“Quando si andava in velocipede. Storia della mobilità ciclistica in Italia (1870-1955)” di Eleonora Belloni

Dott.ssa Eleonora Belloni, Lei è autrice del libro Quando si andava in velocipede. Storia della mobilità ciclistica in Italia (1870-1955) edito da FrancoAngeli. Assistiamo a un movimento di recupero della bicicletta come mezzo di trasporto fondamentale per lo sviluppo di un modello di trasporto urbano sostenibile: quale confronto è possibile tracciare tra la mobilità ciclistica di ieri e di oggi?
Quando si andava in velocipede. Storia della mobilità ciclistica in Italia (1870-1955), Eleonora BelloniDa inizio Novecento e fino agli anni Cinquanta la bicicletta ha rappresentato in gran parte del mondo occidentale il primo e principale mezzo di trasporto individuale. A partire da quel momento la due ruote è stata fagocitata dall’inarrestabile avanzata della motorizzazione di massa. Oggi, tuttavia, assistiamo in molti paesi a una “rinascita” della bicicletta, tornata al centro del dibattito pubblico e, in alcuni casi, anche delle effettive abitudini di spostamento della popolazione. Nella ricerca, più o meno utopica, di una città del futuro più vivibile, la bicicletta viene spesso indicata come mezzo di trasporto sostenibile per eccellenza, da un punto di vista ambientale, sociale ed economico. La bicicletta, insomma, sta tornando di moda, segnando una sorta di terzo boom ciclistico, dopo quelli degli anni Novanta dell’Ottocento e degli anni Settanta del Novecento. Sebbene molti preferiscano sottolineare gli elementi di discontinuità tra il passato e il presente della pratica ciclistica, enfatizzando ad esempio il differente bagaglio valoriale alla base dei diversi movimenti o mettendo in luce il diverso quadro economico di riferimento, è innegabile tuttavia che l’attuale riscoperta della mobilità ciclistica testimoni un’estrema capacità di resilienza della bicicletta, anche grazie alla sua carica “rivoluzionaria” che ne fa, oggi come ieri, un’“alternativa” rispetto al modus dominante. La pratica ciclistica di ieri e di oggi sono insomma indissolubilmente legate dal filo invisibile della storia, ed è dunque nel passato, nelle radici della “cultura” ciclistica del paese che vanno ricercate le chiavi per una interpretazione della mobilità ciclistica attuale, agendo se necessario sulle eredità storiche per superare le difficoltà a intraprendere la transizione verso un modello di mobilità più aperto a modalità di trasporto alternative rispetto al modello auto-centrico.

Qual è lo status della bicicletta nell’Italia di fine secolo?
In Italia, un late comer dello sviluppo giunto all’appuntamento con il compimento del processo risorgimentale senza avere ancora sviluppato un moderno e diffuso apparato industriale, la bicicletta fece la sua comparsa con un leggero ritardo rispetto ad altri paesi. Se si esclude la presenza di alcuni Veloce club, fino alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento è difficile parlare di un vero e proprio radicamento della pratica ciclistica in Italia. A partire da quel momento, tuttavia, il paese bruciò rapidamente le tappe e in breve si assistette a un vero e proprio “boom ciclistico”. La bicicletta attirò per prime le brame dei giovani rampolli dell’alta società che iniziarono a sfidarsi, alla ricerca del brivido della velocità e dell’avventura, dapprima per gioco, e poi in modo sempre più istituzionalizzato. Nel 1884 si contavano ormai 24 società velocipedistiche, più che raddoppiate tre anni più tardi. I nomi dei promotori, dei presidenti e dei componenti gli organi direttivi dei club rimandano a una élite sociale che tuttavia spesso non era (o non soltanto) la vecchia élite aristocratica quanto piuttosto la nuova élite alto-borghese legata al mondo degli affari, dei commerci e delle industrie emergenti. La bicicletta veniva identificata con le idee di emancipazione dalla fatica, libertà, autonomia – secondo la massima “libera bicicletta in libera città” – a cui veniva opposto lo spauracchio di una repressione retrograda e conservatrice. A ciò si aggiungeva, e anzi diveniva centrale, l’idea di modernità, e di superiorità della modernità, associata al nuovo mezzo.

In che modo si sviluppa il ciclismo utilitario?
Uno dei fattori che favorì il passaggio alla fase utilitaria, e dunque l’utilizzo della bicicletta non più solamente come mezzo di sport e di svago ma anche come mezzo di trasporto quotidiano, fu la maggiore democratizzazione della due-ruote, resa possibile dalla riduzione dei prezzi accompagnata da un sempre più fiorente mercato di mezzi di seconda mano. Se alla fine dell’Ottocento il prezzo di una bicicletta si aggirava attorno alle 600-700 lire (a fronte di un salario giornaliero di circa 1,69 lire), nel 1905 il prezzo era già sceso attorno alle 200 lire per una bicicletta nuova di buona qualità, ma di fatto era possibile acquistare mezzi di minore qualità o di seconda mano anche a prezzi tra le 40 e le 100 lire. Questo fu a sua volta reso possibile da uno sviluppo dell’industria nazionale della bicicletta che, emancipando il mercato italiano dalle importazioni straniere, contribuì a rendere il mezzo più economico. Milano si affermò in questa fase come capitale della bicicletta, con almeno dieci grandi fabbriche produttrici, tra cui spiccavano i nomi di Umberto Dei, Enrico Flaig, Guido Gatti, Officine Legnanesi, Prinetti e Stucchi, Frera, oltre ovviamente alla ditta Edoardo Bianchi. Intanto i progressi, anche tecnici, fatti negli anni precedenti avevano reso evidente agli occhi di molti le potenzialità di utilizzo del mezzo a due ruote per tutta una serie di professioni che potevano trovare nella bicicletta vantaggi in termini di risparmio di fatica e di tempo: medici, guardie cittadine e agenti di polizia, pompieri, fattorini postali e telegrafici furono solamente alcuni degli impieghi dei velocipedi a uso pratico. Altri due fattori vanno tuttavia evidenziati come centrali nel processo di democratizzazione e, dunque, di legittimazione del mezzo a due ruote. Il primo fu l’impiego del nuovo mezzo a scopi militari, dapprima nella guerra di Libia, e poi nel primo conflitto mondiale. Il secondo fattore fu un primo superamento delle resistenze all’uso del nuovo mezzo da parte del movimento socialista. Nel 1912 nascevano a Imola i “ciclisti rossi”, chiamati a mobilitarsi con funzione di collegamento in occasione di scioperi e agitazioni, organizzando dei veri e propri servizi di staffetta. Ma tra le battaglie portate avanti dal movimento vi fu anche quella per la diffusione democratica di biciclette economiche tra le masse lavoratrici, in un momento in cui il mezzo a due ruote iniziava a diffondersi ma con fatica, rimanendo facilmente accessibile soprattutto ai maschi della media e alta borghesia dell’Italia settentrionale. La democratizzazione della bicicletta trovava riscontro in una diffusione del mezzo che le statistiche aiutano a fotografare. Le circa 150.000 biciclette circolanti nel paese all’inizio del secolo erano più che raddoppiate nel 1907 e, soprattutto, avevano superato il milione e 200.000 alla vigilia della Grande Guerra, con un notevole balzo dopo il 1909 quando la riduzione della tassa sui velocipedi da 10 a 6 lire ebbe un ruolo determinante nell’incrementare l’acquisto e l’utilizzo anche da parte delle classi meno abbienti, sancendo il definitivo trionfo della bicicletta come mezzo utilitario.

Quando e come avviene la prima istituzionalizzazione del ciclismo sportivo?
I primi Veloce club sorti sulla penisola vengono ritenuti quelli di Firenze e di Milano, fondati a pochi mesi di distanza nel 1870. Nel 1884 si contavano ormai 24 società; tre anni più tardi, nel 1887, le società risultavano più che raddoppiate, essendo salite a 51; nel 1890 se ne contavano 62 e nel 1892 64. Il 6 dicembre 1885 nasceva a Pavia l’Unione velocipedistica italiana. Firenze e Milano si contendono, assieme al primato del primo Veloce club, anche quello della prima gara su strada. Appena un mese dopo la fondazione del club fiorentino, il 2 febbraio, venne organizzata quella che viene da molti ritenuta la prima gara su strada nella penisola, la Firenze-Pistoia (33 chilometri). Primato a lungo contesole dal Giro dei Bastioni, un percorso interamente urbano organizzato a Milano il 18 dicembre 1870 e vinto da Giuseppe Pasta. Nell’età pionieristica, in realtà, furono le gare su pista a generare i maggiori entusiasmi: gare di velocità, quindi, più che di resistenza. Solo a partire dalla fine del XIX secolo le gare su strada iniziarono a moltiplicarsi. Nel 1893 il “Corriere della Sera” organizzò una gara ciclistica su un percorso di 150 chilometri in territorio piemontese e lombardo (con partenza da Torino e arrivo a Milano). L’anno successivo si ebbe un’iniziativa analoga: un tracciato di 500 chilometri con partenza da Milano e arrivo a Torino (con tappe a Verona, Reggio Emilia e Piacenza). Nel 1897 si corse la prima edizione della Coppa del Re, da Milano a Torino. Ai primi anni del XX secolo risalgono alcune competizioni divenute poi “classiche”: nel novembre del 1905 Armando Cougnet e Tullo Morgagni idearono, assieme a “La Gazzetta dello Sport”, il Giro di Lombardia (230 chilometri nella prima edizione), che doveva funzionare da grande evento per lanciare l’Esposizione di Milano dell’anno successivo e che sarebbe poi divenuta la classica d’autunno, a chiusura della stagione ciclistica; nell’aprile del 1907 partiva invece la prima edizione della Milano-Sanremo, altra gara destinata a divenire una classica di primavera. Nel frattempo, era stato corso anche il primo Giro del Piemonte, nel 1906. Furono queste prove su strada a consacrare i primi eroi del pedale: da Romolo Buni a Federico Momo e Gian Fernando Tomaselli fino al “Diavolo Rosso” Giovanni Gerbi, primo vero professionista del ciclismo italiano. La maggior parte di queste competizioni nacque all’interno del circuito de “La Gazzetta dello Sport”, già affermatasi in quegli anni come il più popolare giornale sportivo italiano, dopo essere stata fondata ormai oltre un decennio prima, nel 1896, a seguito della fusione di due preesistenti fogli ciclistici, “Il Ciclista” e “La Tripletta”.

Quando nasce il Giro d’Italia?
La nascita del Giro d’Italia deve necessariamente essere collocata nel quadro internazionale che aveva visto, nel luglio del 1903, l’esordio del Tour de France, su iniziativa di Henri Desgrange e del quotidiano sportivo “L’Auto”. La spettacolarità e il successo del Tour ebbero un ruolo centrale nel mettere in moto anche in Italia il processo che portò, sei anni più tardi, al primo Giro d’Italia, partito da Milano il 12 maggio del 1909. Gli intenti dei promotori della corsa erano molteplici: favorire la vendita di biciclette; incrementare la tiratura de “La Gazzetta dello Sport”, promotrice dell’evento; accrescere la popolarità del ciclismo. Come nel caso del Tour, anche per il Giro d’Italia fu subito evidente il legame che univa a doppio filo evento sportivo, circuito mediatico e apparato produttivo nazionale. Non a caso a sostenere l’iniziativa dei tre ideatori – Eugenio Camillo Costamagna (direttore della Gazzetta), Armando Cougnet e Tullo Morgagni – vi fu fin da subito Angelo Gatti, industriale dell’Atala intenzionato a imporre i propri velocipedi sul mercato. Il primo Giro, vinto da Luigi Ganna, non deluse le attese dei suoi organizzatori: 127 partecipanti (gli iscritti inizialmente erano 166, gran parte dei quali provenienti dal nord Italia, soprattutto area lombarda, seguiti da piemontesi, romagnoli, toscani e veneti); folle assiepate lungo tutto il percorso; “La Gazzetta” che vide accrescere le sue tirature oltre le 100.000 copie. Lo stesso aumento delle biciclette circolanti nel paese, che quasi raddoppiarono tra il 1909 e il 1910, risentì dell’“effetto Giro”, oltre che della riduzione della tassa di circolazione avvenuta quell’anno. Quel primo Giro, e poi quelli che seguirono, finirono per fare da specchio al paese che attraversavano, fotografando i mutamenti del paese, le speranze e le paure degli italiani, i passaggi storici epocali così come le piccole rivoluzioni quotidiane, e divenendo di fatto una grande narrazione attorno al tema del progresso, o ancor più esattamente, della modernizzazione del paese.

Quale diffusione ha la pratica ciclistica in Italia negli anni tra le due guerre?
Il periodo tra le due guerre rappresenta il momento di affermazione della bicicletta come mezzo di trasporto quotidiano di massa. Nel 1922 circolavano in Italia circa 2.000.000 di biciclette. Sarebbero divenute oltre tre milioni e mezzo nel 1934 e circa cinque milioni nel 1938. Un incremento favorito dalla ulteriore riduzione del costo del mezzo e, più avanti, dall’abolizione della tassa di circolazione. Se i numeri restituiscono una fotografia in cui la bicicletta appariva regina incontrastata della strada, si andava tuttavia parallelamente consolidando in quegli anni l’idea che sempre più ne faceva il mezzo di “operai e contadini”, a cui nell’immaginario collettivo veniva contrapposta l’automobile, il mezzo degli “agiati”. In tal modo il regime portava avanti la sua politica di motorizzazione di massa che, almeno nelle intenzioni, doveva incarnare insieme la celebrazione del binomio “modernismo-macchinismo” e l’utopia dell’“andare verso il popolo”. Quella che si prospettava era una vera e propria battaglia per la conquista dello spazio urbano, dove la bicicletta risultava sempre più marginalizzata, a favore dell’automobile e dei gruppi sociali che in essa si identificavano. Salvo poi inaugurare un “recupero” della bicicletta in funzione autarchica all’inizio degli anni Trenta quando dapprima le difficoltà economiche legate all’arrivo della grande depressione, poi la svolta autarchica, sembrarono offrire nuovi spazi per una rivalutazione dell’economico mezzo di trasporto. Il recupero della bicicletta avveniva, dunque, non nel quadro di una ragionata e consapevole gestione della mobilità favorevole alla due-ruote, ma nella cornice di una politica di austerità dove ai temi della modernità e della velocità si opponevano quelli del risparmio, del sacrificio, della valorizzazione delle risorse interne. La bicicletta finiva così per essere inevitabilmente legata, in un simile contesto, a un’idea di povertà e di sacrificio di cui gli italiani del secondo dopoguerra avrebbero fatto di tutto per liberarsi, assieme ad altre eredità associate, nell’immaginario collettivo, al ventennio fascista e alla guerra.

Quale ruolo riveste il ciclismo nella politica sportiva del regime?
Il regime portò avanti una politica sportiva fortemente contraddittoria nei confronti del ciclismo. In una prima fase il fascismo preferì puntare su quegli sport che meglio esaltavano i valori della modernità (vedi gli sport motoristici) e della forza (vedi la boxe), o quelli che meglio si prestavano ai fini propagandistici del regime (vedi il calcio). La bicicletta, con il suo bagaglio di fatica, di sudore, di polvere, mal si prestava a farsi simbolo di quell’idea di modernizzazione che il fascismo pretendeva di proporre. Al momento dell’ascesa al potere del regime, inoltre, il ciclismo si era già affermato da alcuni anni come sport popolare, finendo così per pagare il suo essere fin troppo identificabile con quell’Italia liberale nei confronti della quale il regime aveva voluto affermare il suo essere elemento di discontinuità. Il ciclismo, insomma, era il passato, e come tale il regime decise di tollerarlo, di sfruttarne la popolarità, ma non lo mise mai al centro della sua politica sportiva e più in generale culturale, salvo poi recuperarlo nel momento in cui divenne funzionale al rilancio della bicicletta come mezzo autarchico. Non a caso, il rilancio del ciclismo sportivo voluto dal fascismo nei primi anni Trenta tendeva a favorire un basso profilo degli aspetti più propriamente eroici delle imprese sportive, per esaltare invece un ciclismo spesso più vicino a una visione cicloturistica. Va letta in questa prospettiva anche la politica a favore della promozione (o meglio del recupero) del ciclismo su pista. In tutto questo quadro non si deve trascurare il ruolo di Mussolini. Il duce non amava la bicicletta. Rarissime le immagini che lo ritraggono in bicicletta. Non è neppure un mistero lo scarso entusiasmo con cui guardò agli eroi del ciclismo, soprattutto al giovane ed emergente Gino Bartali. I rari momenti di interesse mostrati per il Giro appaiono tutti funzionali a qualche scopo contingente che andava oltre il ciclismo stesso. Come quando, nel 1936, il duce volle introdurre nel percorso la cronoscalata del Terminillo perché fungesse da evento di inaugurazione della strada asfaltata fatta realizzare negli anni precedenti là dove fino a quel momento c’era solamente poco più di una mulattiera. In quella stessa edizione un’altra tappa, la Padova-Venezia, venne corsa sul nuovo tratto autostradale da poco inaugurato. Anche in questo caso il ciclismo era semplicemente lo strumento – uno strumento capace di attirare su di sé milioni di occhi interessati – per propagandare l’efficienza del regime. Poco importava che il duce avesse scelto di sfruttare la bicicletta per pubblicizzare un modello di infrastruttura espressamente pensato, come rivelava il nome stesso, per escludere la due ruote dalla circolazione: contraddizioni di un regime che sempre più faticava a conciliare retorica e realtà.

Quale funzione ha la bicicletta nell’Italia della ricostruzione?
Quella uscita dal secondo conflitto mondiale era un’Italia messa in ginocchio da cinque lunghi anni di guerra, da un ventennio di dittatura e da una lacerante guerra di Liberazione, capaci di sbriciolare l’unità del tessuto sociale della nazione. I governi di unità nazionale, prima, e quelli centristi, poi, si trovarono in eredità una ricostruzione incaricata di spazzare via le macerie, non solo materiali, lasciate dal conflitto. In un contesto di questo tipo persino l’umile bicicletta rappresentava per molte famiglie un oggetto difficilmente raggiungibile, e perciò tanto più prezioso, tanto che la due ruote sembrò per un attimo recuperare il suo status di mezzo più ambito, simbolo di una riconquistata libertà, ideale e materiale. La centralità della bicicletta nell’Italia della ricostruzione è indirettamente confermata dal fenomeno, che andò crescendo in modo esponenziale, dei furti di biciclette, perpetrati con i più diversi e ingegnosi stratagemmi. Fu proprio ispirandosi a questi innumerevoli fatti di cronaca che lo scrittore Luigi Bartolini scrisse, nel 1946, il romanzo Ladri di biciclette, da cui avrebbe preso ispirazione due anni più tardi Vittorio De Sica per l’omonimo film, divenuto un capolavoro del neorealismo cinematografico italiano. Una pellicola che sanciva il peso materiale della bicicletta non solo come mezzo di trasporto quotidiano ma financo come migliore alleato di lavoro dell’uomo. Nell’immediato dopoguerra e per tutto il periodo della ricostruzione la bicicletta ebbe dunque il sapore della riconquista: della pace, della libertà, della normalità, accompagnando gli italiani nelle loro fatiche quotidiane ma anche nelle sempre più agognate vacanze. Ma la stagione d’oro della mobilità ciclistica ebbe breve durata, incalzata da una rincorsa alla motorizzazione che, in un paese con sacche di povertà e arretratezza ancora marcate, passò dapprima attraverso la motorizzazione a due ruote. Biciclette a motore, prima, Vespe e Lambrette, poi, rappresentarono la via nazionale alla motorizzazione in un paese ancora troppo povero per potersi permettere non solo l’automobile ma anche la motocicletta, eppure così bramoso di motorizzarsi da non poter attendere tempi migliori. L’immissione sul mercato della Fiat 600, nel 1955, e della nuova Fiat 500, nel 1957, segnarono infine, nei fatti e nell’immaginario collettivo, un punto di non ritorno nella vicenda dell’ingresso del paese nell’era della motorizzazione e dei consumi di massa. A quattordici anni di distanza da Ladri di biciclette, nel 1962, un altro capolavoro del cinema italiano fotografava la rivoluzione materiale e culturale avvenuta: Il sorpasso di Dino Risi raccontava l’Italia del miracolo economico e assieme il declino della bicicletta, così come la pellicola di De Sica ne aveva celebrato la centralità sociale.

Eleonora Belloni, PhD. È assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali dell’Università di Siena. Attualmente si occupa di storia della mobilità e dei trasporti, con particolare riguardo alla storia della mobilità ciclistica, e di storia sociale dello sport in Italia. Ha pubblicato Ideologia dell’industrializzazione e borghesia imprenditoriale dal nazionalismo al fascismo (1907-1925) (Lacaita, 2008); La Confindustria e lo sviluppo economico italiano. Gino Olivetti tra Giolitti e Mussolini (Il Mulino, 2011); La Confindustria dalla ricostruzione al miracolo economico. Angelo Costa (1945-1970) (Nerbini, 2012); Quando si andava in velocipede. Storia della mobilità ciclistica in Italia (1870-1955) (FrancoAngeli, 2019).

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