La fortuna delle lingue è un fatto squisitamente sociale: nota giustamente Bernard Comrie che «languages become major (such as English), or stop being major (such as Sumerian) not because of their grammatical structure, but because of social factors». Quanto al numero delle lingue del mondo, il dato oscilla, e sensibilmente, secondo le fonti: da circa 4.000 (Comrie, 1990) a 5.000 (Ruhlen, 1987), a 6.000-6.500 (Nettle, 1999), a 10.000 (Crystal, 1987; il quale, tuttavia, nel sottolineare l’incertezza dei dati, sembra propendere, infine, per il numero di 4.522 lingue, comprese le lingue estinte). In realtà nessuno sa con certezza quante lingue siano realmente parlate oggi nel mondo e lo scarto numerico tra le diverse fonti, impressionante in sé, si spiega se si tiene conto di una serie di fattori oggettivi. Oltre a difficoltà definitorie dettate da motivazioni sociopolitiche nello stabilire se un sistema sia lingua oppure dialetto, altre considerazioni vanno evocate: molte aree del mondo (ad esempio alcune aree dell’Asia sud-orientale, della Nuova Guinea, dell’America meridionale, dell’Africa subsahariana) sono, dal punto di vista della conoscenza dei sistemi linguistici che vi si parlano, ancora assai poco note quando non, spesso, totalmente ignote […]. Paradigmatico è il caso della Nuova Guinea: solo da pochi decenni si è fatta parzialmente luce sulla complessità linguistica di tale area, ove pare sia concentrato un quinto dei sistemi linguistici dell’intero pianeta. […] Simile è la situazione di buona parte della vasta area sudamericana del bacino del Rio delle Amazzoni ove, via via che vi vengono scoperte e studiate nuove popolazioni autoctone, appare evidente, in parallelo, anche la straordinaria complessità linguistica. Non va sottaciuto, poi, un altro problema, ovvero la velocità con la quale, in piccole comunità, molti sistemi linguistici scompaiono definitivamente, cioè muoiono, e ciò spesso nel giro di una sola generazione. […] Un dato, paradigmatico, non può non far riflettere: nel XIX secolo in Brasile si suppone esistessero più di mille lingue indigene/autoctone diverse; oggi, il loro numero è ridotto a poco più di un centinaio. È il problema, drammatico, della “morte di lingue”, connesso in qualche misura con l’affascinante questione della “morte” di grandi lingue del passato. Spesso, poi, il numero dei sistemi varia anche per il fatto che, frequentemente e soprattutto nel caso di aree del mondo ancora poco esplorate, problematica è la stessa denominazione di singoli sistemi. […] Molte lingue sono note con più di un nome; i parlanti una lingua la definiscono con un nome che, spesso, è diverso da quello che a quella stessa lingua viene attribuito da gruppi sociali circostanti; una lingua può essere chiamata con il nome di uno dei suoi dialetti; alcune denominazioni di lingue, usate da altri riferendosi ad una lingua, possono poi risultare offensive per i suoi locutori e, quindi, essere negativamente connotate. Aakwo, bella, coola, blood, bok, deerie, grawadungalung, i, kukukuku, lule, maraawarree, mimica, ngqeq, nupe, ok, ron, santa, tzotzil, u, yangman ecc. sono nomi di lingue ben poco note: di tali nomi ne sono stati raccolti più di 22.000 e questo dato fa cogliere, intuitivamente, la complessità del problema: molte comunità di parlanti, soprattutto di aree del mondo ove sono parlate lingue poco conosciute, non hanno un nome specifico per la loro lingua, ma utilizzano, per definirla, espressioni del tipo “la nostra lingua” o “il nostro popolo”. Così, il termine bantu, che in Africa individua un’intera famiglia linguistica, significa semplicemente ‘popolo’, esattamente come, nell’America centrale e meridionale, il termine carib, utilizzato come indicatore di lingue locali, significa ‘popolo’. Ma, sempre in ambito amerindiano, esistono lingue denominate, rispettivamente, tapuya ‘nemico’, macu ‘tribù della foresta’ e, del resto, è interessante osservare che denominazioni non propriamente amichevoli di tribù amerindiane quali chichimecatl ‘stirpe di cani’, chontalli ‘stranieri’, popoloca ‘barbari’ stanno alla base di nomi di lingue quali il chichimeca, il chontal e il popoloca. In alcune lingue aborigene dell’Australia il nome di una lingua coincide semplicemente con il pronome dimostrativo ‘questo’: le nove lingue della famiglia Yuulnga sono dette rispettivamente dhuwala, dhuwal, dhiyakuy, dhangu, dhay’yi, djangu, djinang, djining e nhangu (tutte forme del pronome dimostrativo ‘questo’): ciò deriva dal fatto che quando i ricercatori hanno chiesto ai parlanti quelle lingue quale lingua loro parlassero, la risposta era, invariabilmente, ‘questo’. Talvolta una lingua è conosciuta con più di un nome (ad esempio irlandese/gaelico; persiano/farsi) e, anche in questo caso, la scelta di una denominazione piuttosto che dell’altra non è cosa anodina, in quanto ognuna, singolarmente, veicola un qualche “valore aggiunto”: nel caso delle due lingue citate, la seconda denominazione risulta oggi essere “preferita” dai loro locutori alla prima, percepita, quest’ultima, come “arcaica”. […]
Un altro problema è posto dalla oggettiva difficoltà di stabilire se due o più sistemi presi in considerazione siano da ritenersi lingue “separate” oppure semplici varietà di un comune (più o meno complesso) diasistema linguistico. Il metodo d’analisi è molto simile a quello seguito dai biologi […]. Se due sistemi sono reciprocamente intelligibili dovrebbero essere definiti dialetti di una stessa lingua, mentre, se non lo sono, acquisterebbero lo statuto di lingue diverse. Tale criterio non risulta però sempre soddisfacente, come appare da osservazioni empiriche tratte da diversi ambiti linguistici: danese, svedese e norvegese, in quanto intelligibili reciprocamente, dovrebbero essere considerati dialetti di una stessa lingua e non tre lingue diverse; molte varietà del sistema cinese, data la loro non mutua intelligibilità, dovrebbero essere considerate lingue diverse (e difatti oggi molti studiosi tendono a parlare di “lingue cinesi” e non di “dialetti cinesi”, in relazione alle differenze, marcate, tra varietà yuè-cantonese o wú, ad esempio, rispetto al cinese mandarino). Restando in ambito italo-romanzo, la non intelligibilità, poniamo, tra le (geneticamente imparentate) varietà italo-romanze del bergamasco e del siciliano dovrebbe avere, come conseguenza, che le due varietà costituiscano due lingue separate e non, come invece sono, segmenti di uno stesso macro-continuum linguistico. […] Nel subcontinente indiano le lingue hindi e urdu, bengali e assamese sono talmente poco differenziate tra di loro da poter essere considerate varietà dialettali di uno stesso sistema linguistico. E lo stesso avviene, nello spazio linguistico africano, ad esempio tra il twi e il fante e tra lo xhosa e lo zulu. Va infine ricordato come, nel caso di lingue ben descritte e studiate, la questione delle divisioni interne e dell’individuazione di confini tra lingua e dialetti è (tendenzialmente) agevole da risolvere. Diverso è il caso di lingue poco descritte e mal studiate là dove, soprattutto in caso di prossimità territoriale, frequenti sono i fenomeni di prestito linguistico (non solo lessicali, ma anche, talvolta, fonologici e grammaticali): ad un primo esame tali sistemi possono sembrare varietà dialettali di una stessa lingua, mentre ad un’analisi più approfondita peculiari differenze strutturali consentono di definirne i reali rapporti e di individuare tali sistemi come lingue diverse.»
tratto da Le lingue extraeuropee: Americhe, Australia e lingue di contatto, a cura di Emanuele Banfi e Nicola Grandi, Carocci editore