
La posta in gioco è alta: via social network un adolescente accusa, con ironia, un coetaneo di origine pachistana di essere un terrorista. Una tenzone sportiva, commentando il gol della squadra avversaria, diventa un coro in cui la parola “ebreo” è usata come parolaccia. E in un altro gruppo 2.0 si ride per una barzelletta sul più grande dramma del Novecento, la Shoah.
Ancora: una notizia inventata per denigrare i profughi accolti e infangare i volontari che li aiutano. La foto pubblicata su Facebook di un normale compleanno in un locale di un uomo musulmano che, senza alcun legame con la realtà, diventa la “prova” del festeggiamento per l’ultimo attentato terroristico e finisce per causare l’incendio del bar. Un padre marocchino che, leggendo quanti sui social inneggiano all’episodio, confida a un amico che teme di aver sbagliato a chiamare il proprio figlio Islam. Nel frattempo nel Web diviene virale l’associazione tra un personaggio pubblico nero e una scimmia (o una prostituta); alcuni ragazzi, nati in Italia da genitori immigrati, osservano con disagio, in silenzio. “Stiamo scherzando”, “è una battuta”: sono le risposte dei diversi autori delle affermazioni razziste. Intanto, però, alcuni commenti inneggiano alle dottrine razziste classiche e alle soluzioni forti.
Un ragazzo rom, giunto all’ultimo anno delle superiori, si interroga sul proprio futuro mentre osserva il sondaggio online in cui la maggior parte dei lettori ha cliccato l’emoticon di “soddisfatto” di fronte alla morte di un neonato rom di due mesi e nel forum di un altro giornale si inneggia ai forni crematori per gli abitanti della baraccopoli dove vivono i suoi cugini.
L’odio con cui, online, ci si pone di fronte alla diversità colpisce anche altri bersagli: la persona disabile, il ragazzo omosessuale, la vittima del bullo, la donna colpita da sessismo, il politico di cui ci si augura pubblicamente la morte, chi è giudicato “diverso” per qualche ragione.
Spesso l’odio indica più target allo stesso tempo: quando si prende di mira una donna perché africana, o in quanto accusata di essere a favore degli stranieri, scatta facilmente l’insulto sessista.
Nell’ambiente digitale si assiste a frequenti manifestazioni di pensiero prevenuto, spesso collegate a performances violente, banalizzate e socialmente condivise. In particolare proliferano il discorso razzista e la sua accettazione sociale, facilitata dal proporre idee svuotate da raffinatezza dottrinale e approfondite teorizzazioni.
Allo stesso tempo, però, online diviene virale anche un altro tipo di manifestazioni: un adolescente che su Instagram reagisce agli insulti verso un coetaneo “diverso”; una contronarrazione sul valore dell’accoglienza dei profughi che ottiene migliaia di condivisioni; un hashtag che, nato in modo spontaneo, diviene trend topic su Twitter per contrastare l’errata associazione tra musulmano e terrorista. E ancora: il gesto di un calciatore che si trasforma in una campagna contro l’ennesimo gesto razzista; la mobilitazione che, a colpi di click, ottiene la chiusura di una pagina di incitamento all’odio. Sono dunque altrettanto reali gli “anticorpi”, performances antirazziste, narrazioni alternative, singoli o gruppi che reagiscono di fronte all’elezione di un bersaglio. Perché, con Hölderlin, «là dov’è il pericolo cresce anche ciò che salva».
Quali specificità presenta la diffusione di azioni e linguaggi violenti nel Web?
Innanzitutto una premessa: sarebbe troppo facile individuare il colpevole in uno strumento tecnologico (e la semplificazione è un’alleata del pensiero prevenuto). Sarebbe sbagliato, in quanto una tecnologia non intacca problematiche sociali e culturali, sebbene ne modifichi le espressioni. Non si tratta di fenomeni nuovi, ma è vero che l’ambiente digitale fa acquisire caratteristiche specifiche e particolari.
Il secondo e il terzo capitolo del libro sono dedicati a come l’ambiente digitale e i pubblici interconnessi influenzano le manifestazioni d’odio e la socialità nel Web. Elenco alcuni tratti: la velocità 2.0, specialmente nei social network, dove, anche per rispondere al sovraccarico di informazioni, la nostra mente aumenta le decisioni prese seguendo il sistema 1 (veloce e intuitivo) rispetto al sistema 2 (razionale e riflessivo); la banalizzazione (talvolta con l’ironia) di ideologie e fatti storici come il nazifascismo; l’emergere di nuovi canoni di autorialità culturali (non più la casa editrice, la rete televisiva, o il quotidiano cartaceo, ma la visibilità in Rete e le condivisioni sui social), che chiamano in causa la riflessione sulle fake-news e la post-verità; l’anonimato, una retorica che serve a giustificare un atteggiamento disimpegnato, seppur sia in realtà difficilissimo agire veramente da anonimi nel Web e soprattutto sia l’idea opposta al “tracciare ed essere tracciati” su cui si basano i social network. Ancora: il ruolo di meme e immagini nel rendere virale un messaggio; l’effetto alone e la spirale del silenzio: fenomeni già noti nell’offline ma che in Rete aumentano di importanza e che sottolineano come, di fronte a opinioni che percepiamo minoritarie (per esempio quando i commenti per la morte di un bambino rom si trasformano in cori di gioia), è difficile uscire dai ranghi ed esprimere opinioni ritenute impopolari; l’analfabetismo emotivo e il flaming: nel momento in cui l’interazione mediata sostituisce la fisicità del corpo, attiviamo meno meccanismi di simulazione corporea (neuroni specchio), perdendo così la capacità di riconoscere le emozioni degli altri, vivendo emozioni forti ma disincarnate.
Nel libro si riflette inoltre sulla formazione degli aggregati sociali in Rete, sottolineando le possibilità di persuasione e orientamento delle convinzioni personali, i tratti della riflessività nei social network, il passaggio da gruppi a comunità online, l’importanza dei legami deboli e le “filter bubble”, ovvero recinti che racchiudono persone che si assomigliano e pensano in modo simile, come sono sempre più i nostri profili social.
Dove vanno ricercate le cause della diffusione di azioni e linguaggi violenti nel Web?
Durante quella che è stata un esempio di “etnografia virtuale”, ho incontrato coloro che aderiscono a forme ideologiche militanti ed estreme; i nazionalismi e i populismi, che caratterizzano questo momento e danno voce ai rancori, non coincidono con il razzismo, ma certamente sono un terreno fertile.
Tuttavia, tante forme di razzismi, odio online e parlare scorretto sono segnate da superficialità, provocazione e appartengono allo spettro della cyberstupidity. Il termine, coniato nel 2011 da Marc Prensky, indica quei comportamenti nel Web per i quali gli autori non valutano le conseguenze delle loro azioni. Cyberbullismo e sexting sono esempi diversi ma significativi, così come appunto le diverse forme di hate speech e di odio.
Nel libro ho chattato, via social network (Ask.fm e Facebook), con ragazzi che avevano partecipato a performances razziste in modo diverso, producendole in prima persona, condividendo una barzelletta antisemita o cliccando “like” a un post islamofobo. Di fronte alla domanda sulle motivazioni, la prima reazione era lo stupore perché avevo trovato una frase “vecchia”, magari di quattro mesi, quando una caratteristica degli scambi comunicativi online è proprio la “persistenza”, ovvero che sono automaticamente registrati e quindi rintracciabili anche a distanza di anni. La seconda reazione era una difesa e al tempo stesso una pretesa: “non prendeteci sul serio”, “ho sparato una scemata”, “scherzavo”, erano le risposte più frequenti. Qui è un punto centrale: è diffusa l’idea per cui nel Web ci si possa comportare in modo deresponsabilizzato, meno attento e più superficiale.
Tutto ciò ha una conseguenza anche sui contenuti: “torna la razza”. Un’immagine simbolo della mia ricerca è una donna africana paragonata alla scimmia, magari facendo una battuta. Si tratta dell’emblema del razzismo classico, che forse pensavamo scomparso, seppur svuotato di credibilità e su basi diverse dal suo significato storico. È un grande cambiamento: la prima parte del Novecento era segnata dall’istanza biologica, la superiorità dei bianchi sui neri; 80 anni fa, le Leggi Razziste fasciste furono accompagnate da testi accademici che sostenevano il razzismo su basi (pseudo)scientifiche. Sempre la letteratura ci dice che, nel Secondo Novecento, acquista importanza la logica culturalista o differenzialista (i valori di quell’etnia, o di quella religione, sono troppo diversi dai nostri per vivere insieme) e i razzismi impliciti o latenti.
Oggi emerge una novità: online diventa molto più labile la separazione tra razzismi espliciti e latenti, superata tra link, “mi piace”, meme e immagini, evocazioni e condivisioni. Con il linguaggio violento sono caduti alcuni tabù (parole e pensieri che, insieme, avevamo deciso che fossero “indicibili”). La banalizzazione e la deresponsabilizzazione nel Web hanno reso possibile quel processo di accettazione sociale che, ad esempio, ci porta a non essere più scandalizzati dell’associazione tra uomo nero e scimmia. È quella pretesa di “non essere preso sul serio” che i ragazzi mi hanno ripetuto nelle conversazioni sui social.
Quali risposte educative è possibile attivare di fronte a odio online, razzismi 2.0, hate speech e ostilità verso l’altro?
Alla richiesta di non esseri presi sul serio dei ragazzi, ho risposto prendendoli sul serio affinché si prendessero sul serio. Le conversazioni via social si sono trasformate da ricerca per l’analisi a proposta di intervento, nella direzione di educazione alla riflessività. Gli esiti sono stati diversi, ma in alcuni casi i ragazzi hanno cancellato il “vecchio” post. L’empatia è una chiave educativa efficace, che ho suscitato nei giovanissimi raccontando di “un mio amico che potrebbe sentirsi offeso da quel commento”.
Una grande domanda viene da chi di fronte all’odio online non fa nulla, né intervenendo in modo diretto, né producendo discorsi o immagini alternative. Nel digitale i pubblici aumentano in modo esponenziale e dunque anche la “zona grigia”. Liliana Segre, parlando della Shoah, ha insegnato come l’indifferenza sia pericolosa e renda possibile il Male. In questo senso occorre spingere gli spettatori ad assumere il ruolo di soccorritori, processo che può essere facilitato proprio dalla cultura partecipativa della Rete. Nella mia ricerca ho incontrato tanti giovani disponibili ad attivarsi a favore di un Web dell’inclusione e non dell’esclusione: si tratta di un “capitale antirazzista” che non va sprecato, ma promosso e suscitato. Nel libro descrivo alcune proposte in questa direzione, oltre a censire una serie di campagne, app e progetti efficaci dall’Italia all’Australia.
In che modo va ripensata la media education in una società come quella attuale?
Nella direzione di educazione alla responsabilità, al valutare le conseguenze delle proprie azioni online. In questo modo usciamo dalla strettoia del dividerci tra “apocalittici” e “integrati” di fronte al Web. È un rischio che si corre quando si diffonde un nuovo media e, non a caso, ho citato un’espressione del 1964 di Umberto Eco riferita alla televisione. La risposta della media education, per una postura intelligente davanti allo schermo televisivo, fu l’educazione al senso critico. Nel digitale questo non è più sufficiente perché rappresenta solo la metà dell’opera. Non basta più educare lo spettatore, occorre anche educare il produttore che ogni spettatore è diventato grazie allo smartphone che si porta in tasca. Questo significa che insieme al pensiero critico occorre sviluppare anche la responsabilità.
La media education deve sempre più interrogarsi sulle logiche, più che sulle tecnologie. Facendo un esempio da aula scolastica: non solo saper accendere la lim, ma soprattutto educare all’informazione e a comunicare online in modo corretto. La competenza digitale, dunque, non è una conoscenza tecnica, ma una parte imprescindibile dell’educazione alla cittadinanza. Non basta infatti nascere in società multiculturali e multischermi per essere “nativi digitali” o “nativi interculturali”: si può vivere accanto a persone di origine diversa senza incontrarle veramente, così come la ricchezza polifonica offerta da Internet per connettersi al mondo può rimanere chiusa in uno spazio individuale, senza mettere in gioco una relazione tra gli interlocutori.
Vivere insieme è la sfida che nel libro unisce l’educazione interculturale alla media education, nell’affermare il valore della responsabilità verso gli altri e nell’appassionata ricerca di una faticosa convivenza tra persone e tra cittadini, tutti uguali e tutti diversi.
Stefano Pasta è membro del Centro di Ricerca sull’Educazione ai media dell’Informazione e alla Tecnologia (CREMIT – www.cremit.it) e il Centro di Ricerca sulle Relazioni Intercultuali dell’Università Cattolica