
Quale importanza rivestono le storie dedicate ai più piccoli per i loro processi di crescita e di conoscenza della realtà?
Le storie, da qualunque strumento – dalla voce alle app – vengano narrate, sono molto più che semplici distrazioni: creano legami forti tra chi narra e il destinatario del racconto, sono un potente catalizzatore di emozioni e di affetti, aiutano a vincere insicurezze e a placare timori, ma soprattutto trasmettono modelli di riferimento con i quali i bambini e le bambine continueranno a relazionarsi e a confrontarsi per il resto della loro vita.
Per i più piccoli le storie sono un’occasione per dilatare e approfondire la conoscenza di sé e del mondo, per sperimentare i propri limiti ed esplorare le proprie possibilità. La narrazione tende una mano all’esperienza, la articola, mostrando ai bambini e alle bambine ciò che gli adulti danno per scontato: le storie parlano di amicizia, ma non nascondono le difficoltà insite nelle relazioni; raccontano di certezze, ma anche della paura di affrontare le novità; definiscono limiti, ma allo stesso tempo invitano a non fermarsi all’apparenza e a proseguire oltre; esprimono gioia, ma sanno anche comunicare emozioni sospese come la malinconia, lo stupore, l’incredulità.
Anche quando non ci sono parole scritte o parlate – e nella narrazione dedicata all’infanzia questo accade spessissimo – i media raccontano storie: la musica, le immagini e gli oggetti, attraverso la percezione tattile, forniscono all’infanzia un grande repertorio narrativo. Perfino l’olfatto, da parte sua, evocando ricordi ed emozioni, in qualche modo racconta storie. Ben consci di queste possibilità, gli autori che scelgono l’infanzia come proprio pubblico privilegiato, utilizzano tutti i mezzi e tutti gli strumenti a loro disposizione per farlo.
Quali valutazioni è opportuno fare prima di proporle ai bambini?
Prima di proporre una storia ai più piccoli – sia essa contenuta in un libro, in una serie tv, in un film, in uno spettacolo teatrale, in un videogioco, in un canale di youtube, in una app ecc. – è necessario apprezzarla. Perché dovremmo raccontare o far raccontare ai bambini una storia che non ci piace? Ci basta pensare che qualcuno possa ritenerla adatta? Poi, ma in “seconda battuta”, occorrerebbe conoscerne i contenuti e, magari, domandarsi quale tipo di messaggio consegni ai bambini e alle bambine, quale esempio di infanzia mostri e quale genere di relazioni proponga.
Vale la pena dedicare tanta attenzione al nutrimento con il quale alimentiamo l’immaginario infantile quanta ne dedichiamo al cibo necessario allo sviluppo fisico dei più piccoli. Non occorrono censure, dunque, ma la varietà delle proposte non può e non deve contenere solo prodotti standardizzati e di facile consumo – nutriremmo i nostri bambini e le nostre bambine di sole merendine? – ma anche le migliori offerte presenti sul mercato; migliori non esclusivamente dal punto di vista estetico, ma perché ritenute interessanti, suggestive, aperte al possibile. Storie che divertono, intrattengono, ma nello stesso tempo stimolano il pensiero; storie che affascinano e inducono a pensare, fin da piccoli, che si possa essere davvero protagonisti e si possa contribuire a cambiare la realtà che ci circonda.
Scegliere storie destinate ai più piccoli, qualunque sia il medium che le narra, significa, soprattutto, superare le nostre necessità di adulti affrettati e insicuri, perché le storie non dovrebbero servire a calmare, né tanto meno a “curare” i bambini e le bambine, o ad appiattire i loro desideri, ma a stuzzicare la loro fantasia, a permettere loro di esplorare nuove possibilità, spingendoli fino a desiderare di cambiare il mondo, se e quando questo mostra aspetti che non piacciono.
Quali sono le tipologie di libri più adatte alla prima infanzia?
Quando pensiamo al libro siamo soliti considerare, da adulti, il suo contenuto, ovvero lo scrittura. Per i più piccoli, invece, il libro è prima di tutto un oggetto. Ancora prima di frequentarlo come fonte di storie, infatti, i bambini e le bambine imparano a conoscerlo – e a riconoscerlo – come un oggetto da guardare, toccare, manipolare, annusare e, qualche volta, assaggiare e assaporare. Come aveva ben intuito Bruno Munari, i migliori libri pensati per l’infanzia non hanno una funzione prestabilita e predefinita, ma il compito di stimolare l’esplorazione: devono invitare i più piccoli a esaminare attentamente, ricercare per scoprire autonomamente i segreti nascosti nell’oggetto che stanno manipolando, a partire dalla sua forma, struttura e composizione per poi incontrare le storie che si celano al loro interno. Storie raccontate soprattutto attraverso le immagini, tenendo conto che ai più piccoli le parole scritte paiono semplicemente segni tracciati sulla carta: sono parte integrante della grafica, non hanno altra funzione che essere immagini tra le immagini. Per questo gli albi illustrati sono importanti e per questo bisogna prestare estrema attenzione alle immagini che vi sono contenute, stando attenti a non farsi ingannare dalle banali proposte monocromatiche – rosa per le bambine e i diversi toni del blu o il nero per i bambini utilizzati non a fini narrativi, ma per una mera, quanto sterile distinzione di “genere” – che troppo spesso si offrono loro.
Quale funzione può svolgere la TV nell’educazione dei più piccoli?
Le serie tv rivolte all’infanzia trasmettono, talvolta inconsapevolmente, dei modelli educativi, ovvero dei modi di essere, di comportarsi, di rapportarsi agli altri; indicano anche come diventare adulti, come approcciare il mondo, come costruire la propria identità confermando o rifiutando gli esempi presentati dai media e, quindi, presenti nell’immaginario. Eppure uno degli atteggiamenti – ma forse anche delle tentazioni – più ricorrenti negli adulti che si occupano dell’infanzia è quello di considerare la tv e i programmi che trasmette come alternative alla propria attenzione; come surrogati della propria presenza; come sostituti del gioco; come dispensatori di calma e serenità. Se i bambini sono rapiti dai programmi, gli adulti si sentono tranquilli di fronte a un medium che conoscono, con il quale sono cresciuti e hanno imparato a confrontarsi. O almeno questa è la percezione ricorrente. Ci sono, però, domande che ogni adulto “educante” dovrebbe porsi di fronte a ogni media e alla tv in particolare, ovvero: cosa stanno guardando davvero i bambini e le bambine quando sono di fronte allo schermo? Quali sono le storie che li coinvolgono? Quali sono i modelli educativi, esistenziali e comportamentali con i quali vengono a contatto? Ma, prima ancora, ci piacciono davvero le storie che guardano?
Anche in questo caso non si tratta di censurare, ma di variare, ampliandola, la gamma delle proposte; ma soprattutto di condividere con i più piccoli le storie trasmesse dalla tv, di essere pronti a rispondere alle domande che le narrazioni – almeno quelle migliori – suscitano e di domandarsi perché alcune serie non suscitino proprio nessuna curiosità.
Come si può costruire un rapporto virtuoso tra bambini e digitale?
C’è una costante che lega tutte le forme di narrazione rivolte all’infanzia delle quali parlo nel volume – dalla voce al digitale, per intenderci – ed è la necessità della presenza adulta a fianco dei più piccoli. Una presenza che sappia essere discreta quando necessario, ma che si riveli attenta e circostanziata quando i media si fanno più complessi e interattivi.
Il digitale, ed in particolare le tecnologie touchscreen, favoriscono l’amplificarsi di un “pensiero magico” che porta bambini e bambine a credere di poter trasformare la realtà solo toccando le cose, interagendo con esse e, forse, anche semplicemente desiderandolo. Il pensiero magico, tipico dell’infanzia, è un pensiero che si muove al di fuori della logica e tende a mettere in relazione eventi e situazioni in una maniera particolare che esula dalle leggi della fisica e dalla stessa razionalità. Ciò non è di per sé un aspetto negativo, al contrario, ma dovrebbe inserirsi all’interno di un contesto esperienziale che permetta anche ai più piccoli di sperimentare la complessità dell’umano e delle relazioni che lo caratterizzano. Nasce di qui l’invito da un lato a non stigmatizzare il digitale, potenzialmente straordinario anche dal punto di vista narrativo, dall’altro a prestare attenzione, ad accompagnare i bambini e le bambine nella loro scoperta delle app, ad esplorare con loro le situazioni narrative, preservandoli dal trasformare le nuove tecnologie in un universo totalizzante ed esclusivo sul quale riversare la completa attenzione.
Compito non semplice del genitore e dell’educatore di fronte alle app è però, prima di tutto, quello di accompagnare i bambini e le bambine nell’esplorazione delle molteplici correlazioni, dei nessi, ma anche delle profonde, incolmabili, differenze che sussistono tra la realtà e la finzione; tra la possibilità creativa delle storie e la progettazione esistenziale. Sottolineando, però, come la creatività, la fantasia e la fantasticazione siano componenti fondamentali dell’umano, così come lo sono la logica, il realismo e la concretezza. Ed è proprio l’elemento ludico a creare, nelle app, un ponte tra le diverse dimensioni, restituendo l’idea che un pizzico di magia all’interno del pragmatismo, e viceversa, possa davvero permettere ai più piccoli non solo di apprezzare meglio le storie, ma perfino di migliorare le proprie esperienze e le proprie relazioni con gli altri. Anche attraverso il digitale.
Anna Antoniazzi è ricercatrice presso il DISFOR (Università di Genova). I suoi interessi di ricerca riguardano prevalentemente il rapporto narrativo e immaginativo che lega il libro agli altri media. Tra le sue pubblicazioni: Labirinti elettronici. Letteratura per l’infanzia e videogame (Milano, 2007), Contaminazioni. Letteratura per ragazzi e crossmedialità (Milano, 2012), La scuola tra le righe (Pisa, 2014), Dai Puffi a Peppa Pig (Roma, 2015) e Raccontiamo ai più piccoli. Libri e media nella prima infanzia (Roma, 2019).