
Il “caso Welby” si articola in due fasi giudiziarie. Welby si rivolge a un primo medico e, a fronte del rifiuto opposto da quest’ultimo alla richiesta di praticare il distacco del ventilatore artificiale, tenta la via del ricorso ex art. 700 c.p.c. per ottenere un provvedimento che obblighi l’anestesista a dar seguito alla sua richiesta, negato però dall’autorità giudiziaria. Visto il peggiorare delle proprie condizioni di salute, Welby contatta il dottor Riccio, che accetta di interrompere la respirazione artificiale. Si apre un procedimento per omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e, malgrado la richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero, il Giudice per le indagini preliminari ordina di formulare l’imputazione (art. 409 c.p.p.). Il Giudice dell’udienza preliminare dichiara non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. ritenendo che il fatto, pur integrando nei suoi elementi (positivi) la fattispecie di cui all’art. 579 c.p., non sia punibile per la sussistenza della scriminante dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.).
Credo che la morte di Welby e il processo apertosi a carico di Riccio abbiano segnato uno spartiacque importante su un duplice piano. Da una parte, le note metalliche di quel sintetizzatore vocale che ci hanno fatto ascoltare il grido di dolore di Piero Welby hanno contribuito a lacerare quel velo di ipocrita silenzio che, per troppo tempo, ha avvolto le pratiche di fine vita. Dall’altra parte, su un versante più strettamente giuridico, la pronuncia della dott.ssa Zaira Secchi ha affermato a chiare lettere il principio per cui, a certe condizioni, il medico ha il “dovere” di “aiutare a morire” un paziente che lo richieda. E questo, detto altrimenti, vuol dire che il paziente, a certe condizioni, ha il “diritto” di morire come e quando ritenga opportuno farlo.
Come disciplina il nostro ordinamento le fattispecie penali dell’omicidio del consenziente e dell’istigazione o aiuto al suicidio?
L’art. 579 c.p., rubricato Omicidio del consenziente, punisce «chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui» prevedendo delle pene più basse rispetto a quelle dell’omicidio volontario (art. 575 c.p.).
L’art. 580 c.p. punisce invece, meno severamente rispetto all’omicidio del consenziente, l’istigazione o l’aiuto al suicidio e, quindi, condotte “collaterali” rispetto al suicidio, che, di per sé, non costituisce nel nostro ordinamento un fatto penalmente rilevante. L’istigazione individua ogni forma di aiuto “morale”, mentre l’aiuto si riferirebbe alle sole forme di aiuto meramente “materiale”.
La distinzione tra l’art. 579 e l’art. 580 c.p. è comunemente individuata assumendo come discrimen la condotta dalla quale deriva causalmente la morte: se la condotta che ha cagionato la morte è posta in essere dal terzo, la fattispecie applicabile sarà quella di omicidio del consenziente; se, invece, è posta in essere direttamente dalla vittima, a venire in considerazione sarà un’ipotesi di istigazione o aiuto al suicidio. Si pensi, a titolo esemplificativo, al soggetto che decida di darsi la morte mediante l’assunzione di un barbiturico: l’art. 579 c.p. può trovare applicazione nel caso in cui un terzo provveda alla materiale somministrazione del farmaco, mentre l’art. 580 c.p. si applicherà qualora il terzo procuri il farmaco all’aspirante suicida, che provvede poi, autonomamente, all’assunzione dello stesso.
Con i miei studenti ricorro spesso alla potenza evocativa del racconto cinematografico. Pensate alla scena di Million Dollar Baby di Clint Eastwood in cui Frankie (Clint Eastwood) esaudisce la richiesta della sua “campionessa” Maggie (Hilary Swank, premio Oscar per questa interpretazione), rimasta paralizzata per un incidente avvenuto durante un incontro di boxe, di aiutarla a morire: Frankie stacca il respiratore e poi somministra a Maggie una consistente dose di adrenalina e in questo modo, se dovessimo applicare il codice penale italiano, pone in essere un omicidio del consenziente.
Un esempio di istigazione o aiuto al suicidio, invece, è offerto dalla “procedura” seguita da Miele (Jasmine Trinca), angelo della morte protagonista dell’omonimo film di Valeria Golino: Miele si procura un potente barbiturico, commercializzato all’estero ma illegale in Italia, fornisce ai “pazienti” tutte le informazioni relative all’assunzione e agli effetti del farmaco, lasciando però che siano i pazienti a provvedere alla materiale assunzione dello stesso.
Cosa ha statuito la sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale in relazione al caso di Fabiano Antoniani e Marco Cappato?
Se il caso Welby-Riccio chiama in causa l’omicidio del consenziente, la vicenda di Fabiano Antoniani e di Marco Cappato si colloca sul versante dell’aiuto al suicidio.
Il caso è sufficientemente noto. Fabiano Antoniani è affetto da tetraplegia e cecità bilaterale corticale (dunque permanente) a seguito di un incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014. Non è autonomo per lo svolgimento delle basilari funzioni vitali (respirazione, evacuazione) né per l’alimentazione. La sua condizione gli cagiona gravi sofferenze fisiche, lasciando per contro inalterate le funzioni intellettive. Dopo il fallimento di numerose terapie riabilitative e presa coscienza dello stato irreversibile della propria condizione, Fabo matura la decisione di porre fine alle sue sofferenze, comunicando ai propri familiari il proposito di darsi la morte. Malgrado i tentativi di dissuasione, portati avanti soprattutto dalla madre e dalla fidanzata di Fabiano, la sua scelta diviene sempre più radicata. Il 27 febbraio 2017, presso l’associazione svizzera Dignitas, Fabo trova la morte attraverso una pratica di suicidio assistito. Il giorno successivo Marco Cappato si è presenta presso i Carabinieri di Milano, dichiarando che di aver accompagnato Fabiano Antoniani in Svizzera, affinché lo stesso potesse concretamente realizzare la propria decisione di darsi la morte.
A Marco Cappato, dunque, viene contestata la fattispecie di cui all’art. 580 c.p., sotto il profilo dell’aiuto meramente materiale: risulta accertato, infatti, che Fabiano avesse già deciso di recarsi in Svizzera per darsi la morte attraverso una pratica di suicidio assistito. La Corte d’Assise di Milano, tuttavia, ritiene che la rilevanza penale della condotta posta in essere da Marco Cappato presentasse dei profili di illegittimità costituzionale. Più esattamente, il bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p. non andrebbe più individuato nella vita, così come avveniva nell’impostazione originaria del codice penale (del 1930), bensì nella libertà di autodeterminazione del singolo. Se Fabiano aveva già liberamente “scelto”, la sua autodeterminazione non poteva in alcun modo considerarsi offesa dall’aiuto materiale offerto da Marco Cappato.
La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 207 del 2018 e seguendo un iter innovativo, “rinvia l’udienza” di un anno, “chiedendo” al Parlamento di intervenire su un quadro legislativo che, pur non imponendo una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’intero art. 580 c.p., presentava molti ed evidenti profili di illegittimità costituzionali per situazioni assimilabili a quelle di Fabiano Antoniani.
Il calendario giunge a segnare la data del 24 settembre 2019 senza che, come era ampiamente prevedibile, la situazione legislativa subisca mutamento alcuno. Con la sentenza n. 242 del 2019 il Giudice delle Leggi, prendendo atto «di come nessuna normativa in materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza», perviene a una parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. L’art. 580 c.p. è stato dichiarato parzialmente illegittimo «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».
Inutile negare che il dispositivo della sentenza n. 242 del 2019 sia complesso e per certi aspetti problematico, con una Corte costituzionale che, sia pur con qualche imbarazzo e molte cautele, si è trovata a vestire i panni del Legislatore.
L’impressione, più in generale, è che non si tratti di un punto di arrivo, ma di un punto di partenza.
Come si esprimono il paternalismo o l’antipaternalismo del diritto penale?
L’etichetta del paternalismo, anche nella sua versione del paternalismo penale, interviene a compendiare numerose versioni che valgono a diversificarne presupposti e contenuti. In via di prima approssimazione, l’approccio di un ordinamento giuridico può considerarsi paternalistico quando lo Stato, magari avvalendosi della sanzione penale, appone dei limiti alla libertà dell’individuo “per il suo bene”, impedendo che cagioni un danno a se stesso mediante condotte che, pure, non cagionano danni a soggetti terzi.
Il paternalismo dovrebbe tenersi distinto dal mero moralismo giuridico, secondo il quale una condotta andrebbe vietata per il suo carattere immorale, indipendentemente da qualsivoglia legame concettuale con la logica del danno, anche riferito all’autore della condotta.
Solo apparentemente paternalista, invece, è quell’atteggiamento efficacemente definito di “paternalismo tutorio”, contrapposto a un “paternalismo dispotico” (A. Spena). Il paternalismo dispotico, che rappresenta il paternalismo “in senso stretto”, mira a evitare che un soggetto, sebbene adulto e consapevole, si procuri un danno: lo scopo, quindi, è quello di imporre un certo modello di “cosa buona e giusta”, indipendentemente dalla volontà e dalle scelte del singolo. Nel caso del paternalismo tutorio, per contro, l’obiettivo è quello di evitare che una persona si procuri un danno mentre versa in una condizione di “incompetenza basica” e, quindi, non sia in grado di prendere una decisione consapevole. Si tratta, come già precisato, di una forma di paternalismo solo apparente, che infatti non trova alcuna difficoltà a inserirsi in maniera coerente nelle concezioni di stampo liberale.
L’antipaternalismo, per contro, si riferirebbe a tutte quelle soluzioni normative che enfatizzano la libertà di scelta del singolo, determinando al contempo un arretramento dello Stato che, qualora la condotta del singolo non apporti altro danno oltre a quello a se stesso, dovrebbe astenersi da ogni forma di intervento. Come scriveva John Stuart Mill, «il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul corpo, l’individuo è sovrano».
In che modo l’autodeterminazione si configura come bene giuridico all’interno del nostro ordinamento?
La mia impressione è che nell’esperienza giuridica italiana si abbia ancora qualche difficoltà a individuare l’autodeterminazione come autonomo bene giuridico che, in particolare, “sia messo al centro” nel dibattito relativo alle questioni di fine vita.
Con la sentenza del 26 febbraio 2020, la Corte costituzionale tedesca ha dichiara l’illegittimità costituzionale del § 217 del codice penale tedesco, che prevedeva la fattispecie di aiuto al suicido a carattere commerciale. Si tratta di una pronuncia in cui fin da subito si è individuato un manifesto antipaternalista e non è un caso che i giudici d’Oltralpe muovano proprio da una valorizzazione dell’autodeterminazione: è quest’ultima l’oggetto principale di tutela e, per il suo tramite, si arriva poi a tutelare anche la vita.
La prospettiva della Corte costituzionale italiana, invece, risulta per certi aspetti speculare: si tutela anzitutto la vita e, indirettamente, la libertà di scelta del singolo in riferimento alle modalità della sua morte, anche se la presa di posizione del nostro Giudice delle Leggi, riguardo a questo specifico aspetto, non sempre risulta chiara.
Non ho la pretesa di indicare quale sia la sola soluzione “giusta” o, addirittura, “obbligata”. Anzi, credo che, almeno entro certi limiti, il nostro ordinamento risulti compatibile tanto con soluzioni più esplicitamente antipaternaliste quanto con approdi più cauti. Credo, però, che la questione del bene giuridico sia ormai ineludibile e che meriti di essere affrontata in maniera esplicita.
Consentitemi un’ultima considerazione. La riflessione sulle questioni di fine vita va di pari passo con quella sulle cure palliative e, più in generale, su un’assistenza sanitaria dignitosa. Si può parlare di libertà di scelta solo se (e nella misura in cui) il paziente sia davvero messo nella condizione di scegliere. A fronte di un Sistema sanitario nazionale lacunoso, farraginoso, attraversato da una surrettizia privatizzazione di un numero sempre crescente di prestazioni e, quindi, dall’incalzare silenzioso di una vera e propria “tutela della salute basata sul censo”, ha poco senso abbaiare rabbiosi contro forme di liceità dell’aiuto al suicidio, mentre lo Stato entra in affanno per garantire condizioni minimamente dignitose alle esigenze più basilari del diritto alla salute. Il paternalismo, in queste condizioni, assume la consistenza di un gigante dai piedi d’argilla.
Il merito di vicende come quelle che hanno visti protagonisti Piergiorgio Welby e Fabiano Antoniani è stato quello di consentire che le questioni di fine vita uscissero dall’ombra delle corsie d’ospedale, dal silenzio delle case che ospitano e qualche volta nascondono i pazienti e le loro famiglie, dalla solitudine di certe strutture di ricovero per malati terminali che rischiano di somigliare più a un lazzaretto disperato e disperante che a un protettivo rifugio in cui, ostinatamente, si “scelga” di continuare a “vivere”.
Non resta, quindi, che mantenere ostinatamente i riflettori accesi perché, qualsiasi sia l’esito cui si perverrà, quella luce accesa è l’eredità più significativa di Piero, di Fabo e anche di tutti coloro che hanno avuto il loro stesso coraggio.
Il mio libro, ci tengo a ricordarlo, è dedicato a Mina Welby, che in questi anni mi ha insegnato l’importanza del confronto e il valore della tenacia.
Antonella Massaro è professoressa associata di Diritto penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre”, dove è titolare dei corsi di Diritto penale europeo e Law and Gender, nonché dell’attività formativa Diritto penale al cinema. È altresì docente in numerosi Master e corsi di specializzazione. Tra i temi oggetto della sua attività di ricerca si segnalano il reato omissivo colposo, la responsabilità penale del medico, il principio di legalità in materia penale e la tutela della salute nei luoghi di detenzione.