Quante lingue ci sono nel mondo?

«Quando si pone il problema di quante siano le lingue del mondo, si pone pure, quale “pre-problema”, la definizione dei criteri da adottare nel poter attribuire ad un sistema linguistico l’etichetta di lingua. Per i linguisti (in particolare per i linguisti generali, interessati allo studio dei sistemi linguistici prevalentemente in sincronia) – va detto – la questione non si pone […]. Diversa, però, è la prospettiva che si pone quando si considera il problema della molteplicità dei sistemi linguistici e della loro “posizione” in un’ottica più propriamente socio- e politico-culturale. Entrano in gioco, allora e fatalmente, questioni di gerarchia tra sistemi linguistici, ossia il rapporto tra le nozioni sociolinguistiche di “lingua”, di “varietà linguistiche”, di “bilinguismo”/“plurilinguismo”, di “diglossia” e, conseguentemente, entra in gioco la distinzione-base tra “lingua” e “dialetto” […]. La sociolinguistica insegna comunque che, perché un sistema linguistico sia considerabile “lingua”, esso deve rispondere ad una serie di criteri squisitamente extralinguistici sintetizzabili nelle seguenti macrocondizioni: che sia fissato secondo una norma riconosciuta/scritta, che goda di una tradizione letteraria (scritta, ma anche, eventualmente, solo orale), che sia usato in un’ampia gamma di ambiti comunicativi, che goda di prestigio e che valga, infine, quale punto di riferimento identitario/culturale entro una comunità di locutori. La questione è delicata e naturalmente intrecciata con valutazioni di carattere extralinguistico relative alla gerarchia interna fra sistemi linguistici copresenti in una data area: ad esempio, in riferimento alla macroarea cinese, la fortuna di un particolare sistema linguistico sinitico settentrionale quale base del pǔtōnghuà (lett. lingua di comunicazione comune), oggi lingua ufficiale per l’immenso spazio linguistico di quel vasto segmento d’Asia, rispetto – poniamo – ad altri sistemi cinesi (quello o quello yuè-cantonese, ad esempio), è dovuta, essenzialmente, al ruolo politico-culturale esercitato su tutto l’ambiente cinese dalla parlata di Pechino, luogo di irradiazione del pǔtōnghuà. Il prestigio della capitale del Zhōngguó (“Paese di Mezzo”, così è il nome della Cina in cinese) ha determinato la fortuna del sistema linguistico ivi parlato e ne ha favorito l’adozione come lingua ufficiale per parlanti non solo altri sistemi linguistici sinitici, geneticamente imparentati con il sistema linguistico pechinese, ma anche per chi, entro lo spazio politico-amministrativo cinese, parla altre lingue, molte delle quali non sinitiche e quindi geneticamente diverse rispetto ai sistemi cinesi. Del resto il caso cinese non è affatto isolato: anzi, si può dire che la questione del “prestigio” di un sistema rispetto ad altri sia una “costante” nella storia linguistica di molte e diverse aree del mondo: il prestigio di Roma ha via via non solo decretato la fine delle lingue italiche (dall’osco-umbro al venetico, dall’etrusco al messapico ecc.), ma con l’espandersi del potere di Roma al di fuori dei confini della penisola italica ha progressivamente fatto regredire, (quasi) dappertutto ove Roma impose il suo dominio (non in Grecia, però, ove il greco godeva di ottima salute!), le lingue che erano parlate nelle diverse aree: in Gallia, nella penisola iberica, in parte della penisola balcanica e, per un certo tempo, anche in ambiente germanico-renano (poi rigermanizzato) e in buona parte del territorio costiero del Mediterraneo (berberofono e poi arabizzato). […]

La fortuna delle lingue è un fatto squisitamente sociale: nota giustamente Bernard Comrie che «languages become major (such as English), or stop being major (such as Sumerian) not because of their grammatical structure, but because of social factors». Quanto al numero delle lingue del mondo, il dato oscilla, e sensibilmente, secondo le fonti: da circa 4.000 (Comrie, 1990) a 5.000 (Ruhlen, 1987), a 6.000-6.500 (Nettle, 1999), a 10.000 (Crystal, 1987; il quale, tuttavia, nel sottolineare l’incertezza dei dati, sembra propendere, infine, per il numero di 4.522 lingue, comprese le lingue estinte). In realtà nessuno sa con certezza quante lingue siano realmente parlate oggi nel mondo e lo scarto numerico tra le diverse fonti, impressionante in sé, si spiega se si tiene conto di una serie di fattori oggettivi. Oltre a difficoltà definitorie dettate da motivazioni sociopolitiche nello stabilire se un sistema sia lingua oppure dialetto, altre considerazioni vanno evocate: molte aree del mondo (ad esempio alcune aree dell’Asia sud-orientale, della Nuova Guinea, dell’America meridionale, dell’Africa subsahariana) sono, dal punto di vista della conoscenza dei sistemi linguistici che vi si parlano, ancora assai poco note quando non, spesso, totalmente ignote […]. Paradigmatico è il caso della Nuova Guinea: solo da pochi decenni si è fatta parzialmente luce sulla complessità linguistica di tale area, ove pare sia concentrato un quinto dei sistemi linguistici dell’intero pianeta. […] Simile è la situazione di buona parte della vasta area sudamericana del bacino del Rio delle Amazzoni ove, via via che vi vengono scoperte e studiate nuove popolazioni autoctone, appare evidente, in parallelo, anche la straordinaria complessità linguistica. Non va sottaciuto, poi, un altro problema, ovvero la velocità con la quale, in piccole comunità, molti sistemi linguistici scompaiono definitivamente, cioè muoiono, e ciò spesso nel giro di una sola generazione. […] Un dato, paradigmatico, non può non far riflettere: nel XIX secolo in Brasile si suppone esistessero più di mille lingue indigene/autoctone diverse; oggi, il loro numero è ridotto a poco più di un centinaio. È il problema, drammatico, della “morte di lingue”, connesso in qualche misura con l’affascinante questione della “morte” di grandi lingue del passato. Spesso, poi, il numero dei sistemi varia anche per il fatto che, frequentemente e soprattutto nel caso di aree del mondo ancora poco esplorate, problematica è la stessa denominazione di singoli sistemi. […] Molte lingue sono note con più di un nome; i parlanti una lingua la definiscono con un nome che, spesso, è diverso da quello che a quella stessa lingua viene attribuito da gruppi sociali circostanti; una lingua può essere chiamata con il nome di uno dei suoi dialetti; alcune denominazioni di lingue, usate da altri riferendosi ad una lingua, possono poi risultare offensive per i suoi locutori e, quindi, essere negativamente connotate. Aakwo, bella, coola, blood, bok, deerie, grawadungalung, i, kukukuku, lule, maraawarree, mimica, ngqeq, nupe, ok, ron, santa, tzotzil, u, yangman ecc. sono nomi di lingue ben poco note: di tali nomi ne sono stati raccolti più di 22.000 e questo dato fa cogliere, intuitivamente, la complessità del problema: molte comunità di parlanti, soprattutto di aree del mondo ove sono parlate lingue poco conosciute, non hanno un nome specifico per la loro lingua, ma utilizzano, per definirla, espressioni del tipo “la nostra lingua” o “il nostro popolo”. Così, il termine bantu, che in Africa individua un’intera famiglia linguistica, significa semplicemente ‘popolo’, esattamente come, nell’America centrale e meridionale, il termine carib, utilizzato come indicatore di lingue locali, significa ‘popolo’. Ma, sempre in ambito amerindiano, esistono lingue denominate, rispettivamente, tapuya ‘nemico’, macu ‘tribù della foresta’ e, del resto, è interessante osservare che denominazioni non propriamente amichevoli di tribù amerindiane quali chichimecatl ‘stirpe di cani’, chontalli ‘stranieri’, popoloca ‘barbari’ stanno alla base di nomi di lingue quali il chichimeca, il chontal e il popoloca. In alcune lingue aborigene dell’Australia il nome di una lingua coincide semplicemente con il pronome dimostrativo ‘questo’: le nove lingue della famiglia Yuulnga sono dette rispettivamente dhuwala, dhuwal, dhiyakuy, dhangu, dhay’yi, djangu, djinang, djining e nhangu (tutte forme del pronome dimostrativo ‘questo’): ciò deriva dal fatto che quando i ricercatori hanno chiesto ai parlanti quelle lingue quale lingua loro parlassero, la risposta era, invariabilmente, ‘questo’. Talvolta una lingua è conosciuta con più di un nome (ad esempio irlandese/gaelico; persiano/farsi) e, anche in questo caso, la scelta di una denominazione piuttosto che dell’altra non è cosa anodina, in quanto ognuna, singolarmente, veicola un qualche “valore aggiunto”: nel caso delle due lingue citate, la seconda denominazione risulta oggi essere “preferita” dai loro locutori alla prima, percepita, quest’ultima, come “arcaica”. […]

Un altro problema è posto dalla oggettiva difficoltà di stabilire se due o più sistemi presi in considerazione siano da ritenersi lingue “separate” oppure semplici varietà di un comune (più o meno complesso) diasistema linguistico. Il metodo d’analisi è molto simile a quello seguito dai biologi […]. Se due sistemi sono reciprocamente intelligibili dovrebbero essere definiti dialetti di una stessa lingua, mentre, se non lo sono, acquisterebbero lo statuto di lingue diverse. Tale criterio non risulta però sempre soddisfacente, come appare da osservazioni empiriche tratte da diversi ambiti linguistici: danese, svedese e norvegese, in quanto intelligibili reciprocamente, dovrebbero essere considerati dialetti di una stessa lingua e non tre lingue diverse; molte varietà del sistema cinese, data la loro non mutua intelligibilità, dovrebbero essere considerate lingue diverse (e difatti oggi molti studiosi tendono a parlare di “lingue cinesi” e non di “dialetti cinesi”, in relazione alle differenze, marcate, tra varietà yuè-cantonese o , ad esempio, rispetto al cinese mandarino). Restando in ambito italo-romanzo, la non intelligibilità, poniamo, tra le (geneticamente imparentate) varietà italo-romanze del bergamasco e del siciliano dovrebbe avere, come conseguenza, che le due varietà costituiscano due lingue separate e non, come invece sono, segmenti di uno stesso macro-continuum linguistico. […] Nel subcontinente indiano le lingue hindi e urdu, bengali e assamese sono talmente poco differenziate tra di loro da poter essere considerate varietà dialettali di uno stesso sistema linguistico. E lo stesso avviene, nello spazio linguistico africano, ad esempio tra il twi e il fante e tra lo xhosa e lo zulu. Va infine ricordato come, nel caso di lingue ben descritte e studiate, la questione delle divisioni interne e dell’individuazione di confini tra lingua e dialetti è (tendenzialmente) agevole da risolvere. Diverso è il caso di lingue poco descritte e mal studiate là dove, soprattutto in caso di prossimità territoriale, frequenti sono i fenomeni di prestito linguistico (non solo lessicali, ma anche, talvolta, fonologici e grammaticali): ad un primo esame tali sistemi possono sembrare varietà dialettali di una stessa lingua, mentre ad un’analisi più approfondita peculiari differenze strutturali consentono di definirne i reali rapporti e di individuare tali sistemi come lingue diverse.»

tratto da Le lingue extraeuropee: Americhe, Australia e lingue di contatto, a cura di Emanuele Banfi e Nicola Grandi, Carocci editore

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