
di Giorgio Agamben
Einaudi editore
«Questo libro non assomiglia a nessuno dei libri che l’autore ha finora pubblicato». Così recita l’incipit della quarta di copertina e non si tratta soltanto di una frase scritta per incuriosire i potenziali lettori. È la constatazione di una mutazione della forma, di un cambiamento che coinvolge le modalità espressive con cui l’autore ha sempre comunicato.
Dai tempi de L’uomo senza contenuto (1970), Agamben ha sempre utilizzato il saggio per testimoniare le tappe del suo cammino filosofico. Oggi invece, con questo libro, decide di cambiare “genere letterario”, esplorando un territorio di crocevia fra diario, aforisma, raccolta di pensieri, poesia in prosa.
È un territorio dalla morfologia incerta, difficile da classificare in termini di genere ma, forse proprio per questo, molto felice dal punto di vista comunicativo: all’interno dei suoi confini incerti, è possibile rintracciare, condensato in poche righe, il cuore della riflessione filosofica agambeniana.
Giorgio Agamben è una delle voci più brillanti del panorama filosofico contemporaneo. I suoi contributi su concetti come “biopotere”, “nuda vita”, “stato di eccezione” e “inoperosità”, per citarne alcuni, non solo occupano un posto di primo piano nella storia della filosofia del XX secolo, ma sono ancora vivi e operanti nel dibattito culturale italiano e internazionale. Semplificando molto, possiamo dire che il centro della sua ricerca filosofica sia individuare le condizioni necessarie alla felicità.
Agamben si chiede dove sia oggi, in un mondo in cui i dispositivi di potere sui corpi e le esistenze sono più forti e pervasivi che mai, lo spazio per una vita felice.
La sua risposta è che sia rintracciabile nella zona di transito fra il mondo dei sensi e quello dei segni, fra la dimensione della “nuda vita” – la semplice biologia dei corpi – e quella dell’esistenza culturalmente qualificata.
Queste conclusioni le ha sistematizzate nella sua opera più famosa: il ciclo Homo sacer, un’imponente raccolta di saggi iniziata nel 1994 con Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita e conclusa nel 2014 con L’uso dei corpi.
Quel che ho visto, udito, appreso…, pubblicato a ottobre del 2022 per i tipi di Einaudi, è invece una raccolta di brevissime prose con cui l’autore espone una serie di insegnamenti, sulla vita e sulla natura umana, che ha appreso dalle esperienze più diversificate.
Il libro è molto agile. È composto di sole 80 pagine e ogni prosa spazia dalle due alle ventuno righe. È un testo che si legge in poche ore, ma su cui si consiglia di ritornare spesso, come si farebbe con una raccolta di poesie.
Incontri con amici, luoghi, passioni, fasi della vita, letture, fenomeni naturali, sono il punto di partenza di ogni riflessione. Chi conosce il pensiero del filosofo può facilmente ritrovare in questi brevi frammenti i temi più importanti di cui si è sempre occupato, e ai quali ha dedicato ampio spazio nei suoi scritti precedenti. Ecco qui un esempio.
«In Peterson ho letto che gli ebrei, per via della loro incredulità, ritardano l’avvento del Regno. Ma ciò significa che fra la Chiesa e la Sinagoga vi è una segreta, losca solidarietà, perché entrambe amministrano, per così dire, il ritardo del Regno, su cui fondano la loro esistenza. Come se il Regno fosse un treno, che può arrivare in ritardo. È esattamente il contrario: il ritardo – la storia – è il treno dal quale preti e rabbini cercano con ogni mezzo di non farci scendere, per impedirci di vedere che siamo da sempre già arrivati.» (pag. 46)
In questa prosa emerge chiaramente una delle tesi centrali del libro Il Regno e il Giardino. E si potrebbero fare molti altri esempi di questo tipo.
Ma le differenze con il trattato filosofico non si riducono solo alla brevità del testo e alla natura frammentaria del discorso; risiedono anche nella presenza manifesta di un punto di vista soggettivo, quello dell’autore, sovrapposto a quello di un Io narrante che filtra i pezzi di mondo e li elabora per generare pensiero.
L’esperienza personale, l’incontro fra la coscienza del filosofo e il mondo, costituiscono quindi il punto di ancoraggio di ogni ragionamento e di ogni risultato conoscitivo. Perché, come si evince da una delle prose teoreticamente più rilevanti del libro, è solo attraverso i limiti della soggettività che, secondo l’autore, è possibile squarciare i confini dell’Io per raggiungere l’oggettività.
«Dall’Andaluso Averroè ho appreso che l’intelletto è unico e che questo non significa che tutti pensano la stessa cosa, ma che, quando pensiamo il vero, allora la molteplicità delle opinioni si spegne e finalmente a pensare non sono più io. E, tuttavia, «non più io» significa non soltanto che io c’ero, ma che in qualche modo ancora ci sono, perché, dice l’andaluso, mi congiungo con l’unico non attraverso il pensiero – che è suo e non mi appartiene – ma attraverso i fantasmi e i desideri dell’immaginazione, che è soltanto mia.
Le immaginazioni dei singoli sono come le ceramiche variegate che incrostano le pareti della moschea o come gli schizzi di luce che, filtrando all’interno attraverso minuscoli spiragli, trascrivono un solo, complicato rabesco.» (pag. 36)
Questa ricerca dell’universale attraverso forme di scrittura che non rifiutano ma anzi accolgono, il dispiegarsi della coscienza, come solo la letteratura permette di fare, non è certo una novità per la filosofia. Infatti, basta gettare un occhio sulla tradizione per accorgersi come il pensiero filosofico sia sempre stato espresso con generi differenti rispetto al saggio.
Basti pensare ai dialoghi platonici, alle Confessioni di Agostino, alla Mandragola di Machiavelli, ai Pensieri di Pascal, al Diario di Kierkegaard, agli aforismi di Nietzsche, per fare solo alcuni esempi.
In fin dei conti, le forme più usate dai filosofi per veicolare i loro sistemi di pensiero sono sempre state il dialogo, la raccolta di pensieri, l’aforisma, il romanzo, lo spettacolo teatrale, il diario. Il saggio è stato usato da pochi casi eccezionali, come Kant e Hegel, e si è affermato solo di recente, più o meno fra il XIX e il XX secolo, quando la filosofia ha cominciato a prendere a modello i codici “letterari” delle scienze esatte, e il trattato scientifico è diventato la sua forma di espressione privilegiata.
Ecco perché il paper accademico e il saggio sono ritenuti oggi i mezzi con cui essere accettati nel dibattito filosofico.
Con Quel che ho visto, udito, appreso… Agamben riconosce che la filosofia non può esprimersi esclusivamente attraverso un insieme di tecnicismi utili a ridurre il più possibile il rischio di essere fraintesi. Affidare il discorso filosofico a proposizioni che pretendono di essere vere e per nulla ambigue, come quelle che caratterizzano le prose di tipo scientifico, è pericoloso per la salute della filosofia. Perché si rinuncerebbe a ciò che di più umano c’è nel linguaggio: lo spazio per pensare liberamente.
La scrittrice Chiara Valerio, in una sua recente conferenza, ha pronunciato una frase che risuona molto con questo tipo di riflessioni, ed era più o meno questa: “una proposizione può essere fraintesa quando si lascia uno spazio d’azione per l’Altro”.
L’esattezza assoluta del linguaggio non è umana. Accettare il fraintendimento significa quindi accettare l’esistenza dell’Altro, accettare che ci sia un buco nel nostro mondo, oltre al quale si entra in relazione con altri mondi, altri modi di essere diversi dal nostro.
La filosofia – per dirla con Maurizio Ferraris e Mauro De Caro (Bentornata realtà: il nuovo realismo in discussione, Einaudi, 2012) – serve proprio a scoprire questi buchi, e ad attraversarli, perché solo in questo modo è possibile diventare adulti.
È necessario quindi correre il rischio di essere fraintesi, per non escludere umanità dai discorsi e riuscire a intravedere, negli squarci che apre questo tipo di linguaggio, gli universali dell’esperienza umana. Quegli stessi universali che ci traghettano nel mondo adulto.
Se la verità, come si evince dal libro, è l’intero del mondo, essa comprende sia il vero che il falso, e il modo migliore per veicolarla è il racconto, il mito.
L’autore lo dice bene con queste parole:
«[…] Il mito è il contravveleno per la pretesa della parola di enunciare proposizioni che sono soltanto vere (o soltanto false). Se in una proposizione è in questione l’idea, allora è impossibile […] esigere che essa sia vera o falsa. Filosofico, suggerisce Platone, è solo quel discorso che, in quanto contiene anche il suo complemento mitico, può dire insieme «il vero e il falso dell’intero essere.» (pag. 51)
La filosofia ha quindi bisogno di essere formalizzata anche nella letteratura e, più in generale, in tutti quei sistemi simbolici che lasciano spazio a più interpretazioni, a diversi livelli di lettura.
Questa è la direzione che segue Agamben nel suo ultimo libro, dimostrando, con questo gesto, che la filosofia oggi non è affatto morta, ma, al contrario, è più viva che mai, pronta anche lei a varcare la soglia dell’età adulta.
Giacomo Di Scala