi regolativi dello Stato, perché è anche una costruzione sociale contestata e una costruzione politica aperta. Ho iniziato il mio libro riconoscendo come la creatività culturale dei/delle migranti, dei loro figli e delle loro figlie, delle diaspore, dei/delle discendenti dei/delle colonizzati/e possa diventare un luogo di lotta. Basti ascoltare l’album “Your Queen is a Reptile” dei Sons of Kemet, in cui vengono celebrate regine “nere” che hanno lottato contro il razzismo: figure mitiche come la Nanny dei Maroons; simboli del-la resistenza anticoloniale come Yaa Asantewaa; ma anche la nonna di Shabaka, Ada Eastman, e Doreen Lawrence, la madre che ha ottenuto giustizia per l’omicidio razzista di suo figlio Stephen; militanti indo-mite come Harriet Tubman, Albertina Sisulu e Angela Davis; studiose come Mamie Phipps Clark e Anna Julia Cooper.
Anche in Italia, la produzione artistica delle afro-italiane è un’opportunità importantissima per imparare ad ascoltare le voci di soggetti razzializzati, per comprendere come il razzismo anche qui sia legato ad esperienze quotidiane di discriminazione, istituzionali e non, che affondano le loro radici nel colonialismo italiano. Si pensi alla scrittrice Igiaba Scego, ma anche alle undici scrittrici dell’antologia “Future” pubblicata da Effequ.
Quale percorso hanno seguito gli approcci femministi materialisti e intersezionali?
L’articolazione di diversi sistemi di dominio è un tema centrale della sociologia femminista e la prospettiva intersezionale è ormai un riferimento teorico imprescindibile per gli studi sul razzismo.
Canonicamente, si fa risalire l’origine del termine “intersezionalità” a Kimberlé Crenshaw, giurista e femminista afroamerica-na, ma come abbiamo visto con Anna Julia Cooper questa prospettiva era presente molto prima che le si desse un nome.
Crenshaw mise in luce i limiti della Critical Race Theory, afferman-do che, per contrastare legalmente (attraverso una normativa anti-discriminatoria adeguata) la violenza subita dalle donne afroameri-cane, bisognava considerare la molteplicità e simultaneità dei sistemi di oppressione. Genere, “razza”, classe non potevano essere categorie mutualmente escludentisi. Intervistata qualche anno fa dalle sociologhe del diritto Giovanna Barbara Bello e Letizia Mancini, Crenshaw ha precisato che la sua idea di intersezionalità include ciò che è strutturale (le istituzioni che storicamente naturalizzano le re-lazioni di potere) e ciò che è dinamico (i molteplici modi in cui il potere è contestato, attraverso processi conflittuali di soggettivazione). L’aspirazione di Crenshaw è che la prospettiva intersezionale resti sempre centrata sulla critica del potere e sullo smantellamento delle gerarchie sociali.
Qual è l’importanza delle prospettive post o decoloniali e sulla costruzione della “bianchezza” nello studio dei fenomeni di razzismo?
In Italia Renate Siebert è stata una pioniera nello studio sociologico del razzismo da una prospettiva post- e de-coloniale. Un riferimento centrale nella sua riflessione è il lavoro di Frantz Fanon. Il pensiero di Fanon assume come punti di partenza dei processi di soggettivazione l’esperienza concreta e materiale del(l’) (ex)colonizza-to, la centralità del corpo e la sua visibilità. Lo sguardo “bianco” congela l’altro riducendolo alla sua epidermide e lo condanna a restare prigioniero della sfera del disumano. È un rapporto del tutto asimmetrico, non può esserci riconoscimento. Il “nero” è il luogo di proiezione dello sguardo “bianco”. Il “bianco” riconosce infatti l’umano solo in un altro “bianco”. Secondo Fanon, nel contesto coloniale e neocoloniale, il “nero” non può fare a meno di vedere sé stesso a partire da questo sguardo opprimente.
Per Fanon, allora, un processo politico di liberazione non è tale se non diventa contemporaneamente anche emancipazione soggettiva.
Secondo Siebert studiare Fanon oggi in Italia è cruciale per affrontare da una parte l’ignoranza diffusa circa la storia coloniale italiana e le questioni della decolonizzazione in generale, dall’altra l’onnipresente razzismo sia quotidiano che istituzionale.
Quale rilevanza assume la dimensione spaziale del razzismo?
È importantissima. Si pensi ad esempio alle rivolte urbane contro la violenza della polizia e contro il razzismo sistemico. Dal lavoro pionieristico Policing the Crisis (1978) di Stuart Hall, il nesso stretto tra “razza” e questioni legate al governo della crisi è stato ripreso da numerosi studiosi, per interpretare le ribellioni urbane come forme di protesta non solo contro la violenza della polizia ma anche contro il razzismo sistemico e l’ingiustizia sociale della società nordamericana, britannica e francese (ed europea più in generale). Karim Murji ha sostenuto recentemente che questa lettura è contrapposta a un’altra che vede le rivolte urbane come una crisi della post-politica, in cui il nichilismo avrebbe rimpiazzato l’azione politica propositiva. Questa seconda lettura vede il razzismo come secondario, mentre la prima lo mette al centro dell’analisi.
A mio parere è molto importante riconoscere l’importanza della “razza” (nella sua intersezione con la classe e il genere) nelle rivolte urbane. Nel mio libro mi soffermo in particolare sulle rivolte urbane che hanno attraversato la Svezia negli ultimi anni e alla nascita di un movimento di giovani che rivendicano maggiore giustizia sociale e razziale a livello urbano, partendo dai loro quartieri periferici.
Che relazione esiste tra capitalismo e razzismo?
È una relazione intima. I lavoratori, le lavoratrici migranti, i loro figli e le loro figlie mostrano come su di loro sia impresso il marchio di gerarchie neocoloniali che si dispiegano a livello internazionale. Le forme di neocolonialismo sviluppate da uomini d’affari all’estero infatti sono connesse con quanto avviene “a casa”, cioè con la produzione di gerarchie razziali nel mercato del lavoro italiano.
Le condizioni peggiori di segregazione e sfruttamento riguardano soprattutto il lavoro stagionale nelle campagne per chi ha la pelle scura. Soprattutto dopo il 2011 nel lavoro stagionale agricolo sono stati messi al lavoro molti titolari di protezione umanitaria o internazionale e anche i cosiddetti “diniegati”, persone alle quali è stato negato il riconoscimento di rifugiato.
L’emergenza COVID19 ha peggiorato ulteriormente le condizioni di questi lavoratori. È tempo di ascoltare maggiormente la voce di attivisti come Yvan Saignet e Aboubakar Soumahoro (si pensi ai limiti della regolarizzazione recente) e di onorare la memoria delle lotte di Jerry Masslo e di Soumaila Sacko, mettendo in luce che razzismo e sfruttamento lavorativo sono due facce di una stessa medaglia.
Annalisa Frisina è professoressa associata all’Università di Padova, insegna Visual Research Methods e Sociologia del razzismo e delle migrazioni. Tra le sue pubblicazioni, Focus group (Il Mulino, 2010) e Ricerca visuale e trasformazioni socio-culturali (UTET, 2013).