
a cura di Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi
Le Monnier Università
«Il mito di Mao, nelle pagine di questo libro considerato alla luce di alcuni momenti della sua elaborazione occidentale, è uno degli aspetti più impressionanti e, si potrebbe aggiungere, più enigmatici del XX secolo. Con propaggini – per quanto sembri incredibile dopo tutto quello che oggi ci è noto e documentato della vita e del regime di Mao – anche nel nostro secolo, fino praticamente ai nostri giorni.
Fa una certa impressione, ad esempio, vedere la direttrice della comunicazione della Casa Bianca ai tempi della presidenza Obama, Anita Dunn, che in un discorso pubblico dichiara che i suoi filosofi preferiti, cui spesso torna prima di prendere decisioni di grande importanza, sono Madre Teresa e Mao Zedong: affermazione che a distanza di quarant’anni dalla morte del cosiddetto Grande Timoniere, lascia a dir poco interdetti. Se infatti negli anni Sessanta e Settanta, dei crimini perpetrati durante il regime maoista affiorava relativamente poco, oggi anche per coloro che non hanno frequentazione frequentazione diretta con le ormai numerose opere che descrivono la realtà della Cina dal dopoguerra sino alla morte di Mao, sia sul piano storiografico che della narrazione autobiografica (sta a sé il caso del best-seller internazionale Cigni selvatici), i milioni di morti del Grande balzo in avanti e i milioni di cinesi umiliati, torturati e uccisi durante gli anni della Rivoluzione culturale rappresentano un dato di consapevolezza comune. Senza beninteso dir nulla del carattere dittatoriale di un regime tale da soffocare ogni più elementare espressione di libertà individuale e politica.
Ma il mito occidentale di Mao non si fondava certamente soltanto sull’ignoranza degli errori e dei crimini. La dimensione globale e la trasversalità di tale mito non possono essere spiegati semplicemente dalla mancanza di informazioni dettagliate su ciò che accadeva in Cina […]. Sia nel Nord del mondo che nel Sud, Mao era apparso, nel corso degli anni Cinquanta, Sessanta e buona parte dei Settanta, come un modello di rigore politico e intellettuale il cui apogeo sarebbe stato raggiunto nel 1968, quando egli diverrà figura di ispirazione per intere generazioni di giovani in rivolta, europei e americani. Delle celebri «tre M» del Sessantotto (Marx, Marcuse e appunto Mao) la guida incontrastata della più numerosa popolazione mondiale era quella che esercitava, sulla scena globale, un ruolo di effettiva leadership politica. In analogia con Che Guevara ma a differenza di quest’ultimo, ai vertici di una grande potenza che aveva in modo decisivo contribuito a fondare, Mao era divenuto l’icona rivoluzionaria in grado di ispirare lotte per l’indipendenza nazionale in Asia, Africa e Sud America. […]
Ma certo oggi le cose sono molto diverse rispetto ai tempi di quello che potremmo definire il mito maoista di massa. È sufficiente ricordare qui alcune cifre relative a quello che può forse considerarsi come il più grande successo editoriale di tutti i tempi: pubblicato nel corso del 1964, l’opuscolo Citazioni del presidente Mao Tse-Tung (popolarmente conosciuto come Libretto rosso) sarebbe stato diffuso nel decennio successivo in ben oltre un miliardo di copie e tradotto in tre dozzine di lingue, per limitarci alle edizioni ufficiali, oltreché ristampato in un numero imprecisabile di edizioni locali, in oltre cinquanta lingue (a un’epoca, si noti, in cui la popolazione globale del mondo non eccedeva i quattro miliardi). Se in Cina il mito di Mao aveva assunto una natura quasi sacrale (si portava ovunque una copia del Libretto rosso, si organizzavano letture di gruppo dei suoi scritti e ogni attività di lavoro o ricreativa si svolgeva all’ombra di onnipresenti ritratti), nell’arco di tempo compreso tra la seconda metà degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo il maoismo sarebbe divenuto in Europa un autentico culto politico. Per numerosi militanti di più o meno vago orientamento comunista e per gli esponenti di una nuova generazione a inedito tasso di politicizzazione precoce, esso costituiva l’alternativa, dinamica e rivoluzionaria, al grigio, burocratico comunismo sovietico. In Francia, in un’epoca in cui Parigi esercitava sul piano delle idee politiche un’influenza mondiale, celebri figure del mondo intellettuale e artistico, quali Sartre e Simone de Beauvoir, Louis Althusser e Jean-Luc Godard – il film La Chinoise è un cult di quegli anni – subiranno e in varie forme contribuiranno a diffondere il fascino del maoismo. […]
Il mito di Mao non ha tuttavia influenzato soltanto coloro «che volevano la Cina qui», come nel caso in Italia di Aldo Brandirali, il leader dell’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti), ma anche coloro che del comunismo erano avversari. Il fascino per la Cina maoista, come già si è accennato e come si potrà vedere in alcuni capitoli di questo volume, attraversava non solo confini geografici ma anche politici. Esso andava ben al di là del ristretto campo propriamente maoista: intellettuali, giornalisti e uomini di Stato che nulla avevano a che fare con la sinistra rivoluzionaria, ne erano tutt’altro che immuni. La storia della Lunga marcia, l’evento forse più leggendario dell’epopea maoista, la vittoria nella guerra civile cinese sui nazionalisti di Chiang Kai-shek e la Rivoluzione culturale hanno affascinato generazioni di giovani desiderosi di cambiare il mondo. A differenza di Che Guevara – l’altra grande icona rivoluzionaria del secondo dopoguerra ma pur sempre ‘sfortunato’ nelle sue imprese sudamericane e africane – non vi è dubbio che Mao sia stato anche uno statista di enorme successo, almeno in un significato ben preciso (kissingeriano) di questo termine: un uomo politico che non solo ha saputo conquistare in modo epico il potere, ma che ha anche contribuito a accrescere fortemente la posizione internazionale del proprio Paese.
Nato il 26 dicembre 1893 a Shaoshan, in una Cina in condizione semicoloniale e in profonda crisi, non può non riconoscersi a Mao di avere intrapreso, sia pure fin dall’inizio in forme ambigue e non di rado spietate, quel processo di radicale trasformazione della società cinese che avrebbe ripristinato il ruolo della Cina nel mondo. Si può certo pensare, in termini congetturali e di storia controfattuale, che le sorti della Cina sarebbero state migliori se non fossero state soffocate, come purtroppo avvenne, le spinte e le esperienze riformistiche e di apertura liberale successive all’instaurazione della Repubblica nel 1911. Ma è indubbio che la definitiva vittoria dei comunisti sui nazionalisti nel 1949 ha segnato l’inizio di un’epoca nuova, in cui la Cina è tornata non solo a autodeterminarsi ma anche a svolgere, come si vede con estrema chiarezza ai nostri giorni, un ruolo di primo piano nella politica e nell’economia globale.
Non deve dunque sorprendere che a un certo momento della storia, coincidente con i decenni centrali del XX secolo, Mao e le sue gesta abbiano suscitato venerazione non soltanto in Cina ma in quello che allora era percepito come un Terzo Mondo in ascesa. Una venerazione destinata a diventare, per alcuni anni, dilagante nelle società occidentali. Veniva messo tra parentesi il fatto che Mao non soltanto non aveva mai rinnegato l’opera di Stalin ma che sempre di più, in polemica con il nuovo corso ‘revisionistico’ dell’Unione Sovietica, avesse collocato se stesso in una linea di continuità con i grandi padri del socialismo: Marx, Engels, Lenin e appunto Stalin.
Un aspetto merita di essere sottolineato perché di grande importanza nella costruzione del mito in ambienti così eterogenei. Mao era dotato di singolari capacità espressive. Non era, con ogni probabilità, il «grande poeta» che adulatori dentro e fuori la Cina, e ingenui ammiratori o impudenti propagandisti nei paesi occidentali, hanno voluto vedere. Ma non vi è dubbio che il Grande Timoniere ha saputo imprimere alle proprie decisioni e azioni una dirompente potenza, creatrice di sentimenti e di immagini. Motti di quella stagione politica quali «bombardare il quartier generale», «la rivoluzione al potere», «colpirne uno per educarne cento», «la scintilla che fa bruciare l’intera prateria», «la rivoluzione non è un pranzo di gala», «le donne sono l’altra metà del cielo», «i Cento fiori» («lasciate che cento fiori sboccino e cento scuole di pensiero entrino in competizione tra loro»), racchiudono e lasciano intuire interpretazioni della politica e piani di azione non solo legati strettamente alla storia del maoismo, ma tuttora utilizzati in contesti del tutto differenti da quelli originari: testimonianza, appunto, delle insolite e a tratti davvero folgoranti attitudini espressive di Mao. A esse si deve associare un’altrettanto notevole capacità coreografica: tra le sue numerose ‘messe in scena’ di successo si deve almeno ricordare la celebre traversata a nuoto del Fiume Azzurro. Un mito, dunque, quello nato e sviluppatosi attorno al leader cinese, fondato non solo su quelli che non potevano non apparire notevoli successi politici, ma anche sulla capacità di rappresentazione linguistica e gestuale di quella stessa realtà politica. E anche, più generalmente, di quella intellettuale: accanto al mito del «Mao poeta» affiora sempre quello del «Mao filosofo». A tal punto aveva acquisito la convinzione che immagine e comunicazione sono alla base del potere che aveva fatto di sé un simbolo vivente alla cui alimentazione egli stesso e i suoi più devoti seguaci costantemente provvedevano. Non aveva egli del resto esplicitamente affermato che a un popolo di analfabeti era indispensabile un simbolo di intensa e permanente ispirazione?
Quel simbolo, si potrebbe aggiungere, senza indulgere troppo all’ironia, risulterà utile anche per fondarne il mito tra le masse istruite occidentali. Il mito di Mao è stato infatti edificato sull’immagine al tempo stesso linguistica e fisica del leader (quasi «il corpo del re» nell’antica tradizione di una monarchia sacrale), sulle sue citazioni e sulle sue fotografie: a partire da quella archetipica scattata dal giornalista americano Edgar Snow (che nella costruzione e nella manutenzione occidentale del mito non sarebbe stato secondo a nessuno), pubblicata sulla rivista «Life» nel gennaio del 1937: all’indomani dunque della già ricordata vicenda fondativa del mito, la Lunga marcia.
Questo volume si interroga sulle ragioni di un mito che avrebbe conosciuto un vero e proprio apogeo e poi un’improvvisa, tacita e, al tempo stesso, radicale rimozione. Il tentativo di mettere a fuoco questo problema ha preso le mosse da una considerazione: gli impressionanti successi politici del leader cinese (almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, ma anche dopo, per quanto poteva percepire l’opinione occidentale) non appaiono in sé sufficienti a spiegare, più ancora che la travolgente popolarità, il valore paradigmatico assunto dalla figura di Mao in Occidente. Così come rimane aperto l’interrogativo sul perché le tragedie derivanti dalla sua diretta responsabilità, una volta rese inconfutabilmente note, non abbiano dato luogo a un pubblico processo di demolizione del mito, dentro e fuori la Cina, quanto piuttosto a una sua silenziosa dissolvenza. A dispetto delle autentiche catastrofi sociali, economiche e umanitarie, dovute a scelte a lui personalmente riconducibili, Mao non sarebbe divenuto oggetto di un processo postumo da parte dei suoi successori come – l’esempio è d’obbligo – era accaduto a Stalin tra il XX (1956) e il XXII Congresso (1962) del Partito comunista dell’Unione Sovietica.
Già dalla fine degli anni Cinquanta, come mostrano i dibattiti interni al partito a seguito degli esiti catastrofici del Grande balzo (sui quali di ancor maggiori informazioni disponiamo oggi grazie all’utilizzo degli archivi sovietici, e quindi alla testimonianza di osservatori all’epoca privilegiati), i celebrati successi della politica maoista erano stati accompagnati o seguiti da decisioni disastrose, con tragiche conseguenze per la popolazione cinese. Per tacere di quella esemplare filiazione del maoismo che sarebbe stato il regime dei Khmer rossi in Cambogia, artefice di un genocidio senza precedenti, in quella forma e in quei numeri, nella storia dell’umanità: la fotografia che nel 1975 ritrae Mao all’atto di congratularsi con il discepolo Pol Pot è più eloquente di qualsiasi parola. In parallelo a tali rivelazioni, o semplicemente a tali informazioni, ci si sarebbe potuti attendere una presa di coscienza, in qualche misura proporzionata all’imponenza del mito. Nulla di questo è avvenuto.
Com’è possibile che Mao abbia goduto e tuttora in parte goda di una deferenza che i milioni di morti e le crisi economiche e politiche di cui è stato direttamente responsabile avrebbero dovuto distruggere già negli anni della sua leadership?
La questione riguarda ovviamente anche la realtà della Cina contemporanea: i mutamenti radicali che hanno trasformato il Paese dalla fine degli anni Settanta a oggi non sono infatti scaturiti da un processo al maoismo ma da una lenta, implicita rimozione e marginalizzazione della figura di Mao e delle sue personali creazioni: ideologiche, letterarie, estetiche. E questo a partire dagli eventi, di clamorosa ambiguità e anzi decisamente contraddittori, immediatamente successivi la sua morte: il 6 ottobre 1976, quattro giorni dopo una grandiosa cerimonia funebre che celebrava i meriti dello statista, i suoi più stretti sodali, la cosiddetta «banda dei quattro» – tra i quali aveva il ruolo preminente la sua stessa moglie Jiang Qing –, verranno arrestati con l’accusa di attività controrivoluzionaria. Era come se Mao non potesse essere direttamente accusato, anche se a nessuno poteva evidentemente sfuggire il significato simbolico di quell’arresto e del successivo processo. Condannata a morte nel gennaio del 1981 con sentenza poi commutata in ergastolo, colei che negli ultimi anni del regime per volontà del marito aveva concentrato nelle sue mani un immenso potere, si sarebbe suicidata nel maggio del 1991.
Ambiguità e infinite cautele sembrano oggi caratterizzare la gestione della memoria di Mao in Cina. A poco più di quarant’anni dalla sua scomparsa (ricorrenza celebrata nel settembre del 2016 in modo a dir poco discreto), Mao rimane oggi in Cina una figura che si può solo in parte criticare – in ossequio al celebre giudizio sul suo operato da parte di Deng Xiaoping: 70 per cento corretto e 30 per cento errato – ma non processare: né sul piano storiografico né a maggior ragione su quello politico. Con la Risoluzione su alcune questioni nella storia del nostro partito a partire dalla fondazione della Repubblica Popolare (giugno 1981), Deng aveva con chiarezza fissato la linea e chiuso la discussione: veniva in modo definitivo posto termine al culto della personalità di Mao, ma se ne affermava al contempo la complessiva «grandezza storica». Men che meno era possibile aprire un dibattito di carattere storico, tale da coinvolgere i media e l’opinione pubblica. Tant’è che l’immagine di Mao in piazza Tian’anmen vigila tuttora sull’evoluzione della politica e dell’economia del Paese. E una Cina sempre più capitalistica, nella mentalità non meno che nel modello economico, affida le sue quotidiane transazioni in denaro a banconote ove invariabilmente, in tutti i tagli, compare l’effigie di colui che nessuno si sognerebbe oggi di definire il Grande Timoniere ma che rappresenta pur sempre l’origine dell’incontrastata legittimità politica di chi oggi governa quell’immenso Paese. […]
Anche in assenza di un processo storico-politico fino a ora mancato, alcuni elementi di giudizio possono considerarsi di acquisizione comune. Gli ‘errori’ imputati a Mao sono principalmente due: il Grande balzo in avanti e la Rivoluzione culturale. L’altro grande protagonista della storia cinese del XX secolo, Deng Xiaoping, pur avendo pagato un prezzo personale altissimo in quelle vicende (era tuttavia scampato alla morte, tra lente sevizie e umiliazioni, toccata in sorte a Liu-Shaoqi, secondo solo a Mao per prestigio e ruoli istituzionali) si era dichiarato in parte responsabile delle scelte compiute, evitando dunque di dissociare la sua leadership da quella del fondatore della Cina moderna. La critica che effettivamente ebbe luogo non assunse negli anni successivi alla scomparsa di Mao, né mai avrebbe assunto in seguito, i caratteri della destalinizzazione avvenuta in Unione Sovietica. Risparmiando così agli intellettuali di Parigi, New York, Roma e ovviamente dei campus universitari americani dipendenti in gran parte dell’influenza europea, l’incomodo di dover spiegare troppo recenti e troppo accese infatuazioni. Ed è proprio questo lento, silenzioso dissolversi del mito […] che ha consentito a Mao – divenuto grazie all’opera artistica di Andy Warhol, anch’essa del 1972, una sorta di icona pop alla stregua di Marylin Monroe e di Liz Taylor – di rimanere una figura intellettuale di riferimento per non pochi occidentali: un vecchio saggio dalla biografia epica, cui rimane legittimo ispirarsi. […]
Si è già accennato alle non comuni qualità espressive del leader cinese, che tanto hanno contribuito al mito attorno alla sua figura. […] È la frase «l’immaginazione al potere», che diventerà non solo lo slogan del 1968, ma il manifesto politico di un’intera epoca, a sintetizzare nel modo più efficace cosa sia stato il maoismo. È infatti in tale baldanzoso auspicio che si possono individuare le radici del dispotico potere maoista. Ciò che appariva alla giovane sinistra libertaria europea e americana la possibilità concreta di un «comunismo di tipo nuovo», tale da opporsi allo stantio burocraticismo sovietico, in realtà – in Cina e in prospettiva altrove – era la radice ideologica di una nuova forma di totalitarismo. L’idea di considerare tutto possibile, di pensare e trattare la società come una materia totalmente e permanentemente malleabile da uno stato di entusiasta e continua mobilitazione al servizio della rivoluzione socialista ha infatti generato l’opposto della vitalità rivoluzionaria auspicata, e condannato alla regressione totalitaria un’intera nazione.
Forse la categoria che descrive meglio la vicenda esistenziale di Mao è la «concezione sublime del potere imperiale» […]. Una concezione che coniuga l’antica tradizione imperiale cinese con gli schemi ideologici di un marxismo-leninismo semplificato a oltranza. Un’idea e una prassi del potere che affonda le proprie radici in una megalomania personale che non conosce inibizioni ed è priva di limiti. Ma si sa: anche la follia, se congiunta da un lato a una forza volitiva fuori dal comune e dall’altro alla diffusa aspirazione utopica in direzione di una società che realizzi l’ideale della perfezione umana, ha – come il caso di Mao forse più di ogni altro nel corso della storia umana dimostra – il suo indiscutibile fascino. Fino alla configurazione di un mito, in altre epoche formidabile e ancor oggi, nonostante tutto, tenace.»