
Nel sismografo della crisi mettiamoci anche la fine delle riviste, che erano state essenziali nel Novecento per la formazione dei raggruppamenti letterari e le indicazioni delle diverse tendenze, nonché la fine stessa delle tendenze, in quanto il mercato non ha nessun interesse a farle emergere e non si vedono più neanche col microscopio, dopo gli ultimi vani tentativi – me testimone diretto di alcuni – degli anni Ottanta-Novanta di marcare un confine tra modi opposti di intendere e praticare il testo letterario. Quel che resta delle riviste, oggi ha chiesto asilo politico alla rete, trasformandosi in siti: ma la critica in rete, sebbene sia vivacissima, appare nella maggioranza dei casi ridotta a petizioni di principio senza un minimo di motivazione (mi piace/non mi piace è reazione immediata e istintiva), per cui sembra in grado forse di contendere, ma non di discutere. Dal canto suo, la critica accademica si è arroccata sempre più nel suo fortino didattico, attorno ai valori con la maiuscola, cioè al patrimonio dei classici, che sono il suo precipuo capitale, questo è vero, ma che rischiano di venir feticizzati, restringendo la critica al mero recupero filologico dei dati, insomma all’erudizione, e ad uno sguardo prevalentemente rivolto all’indietro, con nostalgico rimpianto per la trascorsa grandezza.
Per giunta, l’intero “pacchetto” della crisi della critica può finire precisamente nel coro delle lamentazioni (la cultura del piagnisteo) rivolte al rimpianto di una nobiltà decaduta, proprie di persone di età avanzata (“non ci sono più i critici di una volta”, “ai miei tempi…” e via dicendo). Non mi pare, francamente, che ci sia troppo da dolersi: la figura del grande critico autorevole in virtù del suo gusto superiore era in fondo molto autoritaria nei suoi giudizi da ipse dixit, e fungeva piuttosto da custode dei canoni del gusto dominante. Meglio di un eletto consigliere per gli acquisti cui demandare le scelte è imparare a valutare con la propria testa. Il vero problema della crisi della critica letteraria è che è l’epifenomeno di una più complessa guerra che la società fondata sul mercato muove alla critica, alla critica tout court: al mercato servono consumatori di bocca buona e dai sensi ottusi, quindi poco attrezzati a capire cosa stanno facendo, veloci nel consumo. Servono miti, magari, vecchi e nuovi, ma non quella presa di distanza che caratterizza la critica (dopodiché, il fatto che producendo consumatori solerti ma inebetiti, nessuno sappia fare più ciò che serve fare, fa parte delle contraddizioni sistemiche). Educare all’esercizio della critica – funzione che io credo abbia, nel suo piccolo, per l’appunto la critica specificamente letteraria – vorrebbe dire formare soggetti che guardano dietro le apparenze e che sono attrezzati per discutere le decisioni: cittadini ingombranti, se quello che oggi si vuole è una decisione all’istante, se quello che si ha davanti è una scelta obbligata…
Quali sono i limiti e gli errori dell’estetica tradizionale?
Non c’è dubbio che l’arte-letteratura metta in moto la nostra sensibilità e che quindi la critica debba porsi il problema dell’estetica. Tuttavia ritengo sbagliato considerare l’estetica come un settore a parte, e quindi considerare la critica come un ambito di giudizio separato che segue regole proprie, come nei distinti crociani. L’estetica della bellezza (oggi per altro trasmigrata dagli ambiti artistico-filosofici verso attività più redditizie, che si occupano del corpo…) si appoggia su un gusto ritenuto universale e ne fa un criterio incontrovertibile a cui il pubblico dovrebbe adeguarsi, pena un decreto di insensibilità. Ricordiamoci sempre che il canone normativo e istituzionale è un diretto portato del senso comune dominante e che la “distinzione” vera non è di tipo concettuale (come nei “distinti” crociani di cui sopra) ma sta precisamente nell’adesione a un gusto che funziona come distintivo di alta classe, mentre i non dotati di quel gusto vengono identificati immediatamente come subalterni.
Valori eterni? certo sono molto antichi i parametri che vedono come positiva la sintesi e l’unità contrapposte alla dispersione, l’armonia contrapposta alla disarmonia, l’organicità e la proporzione contrapposte all’eterogeneo, ecc. È facile constatare che una certa critica correntemente si serve di tutto un vocabolario estetico-estatico, fatto di superlativi (eccezionale, sublime, magistrale, incomparabile, perfetto) o di termini suggestivi (incanto, magia, fascino) o parareligiosi (anima, rivelazione, rapimento); tutto un vocabolario “auratico” che in realtà non dice niente, almeno niente di verificabile.
È passata invano una buona parte dell’arte moderna e in specie novecentesca che attraverso l’oscurità ha sollecitato dal lato del fruitore un certo sforzo e una certa disponibilità a mettersi in questione e a mettere in questione il gusto ereditato: in poche parole, un’estetica della contraddizione. Questo modo conflittuale è precisamente il rimosso dal mercato che esige la scorrevolezza e la comprensione istantanea, e tende all’intrattenimento, sia nel senso del puro valore di passatempo innocente, sia nel senso proprio del “trattenere” (mi prende/non mi prende), dove la presa implica il passaggio, la trasmissione inconsapevole di modelli di comportamento mentre neppure ce ne accorgiamo. L’intrattenimento richiede il piacevole; ma il valore deve dipendere dalla quantità di piacere? La questione è dibattuta: a tacer d’altri, Freud ricorda la tragedia greca, per cui addirittura gli antichi mettevano al primo posto una rappresentazione che non aveva nulla di piacevole; dal canto suo, Brecht ha rivendicato il godimento critico – che oggi venga escluso non è perché appaia un po’ perverso, bensì perché ritenuto pericoloso…
Alla fine sui piaceri non si può basare alcuna critica: né vale a quantificarlo la statistica delle vendite (che può al massimo calcolare una aspettativa di piacere, non un piacere effettivo), e nemmeno la registrazione dei mi piace/non mi piace (resta non acclarata quale sia la quantità e qualità di piacere). Alla fine, dei piaceri ognuno si tenga i suoi, per favore. Se vogliamo discutere dei testi letterari dobbiamo mettere al centro qualcosa di verificabile, è necessario, a mio parere, abbandonare i cieli dell’estetica e riguardare gli elementi tecnici. È proprio la tecnica a determinare la particolarità del testo letterario, che però lo distingue (eccoci di nuovo alla distinzione) riguardo al mezzo e non riguardo al fine. E aggiungo subito, a scanso di qualsiasi equivoco, che non è sufficiente (come si è creduto nella stagione formal-strutturalista) la mera descrizione del meccanismo, il critico non è come il meccanico che deve sapere come smontare la macchina, il critico deve capire dove la macchina ci porterà. Chiamiamola semiotica o retorica integrale, pensiamo a un dispositivo di tipo foucaultiano legato all’istituzione e ai suoi poteri, insomma il compito della critica è ipotizzare il senso della tecnica. Invece la reazione umorale che oggi quasi sempre si richiede e si suggerisce al pubblico della letteratura, in forma di empatia per la narrativa e di emotività per la poesia, è una cortina fumogena volta a coprire gli effetti ideologici, che devono passare inosservati, a nascondere il modo con cui le forme di finzione collaborano in profondità alla produzione del soggetto, alla formazione – sempre più politicamente centrale – dell’identità, dell’“io sono”. Perché alla fine, stringi stringi, ogni genere letterario è pur sempre, nel suo specifico modo, un genere epidittico, vuole dimostrare qualcosa; e tanto più quanto fa mostra di non farlo e di fare qualcosa di completamente innocuo.
Su quali basi è possibile rifondare una nuova critica?
Di rifondare una nuova critica non so davvero se sia possibile oggi. Non solo abbiamo visto tutti i fondamenti possibili periclitare nell’instabilità, ma sappiamo ormai che la griglia del metodo va messa di volta in volta in dialettica con l’oggetto affrontato e che si tratta, a ben vedere, di strategie, la strategia del critico che si relaziona con la strategia del testo, da cui nascono potenziamenti, ma anche attriti. Per quanto riguarda il “nuovo”, troppe volte questa categoria è stata, nel recente periodo, utilizzata per novità presunte e coincidenti con proposte antichissime oppure per cambiamenti portanti non al meglio ma al peggio.
Non mi sottraggo, però, al contributo personale, pur consapevole che – citando Michelstaedter – “non persuaderò nessuno”. Perché, malgrado tutti i sismografi della crisi, c’è sempre una possibilità, e in essa un modo, di praticare la critica. Come diceva Walter Benjamin, in ogni epoca storica c’è sempre una chance rivoluzionaria, anche soltanto piccola; c’è sempre un’alternativa. Certo è diventata molto difficile solo da concepire una rivoluzione copernicana o un salto di paradigma, manca l’ambiente adatto a stimolare un salto oltre l’orizzonte dato. Eppure c’è sempre modo di intendere diversamente la materia che chiamiamo “letteratura”; basterebbe provare a mettere in mora i parametri attuali della fruizione, vale a dire quel combinato disposto costituito da una parte dal contenutismo, per cui ciò che leggiamo si riduce ai fatti e ai caratteri dei personaggi principali con i quali c’è immedesimazione, dall’altra parte dall’emozione, vibrazione impalpabile e a dire il vero assai vaga e volatile, richiamata tanto spesso in presenza di opere lirico-artistiche. Se dovessi provare a ipotizzare un fondamento direi: mettere al centro del discorso critico l’analisi del testo. A patto di intenderla integralmente non solo nei rapporti interni tra le parti e gli elementi della composizione a tutti i livelli e gli strati possibili (ritmo, sonorità, sintassi, significato, logica), ma anche con tutti i rapporti esterni (con altri testi letterari e con le ideologie sociali). Perché, rovesciando un famoso motto di Derrida, io dico che “c’è sempre extratesto nel testo”: c’è un nucleo problematico (un trauma?) di origine non letteraria ma esistenziale-sociale che viene ricoperto dal linguaggio, o per cauterizzare la ferita oppure per restituirla dell’esterno agendo anche sopra quell’esteriorità che è lo stesso linguaggio adoperato.
Insomma: l’estremamente piccolo insieme all’estremamente grande. Per cui a una critica degna del nome – a mio parere – occorrono due cose: uno, la sensibilità per i dettagli, i risvolti delle parole, i significati secondari e le sfumature, ma anche le ambiguità, quei doppi sensi che forse nemmeno l’autore aveva preventivato e che si sprigionano suo malgrado in una lettura attenta – mentre ovviamente si perdono andando all’ingrosso come nelle adesioni sentimentali che non guardano tanto per il sottile; due, la voglia di andare oltre l’apparenza superficiale di una lettera sancita dal senso comune e provare a ipotizzare il non detto, la dimostrazione implicita che il testo contiene, i programmi sociali che vengono promossi magari in forma di figura o di esempio catechizzante. Dove emerge non tanto l’intenzione dell’autore, ma l’intenzione del testo che l’autore certo ha dotato di parola ma che parla oggi attraverso le voci dei suoi sostenitori e in un contesto che l’autore non poteva preventivare.
Ma è chiaro che per aver voglia di andare a investigare i “retroscena della letteratura”, magari per scoprire che ciò che ci piace ci è nocivo, occorre avere interesse a farlo, vale dire trovarsi in una posizione svantaggiata, far parte di “quelli a cui non piace” lo stato di cose esistente, come dice il titolo del mio libretto ricavato da una sceneggiatura di Brecht. Giustamente ha scritto Sanguineti che il critico deve farsi “rappresentante degli esclusi”. Capisco che sia una posizione scomoda, oggi condannata all’invisibilità. Una posizione non conveniente se ci si accosta alla letteratura con ansia da successo. Eppure la storia ce l’ha insegnato, e Benjamin lo ha ribadito con l’immagine dell’ordigno a orologeria, che chi è sincronizzato con la propria epoca è destinato a rimanervi e a scomparire con essa, mentre l’opera di chi è in contro-tempo andrà alla ricerca nel futuro del proprio momento di leggibilità… Dunque, ai critici che lavorano per una alternativa letteraria si addice il saper essere seminatori. E, dove nulla lascia più pensare a una rivoluzione, avere però fiducia nel clinamen: l’alienazione è una gabbia ferrea, ma c’è sempre della vitalità nascente che ha la forza dell’imprevisto.