“Questione d’autorità. Un’antropologia della leadership nella cultura greca” di Carmine Pisano

Prof. Carmine Pisano, Lei è autore del libro Questione d’autorità. Un’antropologia della leadership nella cultura greca edito dal Mulino: che cos’era l’autorità nella Grecia antica?
Questione d’autorità. Un’antropologia della leadership nella cultura greca, Carmine PisanoNella Grecia antica, l’autorità o exousía si presenta come un concetto decisamente diverso da quello romano di auctoritas, a lungo ritenuto il modello per eccellenza dell’autorità. Come ha dimostrato Maurizio Bettini (Se l’autorità “fa crescere”. Dall’auctoritas della cultura romana all’exousía dei Vangeli, in Id., Dèi e uomini nella Città, Roma 2015, pp. 99-117), mentre auctoritas designa una qualità intrinseca dell’auctor, di colui che, in virtù della sua posizione, è in grado di «accrescere» (augere), ovvero di «far riuscire» qualche cosa, exousía (dal greco éxesti, «è possibile») indica piuttosto «una possibilità, una facoltà», che il soggetto non possiede di per sé, ma che gli viene assegnata da (ex) un agente esterno. Bettini ha studiato gli usi e il significato di exousía nel Vangelo di Marco, ma i risultati della sua analisi trovano riscontro sin dalle prime attestazioni del termine agli inizi dell’epoca classica. Ad esempio, uno dei casi più interessanti che abbiamo analizzato in Questione d’autorità riguarda il ritratto di Teseo nell’Encomio di Elena del retore ateniese Isocrate. Dell’eroe si dice che «lungi dal fare qualcosa contro il volere dei cittadini, rese il popolo arbitro della vita politica; ma i concittadini ritennero lui solo degno di comandare, convinti che il suo governo monarchico fosse più sicuro e imparziale del loro governo democratico […] Di conseguenza passò la vita non fra le insidie ma fra le testimonianze di affetto, e conservò il potere non con l’appoggio di una forza straniera ma custodito dalla benevolenza dei cittadini; era sovrano assoluto per la sua autorità (exousía) ma capo del popolo per i suoi benefici» (Isoc., Hel. 36-37; traduzione di M. Marzi, in Opere di Isocrate, vol. I, Torino 1991, pp. 505-507). La traduzione di exousía con «autorità» sembra qui perfettamente legittima, visto che il termine si riferisce al potere monarchico di Teseo. Eppure occorre considerare quanto Isocrate dice poco prima a proposito della sovranità esercitata dall’eroe: egli non prese o ricevette in eredità il potere per poi governare «con autorità», ma piuttosto la «facoltà» (exousía) di gestire gli affari collettivi «da re» gli fu conferita dai concittadini, i quali ritennero «che il suo governo monarchico fosse più sicuro e imparziale del loro governo democratico». Come l’esempio mostra bene, l’exousía è una facoltà concessa da una fonte esterna (i cittadini di Atene) rispetto al soggetto che la esercita (Teseo).

A lungo è stata negata l’esistenza stessa di un termine greco per definire l’autorità: quali sistemi di relazione sottesi al concetto romano di auctoritas è possibile rinvenire nella cultura greca?
A Roma l’auctoritas costituisce un elemento chiave dell’equilibrio di poteri e funzioni che sta alla base dell’assetto istituzionale. In un ordinamento in cui – per dirla con Cicerone (Leg. III, 28) – «il potere risiede nel popolo, l’autorità nel Senato» (cum potestas in populo, auctoritas in senatu sit), l’auctoritas rappresenta l’istanza di legittimazione che consente alla potestas popolare, intesa come potere imperfetto, “potere in potenza”, di riuscire e avere successo. Negando l’esistenza in Grecia non solo del termine ma della stessa nozione di autorità, gli studiosi (da Hannah Arendt a Bruce Lincoln) si sono sforzati tutt’al più di rinvenire nella cultura greca gli stessi sistemi di relazione sottesi al concetto romano di auctoritas, confrontando il rapporto che lega Senato e popolo a Roma con quello che unisce la cerchia dei capi e l’assemblea dei soldati in Omero, i re-filosofi o la legge “sovrana” e il corpo dei cittadini nei modelli riformistici di Platone e Aristotele. È venuto così a mancare lo sforzo di individuare una configurazione greca del concetto di autorità, destinata a descrivere e giustificare quell’insieme di relazioni. 

Di quali metafore culturali i Greci si servivano per elaborare la loro particolare nozione di autorità?
L’analisi contrastiva, già richiamata nella risposta al primo quesito, mostra che, mentre auctoritas implica la metafora culturale dell’«accrescere» (augere), ossia del far riuscire qualcosa rendendolo «grande» (magnus) e «ben cresciuto» (felix), exousía mette in valore il modello culturale della «facoltà» attribuita o concessa da una fonte esterna, attestando una visione “altra” dell’autorità che si avvicina a quella che Pierre Bourdieu chiama «autorità delegata»: l’autorità di cui sono investiti gli agenti sociali (sacerdoti, insegnanti, ecc.) che operano come rappresentanti di un’istituzione da cui deriva loro la facoltà di fare e/o dire determinate cose. Con ciò, naturalmente, non intendiamo sostenere che il problema delle “fonti” di autorità sia sentito solo in Grecia e non anche a Roma (si tratta di un problema più che comune nelle culture antiche e moderne), ma che, nel rappresentare l’autorità, i Greci hanno scelto di privilegiare un campo metaforico, quello della “delega”, che a Roma, seppur presente, resta in qualche modo subordinato a quello della «crescita», su cui punta la concettualizzazione romana della nozione. Questa scelta, come abbiamo cercato di dimostrare, ha delle conseguenze importanti sia sulla semiotica gestuale dei soggetti sociali dotati di autorità sia sulla strutturazione dei contesti rituali (che si tratti di riti “religiosi” o sociali) in cui essi parlano e/o agiscono in forma vincolante per il pubblico dei ricettori.

Quali diverse forme di autorità analizza il Suo studio?
Il mio studio analizza principalmente tre diverse forme di autorità: della persona, della parola, degli artefatti. Rispetto agli studi tradizionali, incentrati soprattutto sull’autorità della persona (il caso emblematico è quello del «capo» o basileús), ampio spazio è dedicato ai cosiddetti professionisti della comunicazione o «artigiani» della parola (sacerdote, araldo, indovino, aedo), i quali, pur non disponendo direttamente di poteri decisionali o di governo (l’ultima parola spetta in ogni caso al basileús, che può ratificarne o meno pareri e consigli), godono tuttavia di una parola autorevole e hanno accesso al “centro” del luogo di riunione, normalmente riservato ai soli capi. Una sezione specifica è dedicata poi a quei casi in cui il principio di autorità non è incarnato da un soggetto umano, dalla sua persona o dalla sua parola, ma da un artefatto ritualmente soggettivizzato come lo scettro, che appare dotato di un’autonoma «capacità di azione» (agency) nella misura in cui opera come la «traccia visibile di una rete invisibile di relazioni, che si dispiegano nello spazio e nel tempo di una società» (A. Gell, Art and Agency: An Anthropological Theory, Oxford 1998, p. 62). Un’altra forma di autorità è trattata infine nell’ultimo capitolo, relativo ai casi di «autorità senza autore» (secondo la felice definizione di Carlo Severi). Analizziamo cioè tutti quei prodotti culturali della coscienza collettiva (racconti delle balie, voci e dicerie, il nómos, «legge, consuetudine»), la cui autorità risiede nel non avere un autore chiaramente identificabile e dunque nell’essere in qualche modo la parola di tutti, creazione sociale riattualizzata ad ogni performance da enunciatori interscambiabili.

Quali luoghi fisici e pratiche sociali e rituali avevano lo scopo di sostenere e dare forma visibile e comprensibile alla rete dei rapporti di forza?
È degno di nota come nel mondo omerico l’autorità del capo si costruisca e si “offra alla vista” attraverso specifici cerimoniali, in cui il ricorso a determinate pratiche ha lo scopo di descrivere e tracciare la trama dei rapporti di forza. Gli esempi analizzati riguardano soprattutto l’assemblea o agoré con le pratiche deliberative che vi hanno luogo, i riti che suggellano la divisione del bottino e l’assegnazione dei premi dei giochi. In tutti questi casi, l’importanza attribuita al “centro” del luogo di riunione, i cui valori si declinano in funzione del contesto, dimostra che l’autorità non promana tanto da persone o cose, ma si produce e si radica in luoghi fisici che strutturano un certo «spazio mentale» e ne sono a loro volta strutturati.

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