
Come si è sviluppato il movimento «Law and Literature»?
È una domanda che forse non ha una vera risposta, prima di tutto perché è molto dubbio che si possa parlare di Law and Literature come di un movimento strutturato, di certo non se ne può parlare nei termini di una “scuola” o di una “materia”. Ciò perché gli stessi studiosi di Law and Literature adottano atteggiamenti e approcci molto diversi gli uni dagli altri. Il movimento, per chiamarlo così perché in qualche modo dobbiamo pur capirci, nasce negli Stati Uniti verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, ma è questa più che altro una convenzione (viene pubblicato un libro che si intitola proprio Law and Literature), perché di fatto c’è sempre stato. L’amico José Calvo, un collega che insegnava a Malaga, scomparso prematuramente l’anno scorso, trovava l’espressione stessa “diritto e letteratura” sbagliata perché poco informativa: significa “diritto nella letteratura” o “letteratura nel diritto”? Significa che studiamo i testi giuridici, tipicamente le sentenze, con gli strumenti della critica letteraria, oppure significa che andiamo a spulciare i romanzi che abbiamo per trovare qua e là qualche traccia di diritto (una cosa, quest’ultima, che viene effettivamente fatta abbastanza spesso e che non produce mai risultati di qualche importanza)? Preferiva la locuzione “cultura letteraria del diritto”, che secondo me rende bene l’idea di che cosa si dovrebbe fare: studiare il diritto come un fenomeno culturale, cosa che in effetti è, e non soltanto come una tecnica.
Di quale utilità è, per lo studio del diritto e della politica come fenomeni sociali, l’approccio offerto dalla «Cultura letteraria del diritto»?
È di grande utilità, su questo mi permetto di non avere dubbi. Certo, come ho scritto da qualche parte, non possiamo imparare la procedura penale leggendo il processo al Fante di Cuori dell’ultimo capitolo di Alice nel Paese delle Meraviglie, ma quel capitolo ci dice tante cose del processo e del suo funzionamento che nessun manuale di procedura penale ci può dire (sento già i miei amici penalisti che stanno chiamando l’ambulanza per farmi venire a prendere). Lì Lewis Carroll fa una satira, una satira del processo, e la satira ci obbliga a leggere sempre da un’altra prospettiva le cose che prende di mira. Si acquista un angolo di osservazione diverso, dal quale, per esempio, possiamo vedere che quella pretesa apparentemente assurda di pronunciare la sentenza prima che la giuria abbia dato il suo verdetto non è detto che lo sia poi così tanto. Il giudice è un esperto, dirige il processo, guida la giuria, che può essere composta anche per intero da persone che di diritto non sanno niente. Non viene mai sorpreso dalla decisione dei giurati. Carroll, con questa strana inversione della procedura che manda Alice su tutte le furie, forse ci sta dicendo che i processi, nella realtà, funzionano così e che in questo non c’è proprio niente di scandaloso.
In che modo concetti giuridici e politici fondamentali come la fondazione delle società, il processo, le utopie, la giustizia, le trasformazioni sociali, sono stati affrontati nei testi letterari?
In mille modi diversi, anche perché spesso si tratta di cose molto diverse le une dalle altre. La fondazione della quale ci parlano i miti è qualcosa di molto diverso dalla fondazione di uno Stato nella modernità. I processi, poi, sono tutti diversi: ci sono regole differenti per i processi del medioevo e per quelli contemporanei, e diversi sono i processi a seconda che si celebrino qui o negli Stati Uniti, perché ci sono regole diverse, è ovvio. Ogni persona che ha frequentato per lavoro le aule giudiziarie ha sentito qualcuno, istruito dai telefilm americani, rivolgersi al giudice chiamandolo “vostro onore” e suscitando qualche sorrisino negli addetti ai lavori. Personalmente, ho anche visto un testimone in un processo civile che, se non avesse colto gli sguardi divertiti della gente che aveva capito che cosa stava per fare, avrebbe giurato sull’agenda del giudice, che era la cosa più simile a una Bibbia presente sulla scrivania. Queste persone non sono esperte di diritto, è ovvio, ma non hanno alcun dovere di esserlo, perché fanno un altro mestiere. Il diritto che loro conoscono è quello che hanno visto nei programmi televisivi, cioè in una rappresentazione artistica che parla del diritto, di un altro però.
Insomma, la letteratura è sterminata, e alla letteratura in senso stretto si affiancano tutte le altre forme dell’arte. La giustizia è affrontata nell’Antigone, una tragedia, come nell’affresco del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti. Le utopie addirittura diventano un vero e proprio genere letterario, con le sue regole e con i suoi temi e personaggi specifici e ricorrenti. Le trasformazioni sociali le troviamo in Dickens, un autore del quale mi sono occupato molto, come nel Ciclo della Fondazione di Isaac Asimov.
Ogni autore sceglie un tema che gli pare promettente, e si tratta quasi sempre di temi centrali. Poi lo tratta con la propria personale sensibilità, e con la libertà che lo scrittore, a differenza del giurista, si può sempre prendere, dato che il solo limite è dato dai confini della sua fantasia.
Persio Tincani (La Spezia, 1968) è professore associato di Filosofia del diritto e Teoria dell’interpretazione. Ha pubblicato più di un centinaio di saggi su riviste e nella forma di contributi a volumi collettanei. È autore delle monografie Argomenti di giustizia distributiva (Torino, 2004), “Ovunque in catene”. La costruzione della libertà (Milano, 2006), Le Nozze di Sodoma (Milano, 2009), Perché l’antiproibizionismo è logico (e morale) (Milano, 2013), Filosofia del diritto (Milano, Firenze, 2017), Identità e Meraviglia (Milano, 2020), Raccontare la società (Milano-Firenze, 2022) e del romanzo Come un solco nel mare (Miano, 2021). Ha curato due antologie e ha organizzato il XXXI congresso nazionale della Società Italiana di Filosofia del Diritto.