
Il jihadismo – il ricorso alla violenza in nome dell’islam contro gli infedeli – si è articolato, infatti, in diverse fasi, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, quando, a fronte di un processo di secolarizzazione delle società occidentali, si è assistito, al contrario, all’emergere, sulla scena politica di alcuni paesi arabo-islamici, di movimenti religiosamente connotati. Si pensi alla rivoluzione iraniana dell’Ayatollah Khomeini e, più di recente, alle “Primavere arabe”.
Ci si chiede come sia stato possibile, nell’Iran del 1979, acquisire il consenso della gioventù urbana povera facendo ricorso alla religione e ci si interroga su come sia stato possibile, nel 2011, che le “Primavere arabe”, nate come rivolte dei giovani delle classi medie urbane, siano divenute emblema di una rinnovata islamizzazione della politica. Allo stesso modo, ci si chiede come sia stato possibile che all’appello lanciato dallo Stato islamico, nel 2014, di una guerra santa contro gli infedeli abbiano risposto numerosi giovani europei, partiti come foreign fighters verso i territori del Califfato o divenuti combattenti autoctoni nelle terre dell’empio Occidente.
Premesso che l’islam non rappresenta di per sé una religione violenta e che il mondo islamico è composto da una galassia di dottrine tra di loro in aperto conflitto, nel libro si discutono le dinamiche di marginalità ed esclusione sociale che rappresentano i fattori di spinta verso l’adesione ad un islam radicale che legittima un jihad, divenuto ormai globale.
Quale evoluzione ha subito l’islam radicale da al-Qaeda allo Stato islamico?
I movimenti dell’islam radicale nei paesi arabo-islamici hanno rappresentato e rappresentano una costellazione di gruppi, diversificati e spesso in contrasto tra di loro. Tra questi, il gruppo di al-Qaeda, guidato da Osama Bin Laden, ha acquisito centralità tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000. Il significato del termine Al-Qaeda rimanda al database in cui erano inseriti i nomi dei freedom fighters transitati nei campi di addestramento al jihad creati proprio da Bin Laden per reagire all’occupazione sovietica di Kabul avvenuta nel 1979.
Con Osama Bin Laden il jihadismo conosce una nuova fase. Obiettivo di al-Qaeda non è, infatti, la conquista del potere politico in un determinato paese, ma la rivolta in nome dell’islam contro l’infedele (identificato principalmente con gli Stati Uniti d’America) da mettere in atto a livello globale. L’attentato alle Twin Towers simboleggia quest’ambizioso progetto di Bin Laden e segna il passaggio del jihad da Oriente a Occidente.
All’indomani dell’uccisione di Bin Laden, l’Isis (acronimo di “Stato islamico dell’Iraq e della Siria”) raccoglie l’eredità di al-Qaeda e si colloca in continuità con quel progetto di un’espansione del jihad oltre i confini d’Oriente, di un jihad da combattere nelle città occidentali.
L’ulteriore ambiziosa utopia dell’Isis è stata quella di costituire uno Stato islamico, il cui territorio viene collocato tra la Siria e l’Iraq. Il 29 giugno 2014, infatti, nelle città siriane ed irachene occupate dell’Isis viene proclamata l’istituzione del nuovo Califfato e del califfo Abu Bakr al-Baghdadi, al quale tutti i musulmani del mondo sono invitati a prestare giuramento di fedeltà.
Quale diffusione ha avuto l’islam radicale in Europa?
La diffusione del radicalismo islamico in Europa è strettamente legata alle vicende dei movimenti jihadisti in Medio Oriente e Nord Africa di cui abbiamo detto.
Alla fine del secolo scorso, le città europee hanno dato protezione a coloro i quali, provenienti in particolare dall’Afghanistan e dal Sudan, sfuggivano alle persecuzioni politiche e religiose dopo il fallimento dell’affermazione in questi paesi di un potere di stampo islamico, e hanno svolto il ruolo di base logistica, ossia di luogo di propaganda e reclutamento, per i combattenti impegnati al fronte nei territori nordafricani.
Con la “chiamata al jihad globale” di al-Qaeda, prima, e dell’Isis, in seguito, i processi di radicalizzazione islamica in Europa hanno subito un profondo mutamento.
Chi ha analizzato tali processi, infatti, ha messo in rilievo la nascita di un “jihadismo 3G”, espressione con la quale il politologo Gilles Kepel indica un movimento sociale, islamico ed europeo, impegnato a realizzare un’utopica islamizzazione del mondo.
Si tratta di un movimento che vede come protagonisti i figli di immigrati, seconde e terze generazioni nate e cresciute nella modernità occidentale che, tuttavia, da tale modernità rimangono escluse e che trovano nell’ideologia dell’islam radicale un quadro identitario, capace di ricomporre le loro esistenze frammentate, e una cornice religiosa, in cui inscrivere il desiderio di riscatto contro la società che li esclude e attraverso cui legittimare il ricorso all’azione violenta.
Si tratta di un sistema di valori e norme che ciascun individuo soggettivizza e riconduce all’interno della propria dimensione personale e sociale. In questo senso, con riferimento ai gruppi violenti legati all’Isis, si è fatto riferimento a reti jihadiste autonome rispetto allo Stato islamico centrale e, pertanto, imprevedibili nei percorsi di radicalizzazione e nel compimento delle azioni violente. Nell’efficace espressione di Marc Sageman, il più recente islam radicale globale si compone di strutture sparse e decentralizzate, ovvero di gruppi che combattono un leaderless jihad.
Quali forme assume la radicalizzazione?
L’evoluzione dell’islam radicale, di cui si è detto in precedenza, ha inciso anche sulle manifestazioni della radicalizzazione e, in particolare, sulle forme dell’azione violenta di matrice islamica.
Se l’11 settembre 2001 rappresenta un’azione violenta organizzata e compiuta “dall’esterno”, è con gli eventi dell’11 marzo 2004 a Madrid, con l’uccisione del regista Theo van Gogh ad Amsterdam del 2 novembre 2004 e con gli attentati di Londra del 7 luglio 2005 che emerge, sulla scena del jihadismo, un inedito attore, il radicalizzato “autoctono” o “domestico” (homegrown).
Con tale espressione si fa riferimento a ragazzi e ragazze le cui traiettorie biografiche sono caratterizzate da una “doppia esclusione” (né europei né stranieri) e le cui prospettive di vita futura sono segnate da un’inclusione subordinata, marginale e stigmatizzata.
Si tratta, peraltro, di una condizione di marginalità urbana e umana che accomuna tali seconde e terze generazioni di immigrati e i giovani cittadini europei che vivono negli stessi quartieri, che si ritrovano nelle fila dei “convertiti”.
È da questo terreno d’esclusione che provengono i combattenti “sulla via di Dio” nelle città europee – il riferimento è ai “combattenti autoctoni”, anche nella forma individuale del “lupo solitario” – o nella terra santa del Califfato – il riferimento è ai foreign fighters.
Quali fasi segnano il processo di radicalizzazione?
Per aiutare a comprendere le dinamiche attraverso le quali si può realizzare l’incontro tra le esigenze dei giovani delle periferie europee e le offerte dell’ideologia islamica radicale, sono stati elaborati dei modelli concettuali, che identificano le fasi del processo di radicalizzazione.
Seppur con peculiarità proprie di ciascuno schema concettuale, tutti i modelli descrivono un processo di radicalizzazione che muove dai fattori, individuali e sociali, di frustrazione e insoddisfazione (fase di pre-radicalizzazione), che rappresentano il punto di partenza (e fattore di rischio) perché il processo prosegua, articolandosi nelle fasi di identificazione con l’ideologia islamica radicale, di indottrinamento al sistema di norme e comportamenti dell’islam radicale e, infine, del passaggio all’azione violenta che trasforma lo stigma della marginalità in segno di distinzione per aver realizzato l’atto di martirio, morendo a difesa della comunità dei veri fedeli musulmani.
Quali sono i luoghi del proselitismo e quale ruolo svolgono in particolare il web e il carcere?
Luoghi tradizionali di proselitismo e reclutamento sono stati le moschee e i centri religiosi delle città europee, la cui centralità si è tuttavia ridotta nel corso del tempo soprattutto per l’aumentare delle attività di controllo da parte delle forze di polizia, che hanno reso necessario spostare la propaganda jihadista in spazi più nascosti.
L’uso di internet e dei social network ha acquisito, infatti, rilievo nella recente strategia messa in atto dall’Isis, non soltanto perché meno visibile ma anche perché funzionale agli obiettivi di unire le giovani generazioni di Oriente e Occidente in un’unica umma (la comunità dei fedeli), virtuale e globale, e di diffondere la chiamata al jihad a ciascun vero musulmano, ovunque egli si trovi.
Internet, inoltre, ha reso possibile lo sviluppo di percorsi di radicalizzazione individuali, attraverso il materiale di propaganda disponibile online e, talora, ha consentito l’addestramento “virtuale” per divenire combattenti homegrown, data la possibilità di trovare, sul web, specifici manuali per compiere il jihad e di utilizzare i social network per ricevere istruzioni, guida e supporto.
Da ultimo, ma non meno importante, le reti virtuali rappresentano uno spazio di protagonismo per i giovani della marginalità urbana di cui si è detto, in quanto di per se stessi forniscono l’opportunità per uscire dall’insignificanza e dall’indifferenza del reale nel quale vivono e consentono di fissare e amplificare, sacralizzandola, la loro immagine di martiri.
Se già al-Qaeda aveva utilizzato una strategia mediatica attraverso i video, l’Isis, attraverso Facebook, Instagram, Telegram e YouTube, è riuscito a comunicare “in tempo reale” notizie e informazioni sul nascente Stato islamico e a veicolare l’ideologia dell’islam radicale, trasportandola nelle banlieues francesi e nelle altre periferie d’Europa.
Ulteriore luogo di proselitismo è il carcere, che riveste un ruolo chiave nei processi di radicalizzazione in quanto si tratta di un’istituzione vulnerabile. Vulnerabile per la sua funzione punitiva, che rischia di alimentare il risentimento dei giovani marginalizzati, clienti privilegiati dell’istituzione penitenziaria. Vulnerabile, inoltre, perché la convivenza forzata rischia di far entrare in contatto leader carismatici dell’islam radicale con quanti possono subire la fascinazione di un’ideologia che si presenta come possibilità di riscatto per le ingiustizie subite. Vulnerabile, infine, perché la fede jihadista può apparire quale mezzo per adattarsi al difficile contesto carcerario e, al tempo stesso, quale una cornice di valori e di azione al cui interno trovare una propria identità.
Il carcere, dunque, rischia di ampliare i margini di disponibilità soggettiva all’adesione alla “religione degli oppressi”, da parte di chi si sente vittima di uno stigma sociale che, con la detenzione, si trasforma in marchio criminale.
Quale lettura criminologica è possibile fornire all’islam radicale?
L’adesione all’islam radicale è un processo articolato, sul quale incidono differenti fattori politici, sociali, culturali, religiosi e personali; pertanto, ogni possibile interpretazione reca con sé il rischio di essere parziale e inadeguata a racchiudere la complessità del fenomeno. Tuttavia, è ormai ampia la letteratura dei radicalization studies, ossia degli studi sulla radicalizzazione che muovono da una prospettiva storica, politica, giuridica, sociologica, religiosa o psicologica. Meno numerose sono, a mio avviso, soprattutto nel contesto italiano, le interpretazioni della radicalizzazione che si inseriscono nella tradizione della sociologia criminale.
Il libro si propone di fornire una lettura criminologica del jihad combattuto in nome dello Stato islamico, andando ad indagare, in particolare, le dinamiche sociali attraverso le quali l’estremismo islamico ha trovato spazio nelle traiettorie di vita delle giovani generazioni di musulmani europei (e dei “convertiti”), radicandosi e radicalizzandole.
L’ipotesi che si sottopone alla prova della criminologia è quella secondo la quale l’ideologia islamica radicale violenta può essere intesa come una modalità collettiva di adattamento ad una società dalla quale i giovani musulmani si sentono e sono esclusi. Una “subcultura del riscatto” che diviene reazione (oppositiva e distruttiva) ad una condizione di marginalità economica e sociale di cui i giovani musulmani d’Europa fanno esperienza, e alle pratiche di stigmatizzazione e criminalizzazione di tali giovani. Ai tradizionali meccanismi di esclusione “lungo la linea del colore” si aggiungono meccanismi di discriminazione “lungo la linea della religione” e, in particolare, di una “religione del sospetto” che determinano la costruzione di un circolo vizioso, nel quale si insinua come attraente la prospettiva di assumere lo status di colui il quale, grazie all’ideologia e all’identità jihadista, capovolge la cornice valoriale dominante, a partire dalla quale sono definiti i ruoli sociali, e trasforma il proprio stigma in segno di distinzione. From zero to hero è l’espressione che può essere utilizzata per identificare l’opportunità che l’islam jihadista offre ai giovani della marginalità urbana ed umana delle città europee.
Qual è il profilo dei combattenti dell’Isis?
È difficile rispondere a questa domanda, nel senso che analizzando gli attentati compiuti in nome dell’Isis, il quadro che ne deriva è diversificato quando a modalità di azione, caratteri biografici e sociali degli autori. Non è, quindi, possibile tracciare un profilo del combattente.
Tuttavia, lo studio delle storie di vita dei combattenti jihadisti consente di individuare alcuni elementi ricorrenti. Nel libro, si limita il campo agli autori degli attentati compiuti in Europa, Stati Uniti d’America e Canada tra il 2014 (anno della proclamazione dello Stato islamico) e il 2017 (anno in cui ha avuto inizio la dissoluzione dell’Isis) e si fa riferimento ai dati pubblicati in un recente studio dell’ISPI, l’Istituto per gli studi di politica internazionale.
I combattenti dell’Isis sono per la maggior parte uomini e di giovane età, avendo iniziato il percorso di radicalizzazione, che ha condotto all’azione violenta, nel corso dei loro vent’anni. Si tratta, nella quasi totalità, di radicalizzati homegrown il cui processo di adesione all’islam radicale è avvenuto nelle città europee e americane nelle quali sono nati e nelle quali vivono. Quanto alla nazionalità, il ritratto che emerge dalle informazioni disponibili è quello di cittadini europei e americani, la maggior parte dei quali provenienti dall’immigrazione, mentre i “convertiti” all’islam radicale rappresentano il 17% del campione analizzato; circa un quarto degli autori degli attentati, infine, ha la nazionalità straniera.
L’approfondimento di alcune storie di vita – tra cui le storie di Anis Amir, il 24enne tunisino che il 19 dicembre 2019 ha guidato il camion contro le bancarelle del mercatino di Natale a Berlino e dei fratelli Chérif e Said Kouachi, autori dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi del 7 gennaio 2015 – restituisce l’immagine di esistenze che si sono concluse senza mai aver avuto inizio; esistenze nelle quali il primo e unico spazio di identità e di riconoscimento sembra essere stato rappresentato dall’appartenenza alla comunità dei fratelli musulmani e dalla condizione di martiri che hanno combattuto “sulla via di Dio”.
Quali elementi segnano la differenza tra combattenti “autoctoni” e combattenti “stranieri”?
Gli elementi sopra descritti accomunano i combattenti dell’Isis, siano essi jihadisti che hanno agito nelle città occidentali oppure foreign fighters partiti per contribuire all’edificazione del Califfato.
I combattenti “autoctoni” e “stranieri” rappresentano la manifestazione di uno stesso processo e sono spinti dalle medesime ragioni che, nel libro, si propongono come lettura della radicalizzazione islamica violenta.
Le differenze tra i fighters autoctoni e stranieri sembrano potersi rintracciare nella diversa manifestazione di rottura (in quanto i combattenti stranieri hanno abbandonato la società alla quale si ribellano) e, quindi, nello spazio geografico nel quale i radicalizzati aderiscono alla grande narrazione di un islam – religione degli umili ma al tempo stesso subcultura del riscatto – che si pone in contrasto con l’ordine costituito degli infedeli, per ristabilire un nuovo ordine (tendenzialmente) globale legittimato dalla sacralità religiosa.
Un fenomeno particolare è rappresentato dalle muhajirat: quale ruolo era riservato alle donne nello Stato islamico?
Il fenomeno dell’adesione all’islam radicale viene spesso analizzato senza operare una distinzione di genere. Appare, tuttavia, di particolare interesse lo studio della radicalizzazione femminile che presenta, a mio avviso, alcuni aspetti paradossali: come è possibile che le donne che vivono in Europa e sono alla ricerca di emancipazione e libertà che non riescono ad ottenere nella società occidentale, trovano una risposta a tali bisogni nell’interpretazione estremista di una religione che riconosce alla donna un ruolo subordinato? La tradizione islamica, infatti, delinea un chiaro confine tra la sfera del politico e della guerra – riservata agli uomini – e la sfera del privato domestico – ambito naturalmente destinato alle donne.
Nel libro si tenta di dare risposta a questo interrogativo rappresentando e interpretando la complessità dei processi di radicalizzazione delle muhajirat, ossia delle donne che hanno compiuto l’egira (la migrazione verso i territori dello Stato islamico), di regola, al fianco del loro sposo combattente e, in alcuni casi eccezionali, da sole.
Stefania Crocitti è docente a contratto di Criminalità, genere e violenza presso l’Università di Bologna e di Sociologia di comunità e del territorio presso l’Università degli Studi di Padova. Ha svolto e svolge attività di ricerca in tema di devianza giovanile, criminalizzazione dei migranti, violenza nelle relazioni di intimità, sfruttamento lavorativo, crimine organizzato e sicurezza urbana. Per Carocci Editore ha pubblicato I confini delle mafie. Il crimine organizzato nella provincia di Rimini (2018).